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Redazione
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Asterione, tra ieri e oggi. Spunti di lettura
di Letizia Lanza

Scheda biobibliografica

Numerosissime e altrettanto varie, si sa, le riletture interpretazioni riscritture del patrimonio mitico greco-romano – giusto quanto afferma Cesare Pavese nella premessa ai suoi ineffabili Dialoghi con Leucò: «Potendo si sarebbe volentieri fatto a meno di tanta mitologia. Ma siamo convinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo – cioè non qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati che null'altro potrebbe rendere. Quando ripetiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio mitico, esprimiamo in mezza riga, in poche sillabe, un fatto sintetico e comprensivo, un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo di passione, di stato umano, tutto un complesso concettuale. Se poi questo nome, questo gesto ci è familiare fin dall'infanzia, dalla scuola – tanto meglio. L'inquietudine è più vera e tagliente quando sommuove una materia consueta. Qui ci siamo accontentati di servirci di miti ellenici data la perdonabile voga popolare di questi miti, la loro immediata e tradizionale accettabilità. Abbiamo orrore di tutto ciò che è incomposto, eteroclito, accidentale e cerchiamo – anche materialmente – di limitarci, di darci una cornice, d'insistere su una conclusa presenza. Siamo convinti che una grande rivelazione può uscire soltanto dalla testarda insistenza su una stessa difficoltà». 

Un eterno, testardo ritorno, quindi, un immarcescibile (ri)vivere dell'antico nel (del) nuovo. Una sorte gloriosa e perenne alla quale, è naturale, non sfugge uno tra i miti più celebri e fertili della Grecità, ossia la leggenda di Teseo trionfatore del Minotauro grazie all'aiuto, generoso e determinante, di Arianna – nobile ma del pari sventurata principessa cretese.

Assai nota, tra le fonti antiche, la versione che fornisce Plutarco, dove l'orrendo figlio di Pasifae ingravidata da Toro – «"un'ibrida forma, un frutto mostruoso", in cui "s'univan due nature, d'uomo e toro"» (Vita di Teseo 15, trad. di C. Carena, cfr. Euripide, fr. 996; 997 Nauck2) – era una belva assetata di sangue, responsabile dell'uccisione, ogni nove anni, di sette fanciulle e altrettanti fanciulli inviati in ostaggio dagli Ateniesi. Teseo allora, straziato per la sorte dei piccoli innocenti, «si offrì spontaneamente ad essere incluso tra le vittime fuori sorteggio»; poi, sbarcato a Creta, «ebbe da Arianna, innamoratasi di lui, il famoso filo, imparò come districarsi dagli andirivieni del Labirinto e ammazzò il Minotauro; indi tornò a casa, portando seco la fanciulla e i compagni» (17; 19).

Così il facondo scrittore di Cheronea nel presentare l'abominevole ibrido. Il quale, per altro, diviene oggetto di riletture/riscritture da parte di innumeri autori antichi e moderni, fino a trovare un totale, positivo rovesciamento nello struggente testo di Jorge Luis Borges (La casa di Asterione in L'Aleph, a cura di T. Scarano. Trad. it. di F. Tentori Montalto, Milano, 1998) – con un Minotauro/Asterione nient'affatto misantropo né crudele, bensì vittima consapevole e dolente di un'assoluta amara invivibile incomprensione/solitudine: «So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, e forse di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole. È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi né la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine. E troverà una casa come non ce n'è altre sulla faccia della terra. (Mente chi afferma che in Egitto ce n'è una simile)» (p. 57). 

Separato da tutti, dunque. Solo, solissimo di un allucinato isolamento, l'Asterione borgesiano – ma non prigioniero (almeno nel senso letterale del termine): «Un'altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero. Dovrò ripetere che non c'è una porta chiusa, e aggiungere che non c'è una sola serratura? D'altronde, una volta al calare del sole percorsi le strade; e se prima di notte tornai, fu per il timore che m'infondevano i volti della folla, volti scoloriti e spianati, come una mano aperta. Il sole era già tramontato, ma il pianto accorato di un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sullo stilobate del tempio delle Scuri, altri ammucchiavano pietre. Qualcuno, credo, cercò rifugio nel mare. Non per nulla mia madre fu una regina; non posso confondermi col volgo, anche se la mia modestia lo vuole. La verità è che sono unico. Non m'interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla può essere comunicato attraverso l'arte della scrittura. Le fastidiose e volgari minuzie non hanno ricetto nel mio spirito, che è atto solo al grande; non ho mai potuto ricordare la differenza che distingue una lettera dall'altra. Un'impazienza generosa non ha consentito che imparassi a leggere. A volte me ne dolgo, perché le notti e i giorni sono lunghi» (pp. 57-58).

