Egeo
Frammenti
di gipsoteca
Il distacco appassionato
Dotte
fustigazioni
Egeo
I
Com'è vuoto, com'è
triste il mondo.
Le stagioni
invano s'affaticano
Se anche le
vesti loro più
adorne
Coprono il
velo multiforme
Della natura.
Misera estate,
Saranno spade
invisibili
Di gelo i
canti delle cicale
Che il nostro
cuore faran tremare;
Crudeli spade
i tuoi dolci venti,
Primavera, e
di corvi lugubri
Stormo
infinito l'amore,
Le danze, il
tuo riso soave.
Quale
mestizia recherà
l'autunno
Che Dioniso
festeggia e i colmi
tini!
Foglie dorate
che il tramonto
Dell'anno
viene ad alitare
Nell'aria
scintillante, lo splendore
Vostro ad
Arianna sconosciuto
Sarà:
per lei solamente
Malinconia le
nude braccia
Singhiozzando
aprirà.
Inverno
Fluttua
inesausto già
sopra il mare,
E invano
mostra candide nevi
L'Olimpo:
nero il cielo, neri
i monti
Sono allo
sguardo di chi è
infelice.
II
Un arcipelago di morti volle
Il fato che
dalle onde sorgesse,
Dai flutti
lividi delle tenebre
Soffocatrici
d'ogni speranza.
E ad uno ad
uno caddero esangui
Nel gorgo
voracemente
Schiuso, gli
uni e gli altri
sempre
Ciechi
davanti all'abisso,
Ciechi
davanti alla rovina.
Nell'arcipelago
di morti manca
Ancora
un'isola; domani
Lorderanno
grumi di sangue
Fin dal
mattino i suoi tristi
lidi.
Morte adesso,
famelica, affila
I lunghi
artigli in agguato.
Frammenti
di gipsoteca
Dionisiaca
Io, abraso, con un colpo secco.
Dall'orizzonte
di quale vita?
Gabbiano esangue tuffa il suo
becco
D'amara onda,
neve impazzita…
Sì, arrotolato come uno
stecco
Dentro la
lingua del dio smarrita.
Ecate
"È il cielo della morte
che rifrange
In duri
fiocchi di lugubre argento.
Disfatti al
suolo per troppo
tormento,
In lei la
luce come un grido
d'angelo?
O il vuoto onnipotente la disserra
Con maggior
forza quando l'occhio
umano
Più si
confonde – gelido
titano –
Al brulichio
di forme sempre
in guerra?"
Invano nei deserti, fra le dune
Un'anima
s'aggira interrogando;
La dea
resterà muta, dilaniando
Chi folle
invoca la sua notte
illune.
Dionisiaca
La pinna
Alta nera
fremente
Moltiplicata
dalle acque
Su cui svetta
implacabile
Custode di
morte
Apparsa alle
tue spalle mentre
scherzavi
Con le
morbide ciocche castane
Di colei che
nessuno
Distinguerebbe
da mani o viscere,
Stringhe,
fibbie raggrinzite
In fondo allo
stomaco del predatore;
Anche la pinna
E il sangue
che imporpora le
alghe
Come una rossa
Capovolta
fiala
Sul marmo
liquido fatto foresta
E lo strazio,
e la maggior pena
Chiamata
oblio;
Anche questo
è sottomesso
al dio. Il tuo stesso
Comprendere,
il tuo
Fraintendere
sono opera del dio.
Così
il tremore con cui
guadagni
La riva senza
voce
Incespicando
tra i rovi:
Voce
chiarissima del dio
Che non
distoglie lo sguardo
se le fauci avvampano,
Se il gorgo
si rastrema in una
pinna
Alta, nera,
lucente.
Il dono
di Persefone
Le brevi parole che ora immagino
di scriverti
Vorrei tu le
leggessi con animo
impassibile
Sotto un sole
come questo, bramato
e infine apparso
Miracolosamente
dopo piogge innumerevoli.
