Loutsa
Il tempio della
sabbia, di Loutsa,
il più celato.
Coperto dal
vento, dai
passi
e dal mare. Scoperto da una donna.
Guardano
nella stessa
direzione
le teste poste sulla duna, per la sera.
Braurona
Grande città,
un tempo.
Il tempio, le
canne, le
anfore
interrate,
le case, le
parole
scolpite,
le conchiglie
di
terraferma,
bianche.
Accanto ai
resti, una
pieve.
Nell’interno
annerito,
una croce
tracciata da una punta
(e attorno le
fioriscono
stelle
bianche);
il pavimento
di pietra
è
ondulato, un nido di rondini, immagini.
Il luogo
è sacro
per millenni.
Le candele
(la cera per
entrare),
gli scranni su cui mi siedo.
Le pitture
scrostate:
bastoni
abbandonati contro.
Un capitello
raffinato,
poco
visibile.
Nel museo
ricompaiono le
teste,
come quelle della spiaggia,
alcune
proprio ridono:
perché
illuminate, dicono.
Ikaria
A Ikaria nella notte;
dopo il
vento di Mikonos.
Un tempio, di
nuovo, alla
foce
di un fiume nel mare:
è
l’essere – il
fiume
– o il divenire? E il mare?
C’è
una baia
piccola,
dove l’acqua si rigira
(un cartello
avverte dei
risucchi).
Poi il caldo
del
pomeriggio e
si deve riposare.
A sera si va
alla
taverna, dove
la luce è poca
e la musica
buona.
Gli Americani
del gruppo
sono
intanto arrivati.
Si discute se
passare a
Patmos
(la
tentazione è
grande
ma i tempi forse non sono questi).
Icaro pare
che abbia
scelto un
suo
cielo
piuttosto che
questo mare
profondo;
e sarebbe
precipitato qui.
Il tempo e lo spazio
si plasmano
a vicenda, si dimensionano:
ci si
è spostati
in fretta
in questi giorni, in ore dedicate solitamente
al riposo; e
si è
perso
il tempo.
Risalita
della valle,
fino al
lago di roccia.
Il tramonto,
al tempio.
Ci sono
frammenti di
marmo bianco,
dovunque.
Il tempio
è
disperso.
I macigni
ancora al loro
posto
sono corrosi, lisciati dai venti.
Quando,
qualche anno fa,
il tempio
venne scoperto, fu eretta una recinzione;
ora rugginosa
e cadente.
Galatea, al
tramonto, si
mette
a danzare,
senza musica,
col mare,
con gli
automatismi fotografici, con le risate.
È una
danza che
assomma
i secoli, è il passo sulla pietra calda del giorno.
Ha smesso.
Sono rimasti
l’inginocchiatoio
di marmo e le canne della danza.
La sera, alla
luce delle
candele,
il povero spettacolo di poesia.
(I gechi
piccoli muovono
le teste
e suscitano simpatia: come cani e gatti,
per le
carezze, ma talora
scattano
in avanti timorosi).
Likosoura
“È là” –
dice nel
vento di Likosoura chi ci guida a guardare dall’alto.
E parla di
quando il
tempio era
vivo, di geometrie e di anime chiamate.
Questa cresta
del
Peloponneso,
dove il vento ti stropiccia il foglio su
cui scrivi,
conserva
riposte
imponenze di dee, i loro sguardi assorti e
distaccati,
frammenti di
simulacri
e di decori.
La casa delle
dee adesso
è
gialla, ha fiori colorati tutt’attorno.
La strada della
montagna porta
ai templi.
Quelli che
sono saliti
hanno
sentito raccontare
e seguito con
gli occhi
le direzioni
delle dita.
Hanno
intravisto pastori
e furiosi
guerrieri.
La polvere
dei sacrifici
viene
allontanata lentamente.
Il circo gotico, di
fronte, preserva
il tempio di Apollo.
Il Peloponneso stringe
le sue
braccia e le sue labbra
e lascia
camminare.
