Senecio
     SENECIO

Direttore
Emilio Piccolo


Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'illuminismo

Recensioni, note critiche, extravaganze



Redazione
Sergio Audano, Gianni Caccia, Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola, Lorenzo Fort, Letizia Lanza

I Persiani di Eschilo al teatro greco di Siracusa
di Marinella Fiume

Scheda biobibliografica

Con la rappresentazione della tragedia di Eschilo “I Persiani”, per la regia di Antonio Calenda, si è conclusa la stagione delle manifestazioni classiche del teatro greco di Siracusa. 
 Con la messa in scena anche delle “Eumenidi”, sempre di Eschilo, anche quest’anno l’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) ha offerto rappresentazioni di alto livello qualitativo che, riproponendo il repertorio tragico greco nel contesto che più gli è congeniale, ha saputo riaffermare ancora una volta la validità e l’attualità perenne del patrimonio classico e le potenzialità della Sicilia come terra capace di conservare, trasmettere e valorizzare questo antichissimo patrimonio culturale.
 La scelta de “I Persiani” è stata determinata senza dubbio dall’attualità del tema della guerra che Eschilo affronta nella tragedia, la cui presa presso il grande pubblico che ha affollato quasi tutti i giorni il teatro greco è stata accresciuta anche dalla validità della messa in scena nella quale Calenda ha saputo far convivere l’austerità drammatica tipicamente eschilea con soluzioni registiche capaci di permettere una fruizione più leggera dell’opera (musiche di Germano Mazzocchetti drammatiche ma non eccessivamente lugubri, alternanza coro – singoli attori, sapiente simbolismo scenografico di Bruno Buonincontri) e dal cast di prim’ordine che ha trovato inimitabili interpreti in Piera Degli Espositi (Regina Atossa), seppur infortunata, in Roberto Herlitzka (uno straordinario Messaggero), Osvaldo Ruggieri (ombra di Dario), Luca Lazzareschi (Serse), oltre che negli Anziani e nel Coro.
“I Persiani” (472), la tragedia più antica pervenutaci intera,  è piuttosto “anomala” in quanto affronta come argomento un evento storico – la sconfitta dei Persiani a Salamina da parte della coalizione greca, avvenuta otto anni prima -  e non, come di  consueto, mitico. Tuttavia, non in questo consistette l’audace originalità di Eschilo, poiché già qualche anno prima Frinico aveva riportato la palma mettendo in scena, con la Presa di Mileto, un argomento analogo. Del resto, in una cultura ancora ampiamente orale come quella ateniese del V sec. a.C., anche gli eventi storici avevano bisogno di diventare leggenda per essere tramandati e diventare patrimonio popolare, e la sorprendente vittoria della democrazia ateniese sul colosso persiano poteva rientrare nel patrimonio politico-religioso del popolo greco solo attraverso una forma di autocoscienza collettiva, com’era appunto quella del teatro. Non a caso, il dramma venne finanziato dall’astro sorgente della politica ateniese, quel Pericle che, seppur giovanissimo,  aveva già un chiaro progetto per la supremazia su tutte le città greche e l’unità intorno ad Atene. 
 L’originalità consisteva piuttosto nella scelta del punto di vista che il tragediografo adotta per raccontare la storia: non quello del vincitore, bensì quello del vinto, del nemico, del “barbaro” la cui memoria potrà, sola, testimoniare il valore del vincitore. Allo stesso modo, nell’epitaffio di Eschilo, probabilmente composto da lui stesso leggiamo: “Eschilo, figlio di Euforione, ateniese, morto a Gela produttrice di grano, questo monumento ricopre: il bosco di Maratona potrebbe raccontare il suo glorioso valore e il Medo dalle lunghe chiome che lo conosce”. Poiché solo immaginandoci attraverso gli occhi degli altri, rappresentandoli in modo credibile, distanziandoci da noi stessi, sarà riconosciuta la validità politica ed etica dell’azione del vincitore, saranno i Persiani stessi a riconoscere che la ragione della vittoria risiede nel fatto che i Greci “si governano da sé e si battono per la propria libertà” e dunque devono combattere fino allo stremo per liberare “la patria, i bambini, le donne, le dimore degli dei padri e le tombe degli antenati”. Impossibile perdere quando la posta in gioco è così alta! 