Siedi dunque
in giardino, fra
la palma e l'oleandro,
Apri la busta
azzurra, un po'
sgualcita, e apprendi
Che sia il
mio regno oscuro,
muto algido sangue
Dove ancora
mi smarrisci e mi
ritrovi in un sorriso
Mentre fissi
lo sguardo sulle
onde lontane.
Io tramonto:
tu sorgi: così
tutto rinasce.
La sabbia,
ieri grigia, si vena
d'ambra e d'oro.
Il
distacco appassionato
Saffo
Ti fece una dea, sapendo
I gemiti
rochi e l'agonia
Delle vene
contorte;
I tonfi, i
lividi slanci
Del sangue
sopra l'altura.
Ti fece una
dea. Consòlati.
Carmen saeculare
Anche se è vano, vano,
vano,
Ridere o
piangere nell'ombra
della vita
(E forse
è vano anche
pensarlo);
Cogliamo
insieme la fulva margherita
Del mondo e
la sua luce su noi
regni
Come lacrima
gioiosa: breve ed
infinita.
Phantasmata
Alba. Righe di neve. L'opaco argento
Che balugina
là fuori
in mezzo al vento
Mi riporta –
freddo sole – il
tuo sorriso,
Anima, e la
tua voce all'improvviso.
«Volli
salpare verso terre
lontane
In
solitudine; in silenzio d'arcane
Pianure io
sola, in braccio al
mio groviglio,
Corsi
inesausta miglio dopo miglio.
Tremavo –
come te adesso –, ed
un'oscura
Segreta forza
domò la
mia paura,
Mi spinse
avanti; di colpo mi
trattenne.
Ma l'ultimo
prodigio non avvenne:
(Fui sorda,
facendo inutile il
consiglio)
Nessun
prodigio, solo un'ebbrezza
strana
E senza
mèta. E il capire
che in esilio
Se aquila
vola ogni sua penna
è vana».
Verso la
quiete
Ad un'ansa del fiume Apollo
M'ha
incontrato: vestiva cieco
Splendore e
sandali d'argento.
Mentre l'acqua disegnava intorno
Cerchi, vide
il mio turbamento
E in
ginocchio lo costrinse.
Alla gola, poi, gli avvinse
Mani bianche
un dolce oblìo.
Dotte
fustigazioni
Frivolezze
d’oltretomba
– Mammina, perché le mummie
dell’Egitto
Stavano
sempre così bendate?
– Per
conservarsi calde nel tragitto
…
– Ma sei
proprio sicura? Anche
d’estate?
Inno apoplettico
di Prometeo liberato
E taccia il mellifluo canto
Del caos
umano, accanto
A me balzino
soltanto
I rigidi
contorni
Della luna e
bianche, informi
Nebbie e una
scia d’artigli;
E rocce per
giacigli
Svettino
enormi.
Io agogno
ricompormi
(Fui cieco,
muto, sordo)!
All’ombra di
peschi o tigli,
Dalle radici
madide ai grovigli
Del cielo
infine vinto
Un labirinto
Vuoto come
l’estinto
Mare di
tonni, di smerigli,
Filtrando in
filiformi
Raggi
abolisca gli dèi
deformi;
Cancelli,
provvido, il balordo
Ronzar degli
uomini e il ricordo.
Macrophilus
a Madame de Warony
Quando per te il sepolcro
Spalancherà
le fauci
E sulle vie
dell’Orco
In compagnia
dei marci
Capelli rossi e fetidi
T’inoltrerai
gemendo,
Io in mille
feste splendide
Mi
befferò ridendo
Del crisantemo squallido,
Della tua
tomba nuda:
“Madame,
non so che farmene
D’un po’ di
carne cruda” ...
