Numerosissime
e altrettanto varie, si sa, le riletture interpretazioni riscritture
del
patrimonio mitico greco-romano – giusto quanto afferma Cesare Pavese
nella
premessa ai suoi ineffabili Dialoghi con Leucò:
«Potendo
si sarebbe volentieri fatto a meno di tanta mitologia. Ma siamo
convinti
che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo – cioè
non
qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene, come a
tutti
i linguaggi, una particolare sostanza di significati che null'altro
potrebbe
rendere. Quando ripetiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio
mitico,
esprimiamo in mezza riga, in poche sillabe, un fatto sintetico e
comprensivo,
un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo di
passione, di stato umano, tutto un complesso concettuale. Se poi questo
nome, questo gesto ci è familiare fin dall'infanzia, dalla
scuola
– tanto meglio. L'inquietudine è più vera e tagliente
quando
sommuove una materia consueta. Qui ci siamo accontentati di servirci di
miti ellenici data la perdonabile voga popolare di questi miti, la loro
immediata e tradizionale accettabilità. Abbiamo orrore di tutto
ciò che è incomposto, eteroclito, accidentale e cerchiamo
– anche materialmente – di limitarci, di darci una cornice, d'insistere
su una conclusa presenza. Siamo convinti che una grande rivelazione
può
uscire soltanto dalla testarda insistenza su una stessa
difficoltà».
Un
eterno, testardo ritorno, quindi, un immarcescibile (ri)vivere
dell'antico
nel (del) nuovo. Una sorte gloriosa e perenne alla quale, è
naturale,
non sfugge uno tra i miti più celebri e fertili della
Grecità,
ossia la leggenda di Teseo trionfatore del Minotauro grazie all'aiuto,
generoso e determinante, di Arianna – nobile ma del pari sventurata
principessa
cretese.
Assai
nota, tra le fonti antiche, la versione che fornisce Plutarco, dove
l'orrendo
figlio di Pasifae ingravidata da Toro – «"un'ibrida forma, un
frutto
mostruoso", in cui "s'univan due nature, d'uomo e toro"» (Vita
di Teseo 15, trad. di C. Carena, cfr. Euripide, fr. 996; 997 Nauck2)
– era una belva assetata di sangue, responsabile dell'uccisione, ogni
nove
anni, di sette fanciulle e altrettanti fanciulli inviati in ostaggio
dagli
Ateniesi. Teseo allora, straziato per la sorte dei piccoli innocenti,
«si
offrì spontaneamente ad essere incluso tra le vittime fuori
sorteggio»;
poi, sbarcato a Creta, «ebbe da Arianna, innamoratasi di lui, il
famoso filo, imparò come districarsi dagli andirivieni del
Labirinto
e ammazzò il Minotauro; indi tornò a casa, portando seco
la fanciulla e i compagni» (17; 19).
Così
il facondo scrittore di Cheronea nel presentare l'abominevole ibrido.
Il
quale, per altro, diviene oggetto di riletture/riscritture da parte di
innumeri autori antichi e moderni, fino a trovare un totale, positivo
rovesciamento
nello struggente testo di Jorge Luis Borges (La casa di Asterione
in L'Aleph, a cura di T. Scarano. Trad. it. di F. Tentori
Montalto,
Milano, 1998) – con un Minotauro/Asterione nient'affatto misantropo
né
crudele, bensì vittima consapevole e dolente di un'assoluta
amara
invivibile incomprensione/solitudine: «So che mi accusano di
superbia,
e forse di misantropia, e forse di pazzia. Tali accuse (che
punirò
al momento giusto) sono ridicole. È vero che non esco di casa,
ma
è anche vero che le porte (il cui numero è infinito)
restano
aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non
troverà qui lussi donneschi né la splendida pompa dei
palazzi,
ma la quiete e la solitudine. E troverà una casa come non ce
n'è
altre sulla faccia della terra. (Mente chi afferma che in Egitto ce
n'è
una simile)» (p. 57).
Separato
da tutti, dunque. Solo, solissimo di un allucinato isolamento,
l'Asterione
borgesiano – ma non prigioniero (almeno nel senso letterale del
termine):
«Un'altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un
prigioniero.
Dovrò ripetere che non c'è una porta chiusa, e aggiungere
che non c'è una sola serratura? D'altronde, una volta al calare
del sole percorsi le strade; e se prima di notte tornai, fu per il
timore
che m'infondevano i volti della folla, volti scoloriti e spianati, come
una mano aperta. Il sole era già tramontato, ma il pianto
accorato
di un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che mi avevano
riconosciuto.
La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano
sullo
stilobate del tempio delle Scuri, altri ammucchiavano pietre. Qualcuno,
credo, cercò rifugio nel mare. Non per nulla mia madre fu una
regina;
non posso confondermi col volgo, anche se la mia modestia lo vuole. La
verità è che sono unico. Non m'interessa ciò che
un
uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso
che
nulla può essere comunicato attraverso l'arte della scrittura.
Le
fastidiose e volgari minuzie non hanno ricetto nel mio spirito, che
è
atto solo al grande; non ho mai potuto ricordare la differenza che
distingue
una lettera dall'altra. Un'impazienza generosa non ha consentito che
imparassi
a leggere. A volte me ne dolgo, perché le notti e i giorni sono
lunghi» (pp. 57-58).
