Se
la pietra conserva le tracce dell’uomo… se nelle sue venature si legge
oltre allastoria naturale quella
spirituale… specie quando si esaminino invece di sassi opere
d’artefice…
allora per carpirne i segreti servono uno scienziato e un esploratore
dell’anima:
un geologo, per esempio, e un artista.
Forse
non è casuale che Nin Scolari, protagonista dell’avanguardia
teatrale
europea, vanti entrambe le radici nel proprio patrimonio genetico. E
con
ogni probabilità il geologo ha esercitato una qualche influenza
sulle scelte del drammaturgo affascinato dal mistero delle aree
archeologiche.
Ovvero degli ultimi angoli in cui, per usare una sua espressione,
«I
Miti si sono rifugiati nell’attesa di tempi e uomini diversi».
Angelo
“Nin” Scolari nasce scienziato, geologo appunto, e non di poco conto:
presso
la prestigiosa Università di Padova.
Nin,
com’è avvenuto il tuo incontro con il teatro?
Il
teatro è la mia vita… rappresenta il senso profondodel
mio essere, fin da bambino, potrei dire. Certo è stato dopo
lunga
riflessione che sono giunto alla conclusione di aver trovato nella
drammaturgia
la forma espressiva per me più efficace. E così, in modo
del tuttonaturale, è venuta
la scelta.
Di
abbandonare l’università e la geologia per ilpalcoscenico.
In
un certo senso è andata così anche se le parole ingannano.
Perché?
Detto
in questi termini assomiglia a un banale cambio di mestiere, di lavoro.
E
invece?
Il
teatro verso cui mi sono incamminato è stato quello di ricerca,
l’unico che mi permettesse d’individuare e portare alla luce nuovi
moduli
della comunicazione. Quindi non una forma d’arte caratterizzata dalla
messa
in scena organizzata…
Scusa,
Nin, cosa intendi per “teatro di ricerca”?
La
drammaturgia che punta a innovare i linguaggi dell’espressione
artistica.
Nel teatro del Novecento, inteso quale spettacolo proposto da una
compagnia
a un pubblico pagante all’interno di una struttura prestabilita,la
drammaturgia è finita risucchiata dalle esigenze del
palcoscenico.
Il “professionismo” teatrale l’ha uccisa. Quando lo spettatore ne ha
preso
atto il cortocircuito è stato inevitabile, i teatri si sono
svuotati:
non erano più “i luoghi della drammaturgia” e i fruitori li
hanno
disertati.
È
tutto qui il Novecento?
No.
Da Stanislavskij ad Appia, da Craig a Copeau, Piscator, Brecht e Artaud
già nella prima metà del Secolo assistiamo a un enorme
sforzo
creativo per ridefinire tutte le funzioni del teatro: attore,
drammaturgia,
spazio, pedagogia, gruppi di lavoro, spettatore. Ognuno darà le
proprie risposte, ma queste restano ancora oggi le domande fondamentali.
E
poi, nella seconda metà del Novecento, intendo?
C’è
una specie di cambio della guardia, compaiono i protagonisti di quello
che sarà chiamato “Nuovo Teatro” perché intendeva la
drammaturgia
come ricerca di un radicale cambiamento del modo di fare e concepire il
teatro… per far emergere alternative alle convenzioni cristallizzate
della
scena ufficiale, non solo sul piano delle forme, ma anche dei modi di
produzione.
Qualche
nome?
Julian
Beck e il Living Theatre, Kantor e il Cricot-2, Grotowski, Krapow,
l’Odin
Teatret… e gli italiani, Eugenio Barba, Carmelo Bene, Quartucci,
Ronconi…
Scusa,
Nin, mi sembramanchino del tutto
i teatri stabili e i grandi uomini di spettacolo.
È
vero e per una semplice ragione: il loro lavoro non ha prodotto nessun
rinnovamento. Potremmo collettivamente definirli “Teatro della
Conservazione”
perché rappresentano la sterile prosecuzione dei modelli
ottocenteschi,
uso strumentale della drammaturgia, regia intesa quale pura pratica di
composizione, l’attore visto come portatore di un messaggio a lui
estraneo
da proporre a un pubblico da illudere.
Il
“Teatro di Ricerca” invece?