I fiori dell’Elisio
Li coglierai
da sola,
Per te
saranno viscide
Serpi
annodate in gola;
Nel regno di Persèfone
Ti
lascerò vagare
Coi bianchi
freddi lemuri,
Né ti
verrò a cercare;
Oh sbagli se mi immagini
Orfeo sulle
tue tracce:
Pernacchie,
vituperii
Ti
elargirò, e boccacce!
E tu con altre smorfie
Nascosta dal
sudario
Agitando le
gonfie
Dita che i
vermi sdegnano
Come novello Sisifo
Sospingerai
quel masso,
Che lieto per
offenderti
Rotolerà
più in
basso;
Ed io forgerò carmi
In lode di
una nuova
Pulzella, e
nel cantarli
Le
schiuderò l’alcova
Un tempo a noi sacrata.
Tu
nell’avello: al talamo
La ninfa mia
beata.
Marii Macrophili
de femina libellus
Nacque ad un parto con le Furie
andròfone
E in breve le
spogliò
della corona
Che ancora
spande amaro lume
ctonio.
Come sentenzia il vescovo d’Ippona,
La femmina
è soltanto
un insaziabile
Utero dal
perenne mercimonio.
Folle chi smania per la sua dolcezza:
Più
folle se non fiuta
in quella maschera
L’Alfa e
l’Omega di spietatezza.
Non ama; ammira, forse, chi la
sprezza;
Calcola
sempre, simula, farnetica
Languori, ma
è regina
di durezza.
La femmina (non l’uomo) ha “senso
pratico”:
Il che, detto
alla spiccia ed
alla buona,
Significa:
più iniqua
del demonio.
Dialogo
dietologico
CORO:
Sull’acque
appena mosse
Rintocca
l’ora media.
Di che ti
duoli, o Venere?
Ogni cibo ti
tedia?
AFRODITE:
Bionde,
castane e rosse
Più
magre d’una sedia
Fan delirare
gli uomini
Con l’arte
dell’inedia!
EFESTO:
Tu sai con
quante scosse
Da Capri a
Nicomedia
Ti dimostrai
qual fervido
Desio di te
m’assedia.
AFRODITE:
Alle mie
forme grosse
Nessuno ormai
rimedia,
Neanche il
chirurgo plastico
Dal trono ove
s’insedia!
CORO:
Se il corpo
non ci fosse
Sarebbe una
tragedia.
Ma
c’è, rassicuriamoci,
È
tutta una commedia.
Dopo aver
letto “Heroides” e “Tristia” scende in giardino e v’incontra Galatea
Ecco, il gran libro è chiuso;
al molle Ovidio
Sublime
artefice ricamatore
D’inenarrabile
grato languore
Sarà
che un bel sospiro
io non affidi?
I pregi in lui pur tanti e fascinosi,
Tu dell’anima
mia scudo e presidio,
Tu, Amore, mi
hai mostrato con
gl’infidi
Tratti di chi
mi fece i giorni
odiosi;
Tua la colpa perciò, soltanto
tua,
Se all’esule
di Tomi un vile
e smorto
Canto ora
innalzo, e non l’ardita
prua
Di nobile poesia. Ahi la ferrigna
Di quella
Galatea che mi vuol
morto
Lussuria
infesta più della
gramigna!
Osavo dire:
“Lei volteggia come neve”
Osavo dire: “Lei volteggia come
neve
All’alba, tenue, biondo miele
dell’Imetto”.
Osavo dire: “Dal suo ciglio vola
stretto
Fra perle e baci l’infallibile
suo dardo;
Vino di Creta, d’India azzurro
spicanardo
Bevi sfiori annusi quando ti
giunge al petto.
E lei sorride, e un ineffabile
diletto
È in quelle labbra schiuse
vesti di regina
Ma senza orgoglio: pura forza
in puro sguardo.
Il sangue che nelle vene le scorre
docile
Lo senti battere alle tempie,
già pruina
Sul collo, un gemere di nottole
veloci” …