Come
si vede, nella riscrittura di Borges il protagonista smentisce con
forza
la sua prigionia – pur soffrendo, del prigioniero, tutte le angosce: la
noia, l'estraneità, il desiderio – non realizzabile se non nel
giuoco
(insaziato) dell'immaginazione – di condividere la vita, di poter
essere
compreso, dunque liberato. Attende infatti un redentore, Asterione, un
salvatore benefico che lo riscatti dall'oppressione dell'esistenza –
ovvero
dell'insopportabile casa, con i suoi infiniti corridoi e le sue
infinite
porte: «Tutte le parti della casa esistono molte volte, qualunque
luogo di essa è un altro luogo. Non ci sono una cisterna, un
cortile,
un abbeveratoio, una greppia; sono quattordici [sono infinite] le
greppie,
gli abbeveratoi, i cortili, le cisterne. La casa è grande come
il
mondo; o meglio è il mondo. Tuttavia, a forza di percorrere
cortili
con una cisterna e polverosi corridoi di pietra grigia, raggiunsi la
strada
e vidi il tempio delle Scuri e il mare. Non compresi, finché una
visione notturna mi rivelò che anche i mari e i templi sono
quattordici
[sono infiniti]. Tutto esiste molte volte, quattordici volte; soltanto
due cose al mondo sembrano esistere una volta sola: in alto,
l'intricato
sole; in basso, Asterione. Forse fui io a creare le stelle e il sole e
questa enorme casa, ma non me ne ricordo» (pp. 58-59).
Già
mostro orrifico per antonomasia, il Minotauro di Borges diventa una
creatura
dotata di sensibilità più che umana. E pensa; si
addolora;
rimugina; si sfinisce correndo a precipizio, quasi falena impazzita; si
sdoppia per dimenticare il proprio stato; si infligge torture atroci :
«Come il montone che s'avventa, corro per i corridoi di pietra
fino
a cadere al suolo in preda alla vertigine. Mi acquatto all'ombra di una
cisterna e all'angolo di un corridoio e gioco a rimpiattino. Ci sono
terrazze
dalle quali mi lascio cadere, finché resto insanguinato. In
qualunque
momento posso giocare a fare l'addormentato, con gli occhi chiusi e il
respiro pesante (a volte m'addormento davvero; a volte, quando riapro
gli
occhi, il colore del giorno è cambiato). Ma, fra tanti giochi,
preferisco
quello di un altro Asterione. Immagino ch'egli venga a farmi visita e
che
io gli mostri la casa» (p. 58).
Ed
ecco, limpida come cristallo, la duplice catastrophe,
reciprocamente
liberatoria – dove, però, il già "umano" Teseo è
solamente
un eroe freddo e inconsapevole (indifferente) della (alla) propria
crudeltà:
«Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io
li liberi da ogni male. Odo i loro passi o la loro voce in fondo ai
corridoi
di pietra e corro lietamente incontro ad essi. La cerimonia dura pochi
minuti. Cadono uno dopo l'altro, senza che io mi macchi le mani di
sangue.
Dove sono caduti restano, e i cadaveri aiutano a distinguere un
corridoio
dagli altri. Ignoro chi siano, ma so che uno di essi profetizzò,
sul punto di morire, che un giorno sarebbe giunto il mio redentore. Da
allora la solitudine non mi duole, perché so che il mio
redentore
vive e un giorno sorgerà dalla polvere. Se il mio udito potesse
percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Mi
portasse
a un luogo con meno corridoi e meno porte! Come sarà il mio
redentore?
mi domando. Sarà un toro o un uomo? Sarà forse un toro
con
volto d'uomo? O sarà come me? –Il sole della mattina
brillò
sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue. "Lo
crederesti,
Arianna?" disse Teseo. "Il Minotauro non si è quasi
difeso"»
(p. 59).
Da
tutto ciò, inevitabile, la presa d'atto che la realtà non
è mai come ci si aspetta che sia, che la vita riserva sorprese
assai
amare, che il dolore accomuna tutti gli esseri, che d'altro canto
l'eroismo
non appartiene solo ai catalogati "eroi". Disillusa conclusione,
è
evidente: la quale, pur nelle inevitabili, palesi diversità, si
(ri)specchia nell'eccelsa rivisitazione del genovese Giorgio Gazzolo
(vd.
l'apposita sezione di «Senecio») – dove il Minotauro,
chiarisce
lo stesso autore, si staglia a «immagine risalita dal buio
dell'Es».
Si
avvita così una sorta di meditazione allegorica sul tema del
viaggio
(inesistente!), nella quale – dice Giorgio Linguaglossa –
«Gazzolo
lacera il sipario dell'Inautentico narrando, per accenni indiretti e
sconnessi,
il mito di Teseo e di Arianna, narra, per via indiretta, la distruzione
operata dal nuovo eroe, ovvero, il trionfo della techné,
della tecnica, così che l'essenza della metafisica moderna
coincide
con l'essenza della tecnica e la tecnica come Destino (Geschick)
del mondo moderno. Teseo non può non vincere perché
è
il portatore della tecnica ed Arianna è sua complice nel
delitto.
D'ora in poi il Minotauro sarà un "mostro" che doveva
essere
soppresso, si tratta "di un'impresa fittizia; la mappa / dello
spazio
concentrico / non era geometria del reale"»
(«Poiesis»
26-27, 2002-2003, p. 89).