Partiamo
da sette definizioni base:
1-
regia: montaggio delle azioni e della proposta dei processi creativi,
2-
drammaturgia: svolgimento simultaneo e coordinato delle funzioni del
teatro,
3-
spazio: contenitore idoneo alla messa in scena di situazioni non
illusorie,
4-
attore: colui che agisce e proietta la propria visione del mondo,
5-
gruppo: insieme in grado di elaborare una propria cultura,
6-
pedagogia: laboratorio dove nascono sia l’elementare, che il complesso,
7-
spettatore: parte attiva dell’evento teatrale.
Già
così s’intuisce quanto cambi la cosiddetta “messa in scena”.
«Per
salvare il teatro bisogna distruggere il teatro» sono parole di
Eleonora
Duse.
Sì
e aggiungeva «Gli attori e le attrici devono morire tutti di
peste».
In definitiva, il teatro di ricerca si allontana dalle categorie
dell’intrattenimento
per diventare un fermento vivo immerso nella realtà del proprio
tempo. Un produttore di suggestioni e di visioni del mondo in continua
evoluzione.
Allora
“distrutti i teatri” ti sei spostato nelle aree archeologiche, “I
Luoghi
del Mito”.
Certo.
Perché se il teatro, luogo fisico, cessa di essere il modello
unico
riconosciuto dove si svolge la rappresentazione, lo spazio teatrale
ridiventa
un’invenzione.
Per
quale ragione scomodare il Mito?
Noi
viviamo in un mondo dominato dalla scienza, che crede di poter
“matematizzare”
l’Universo e rifiuta il Mito convinto si tratti soltanto di unmodo
per travestire la Storia. Il Mito, però, sopprime Tempo e Storia
progressivi, vive in un eterno presente, sostituendo la linea con il
cerchio
congiunge gli estremi. Non spiega, s’impone, e convince rendendo
accettabile
ciò che è necessario, possibile l’impossibile, fondando e
creando la realtà. E della luce del Mito l’Uomo ha bisogno.
Come
mai le aree archeologiche?
Dopo
anni di lavoro nei siti della Magna Grecia, mi sono convinto che i
Miti,
scacciati dalla nostra vita quotidiana, si siano in un certo senso
rifugiati
nella suggestione di questi luoghi magici. In attesa di tempi e uomini
diversi.
La
tua ricerca è partita dai Miti classici con spettacoli quali
Sulle
Orme di Hera, La Biblioteca del Tempo, Tragoedia per terminare con un
approdo
inatteso.
Ti
riferisci a Reitia, Dea della nostra memoria…
Sì
e di conseguenza agli Antichi Veneti, che hai, per così dire,
evocato.
L’incontro
con Reitia, la Grande Dea Madre degli Antichi Veneti, è stato
casuale.
Pensando al Mito è stato inevitabile cominciare da quelli greci.
Nel corso delle mie ricerche, però, mi sono imbattuto in Reitia
e in questo popolo trascurato che rappresenta poi l’origine ancestrale
di chi ancora oggi vive nella regione.
Perché
“resuscitare” Reitia?
Mettere
in scena gli Antichi Veneti ha significato rendere visibile la nostra
storia,
le radici culturali più profonde di un popolo al crocevia di
diverse
civiltà: Illiri, Etruschi, Celti, Greci… per dirla con Paul
Klee:
«L’arte non riproduce ciò che è visibile. Rende
visibile».
Ecco, questo èil senso di
Reitia, dea della nostra memoria, rendere
visibile un passato rimasto
in ombra.
Una
memoria tutta al femminile quella che emerge dallo spettacolo.
In
effetti, oltre a Reitia spicca la figura di Nerka Trostiaia, un
personaggio
storico il cui corredo funebre ritrovato intatto costituisce uno dei
tesori
del Museo Nazionale Atestino. Del resto è l’evidenza
archeologica
a dircelo: nella società anticoveneta la figura della donna era
centrale. Ma si tratta di un aspetto. In futuro ne scandaglieremo altri
e per farlo andremo in cerca degli spazi che meglio potranno
valorizzare
il senso della nostra ricerca: nuovi e magari inusuali “Luoghi del
Mito”.
E
con quest’ultima suggestione lasciamo Nin Scolari. Torneremo a parlare
del suo lavoro prossimamente, approfondendo alcuni aspetti rimasti in
ombra.
Perché Nin Scolari significa Teatrocontinuo e Scuola Ulysses,
teatro
di strada e interventi drammaturgici nei contesti più
imprevedibili:
una sfida intellettuale sempre difficile e ricca di fascino.
14 settembre
2003