Come si vede, nella riscrittura di Borges il protagonista smentisce con forza la sua prigionia – pur soffrendo, del prigioniero, tutte le angosce: la noia, l'estraneità, il desiderio – non realizzabile se non nel giuoco (insaziato) dell'immaginazione – di condividere la vita, di poter essere compreso, dunque liberato. Attende infatti un redentore, Asterione, un salvatore benefico che lo riscatti dall'oppressione dell'esistenza – ovvero dell'insopportabile casa, con i suoi infiniti corridoi e le sue infinite porte: «Tutte le parti della casa esistono molte volte, qualunque luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un cortile, un abbeveratoio, una greppia; sono quattordici [sono infinite] le greppie, gli abbeveratoi, i cortili, le cisterne. La casa è grande come il mondo; o meglio è il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere cortili con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la strada e vidi il tempio delle Scuri e il mare. Non compresi, finché una visione notturna mi rivelò che anche i mari e i templi sono quattordici [sono infiniti]. Tutto esiste molte volte, quattordici volte; soltanto due cose al mondo sembrano esistere una volta sola: in alto, l'intricato sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e questa enorme casa, ma non me ne ricordo» (pp. 58-59). 

Già mostro orrifico per antonomasia, il Minotauro di Borges diventa una creatura dotata di sensibilità più che umana. E pensa; si addolora; rimugina; si sfinisce correndo a precipizio, quasi falena impazzita; si sdoppia per dimenticare il proprio stato; si infligge torture atroci : «Come il montone che s'avventa, corro per i corridoi di pietra fino a cadere al suolo in preda alla vertigine. Mi acquatto all'ombra di una cisterna e all'angolo di un corridoio e gioco a rimpiattino. Ci sono terrazze dalle quali mi lascio cadere, finché resto insanguinato. In qualunque momento posso giocare a fare l'addormentato, con gli occhi chiusi e il respiro pesante (a volte m'addormento davvero; a volte, quando riapro gli occhi, il colore del giorno è cambiato). Ma, fra tanti giochi, preferisco quello di un altro Asterione. Immagino ch'egli venga a farmi visita e che io gli mostri la casa» (p. 58).

Ed ecco, limpida come cristallo, la duplice catastrophe, reciprocamente liberatoria – dove, però, il già "umano" Teseo è solamente un eroe freddo e inconsapevole (indifferente) della (alla) propria crudeltà: «Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce in fondo ai corridoi di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi minuti. Cadono uno dopo l'altro, senza che io mi macchi le mani di sangue. Dove sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un corridoio dagli altri. Ignoro chi siano, ma so che uno di essi profetizzò, sul punto di morire, che un giorno sarebbe giunto il mio redentore. Da allora la solitudine non mi duole, perché so che il mio redentore vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi portasse a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio redentore? mi domando. Sarà un toro o un uomo? Sarà forse un toro con volto d'uomo? O sarà come me? –Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue. "Lo crederesti, Arianna?" disse Teseo. "Il Minotauro non si è quasi difeso"» (p. 59).

Da tutto ciò, inevitabile, la presa d'atto che la realtà non è mai come ci si aspetta che sia, che la vita riserva sorprese assai amare, che il dolore accomuna tutti gli esseri, che d'altro canto l'eroismo non appartiene solo ai catalogati "eroi". Disillusa conclusione, è evidente: la quale, pur nelle inevitabili, palesi diversità, si (ri)specchia nell'eccelsa rivisitazione del genovese Giorgio Gazzolo (vd. l'apposita sezione di «Senecio») – dove il Minotauro, chiarisce lo stesso autore, si staglia a «immagine risalita dal buio dell'Es». 

Si avvita così una sorta di meditazione allegorica sul tema del viaggio (inesistente!), nella quale – dice Giorgio Linguaglossa – «Gazzolo lacera il sipario dell'Inautentico narrando, per accenni indiretti e sconnessi, il mito di Teseo e di Arianna, narra, per via indiretta, la distruzione operata dal nuovo eroe, ovvero, il trionfo della techné, della tecnica, così che l'essenza della metafisica moderna coincide con l'essenza della tecnica e la tecnica come Destino (Geschick) del mondo moderno. Teseo non può non vincere perché è il portatore della tecnica ed Arianna è sua complice nel delitto. D'ora in poi il Minotauro sarà un "mostro" che doveva essere soppresso, si tratta "di un'impresa fittizia; la mappa / dello spazio concentrico / non era geometria del reale"» («Poiesis» 26-27, 2002-2003, p. 89). 


7 settembre 2003 


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