 Al contrario, l’impresa di Serse, come lo spettro del padre Dario evocato dalla tomba per avere lumi sul futuro predirà tristemente, è stata frutto di hybris,e “la tracotanza, fiorendo, frutta una spiga di illusione (ate) da cui mieterà un raccolto di lacrime”. La sconfitta è, dunque, il castigo di Zeus alle presunzioni arroganti, alla smodata insolenza del giovane, troppo giovane, Serse. 
 La chiave di lettura più immediata della tragedia potrebbe apparire a prima vista quella che vede nel conflitto tra Grecia e Oriente il contrasto insanabile tra ragione - misura e arroganza - dismisura, tra democrazia e assolutismo, tra un popolo libero e una massa di schiavi. Ma, a ben vedere, nelle parole di Dario non c’è solo il rimprovero alla presunzione persiana, ma anche un avvertimento e un insegnamento al vincitore greco, cui addita la fragilità di ogni impero, il destino di finitezza, dolore, e morte di tutti gli esseri umani, dei vinti come dei vincitori. Ed è qui il senso più profondo, della tragedia, nella constatazione che ogni imperialismo è destinato a incontrare i suoi limiti nella volontà di autonomia degli altri, ma soprattutto che la finitezza è comune a tutti gli esseri umani  e che il destino assegnato dagli Dei agli uomini è di imparare solo attraverso il dolore e la sofferenza (“sapere è patire”).
Così una profonda pietà è quella che nutre Eschilo nei confronti del nemico, di Serse, sopravvissuto ai suoi migliori uomini, il quale maledice la sorte che non ha voluto farlo morire insieme a loro espiando il suo peccato di hybris, e dei principi persiani che non sono morti senza nome, ma i cui nomi, anzi, in segno di grande rispetto verso il coraggio e l’eroismo di un nemico vinto – si badi - con l’inganno, sono citati uno per uno, nel racconto del messaggero che è un rosario atroce di caduti: venti versi che costituiscono un capolavoro che non ha pari nella letteratura mondiale.
 Così l’esodo, che vede in scena Serse e il Coro, si conclude con delle parole che sono piuttosto un rimando di gemiti, lamenti strazianti, urla di dolore, balbettii dall’ultima disfatta totale, perché non c’è futuro per quello che è stato un impero grandissimo e ricchissimo, che non potrà più risollevarsi, avendo perso i suoi figli migliori, svuotato le case di figli, isterilito il grembo delle madri. E sull’infelice terra di Persia, divenuta luogo di lutto, deserto di morti,  calerà presto e per sempre il sipario della storia.
 Ma riecheggiano ancora dall’aldilà le parole di Dario e suonano come tragico ammonimento per vincitori e vinti: “Nessuno disprezzi la propria condizione per desiderare un’altra sorte, finendo col dissipare la prosperità che già possiede”, messaggio di pace ieri come oggi per le potenze e le  superpotenze che, non contente del proprio benessere ottenuto spesso a danno di altri popoli, ritengono di doverlo accrescere smisuratamente  ricorrendo, oggi come ieri, ancora e sempre alla guerra. La realistica metafora eschilea della mattanza dei nemici come fossero tonni in una grande tonnara risonante di colpi, spumeggiante di sangue, balenante di corpi guizzanti mentre toglie alla guerra ogni sublime epos eroico, la restituisce a tutta la crudezza della sua realtà.  

19  luglio 2003 


Per contattare la
DIREZIONE


Indice
Saggi, enigmi apophoreta
L'antico on line
Classici latini e greci

Rivisitazioni manipolazionii

La fonoteca di Senecio
Schede dei collaboratori
Recensioni, note extravaganze
La biblioteca di Senecio


In collaborazione con
VICO ACITILLO- POETRY WAVE