Fra
i rami
Andava, andava
da solo fra
gocce
di luce, fra
favi
di miele, fra
frutti
Da solo
correva
correva,
cadeva
in un sonno
divino
umano, divino
Toccato da mano
leggera, da
dita
Scavato in
profondo
stordito e
perduto
Nasceva,
nasceva
Correva di
vita
il tempo
dell’uomo
umano, divino
Sentiva fluire
di sangue le
gocce
di vita,
andare
a un corpo
non suo
Vedeva aprirsi
da terra un
sorriso
di bocca di
donna
umana, divina
Nella pianta
c’è aria
e nell’aria
c’è
foglia
quando lascia
il suo ramo
per cercare
la terra
Nella terra c’è
vita
quando figlio
di fiore
quando seme
di frutto
quando acqua
di goccia
Nella vita di donna
nella vita di
uomo
nella foglia
c’è
ansia
di volare, di
stare
(2002)
Canto
della sera
Canto della sera,
canto del riposo
Canto del
ricordo, canto
del
passato
Canto di una
notte, notte
ateniese
Canto
di un
sorriso, canto
di mistero
Canto della luna,
danza sulla
sabbia
Isole remote,
intraviste
appena
Canto del
mattino, canto
della luce
Canto
del calore,
canto
con il sole
Leva occhi buoni,
tieni il mio
viso
Fra le mani
calme, dea
dell’amore
Portami lontano,
dove porta
il tempo
Dove
porta il
sogno, dove
lascia un segno
Segno di futuro, segno
silenzioso
Segno del tuo
sogno
(1996)
A mani
ferme
(2008)
1)
Non
s’avvertì
variazione
cardiaca
di
ritmo.
Ci
fu tensione verso lo scopo,
velocizzazione
della conclusione
della
scelta.
Non
s’avvertì particolare
battito
nel sottoporsi,
spiacevole
momento
che
passi, domani e dopo
ancora
futuro e dimenticanza.
Non
s’avvertì,
il
nulla: la sedazione psicologica.
La
sedazione, il sonno
farmaceutico,
la tranquillità,
parole
per un sacrificio ad Asclepio,
reminiscenze
scolastiche
lasciate
scorrere per alleggerire
E
irruppe ad aspirare tutto di lui, di lei.
Non
fu cicuta
del
campo, del pestello
per
progressiva, indolore
rigidità.
Fu
macchina di ingegneria
per
inviare a condotti
invisibili.
La
chirurgia non è
gentile
quando
libera
i corpi
E
libera, sollevata,
lei
si sentiva
al
risveglio
2)
Nulla
restava del grumo.
Silenziosamente
aveva perso
forma.
La materia dispersa
risultava
introvabile
invisibile
a tutti.
La
dimenticanza avrebbe restituito
appieno
il nulla, il prima
che
accadesse
Di
quelle stanze, le volte bianche
soffuse
voci, occhi gentili
solo
ricordi
da
lasciar sfumare
nei
giorni
Sarà
il bosco dei giovani cedri
o
l’impianto delle viti, dei meli
a
divenir foresta o campo folto
e
lasciar balenar domani
alla
sua mente un corpo
il
volto che sarebbe stato
Brillava
un mare
di
marzo quel giorno
e
la decisione li aveva
spinti
là, lontano
a
sciogliere il nodo, il dubbio
Il
mare riempiva
i
loro occhi e io capivo
a
mani ferme.
3)
Di
vario aspetto
umanità
interrotta
grumi
diversi
di
visi o mani
arrotondati
tratti
come
in virtuale
documentazione
aliena
Ma
non vi è rassegna di tali corpi
subito
avviati all’invisibile.
“Come
han potuto
segnar
confine
per
morte e vita
(andava
un giorno
argomentando)
come
potranno
con
sicurezza
tracciare
taglio
che
netto dica:
tali
persone,
tal’altri
grumi?”
E
non v’è terra
che
accolga grumi
occhi
velati, pelli sottili
Non
campo santo
che
accolga ossa
ancora
molli
Da
quando attacco
subisce
inerme
agnello
mite
vibrante
vita
è
destinato
al
grande caldo:
che
sia cenere,
ma
senza l’urna.
4)
Nel
campo
di
recente
mani
discrete
hanno
posto
un
monumento
con
parole per i non-nati
all’incrocio
dei sentieri
Non
s’è levato clamore avverso
forse
per la discreta dignità
ieratica
della statua
forse
per il loro non essersi accorti
Nel
campo vengono riposti
i
nati appena
Monte Graham*
Voglio invitare anche te, giovane principe
all’incontro col pettirosso non timoroso
fra le ortensie secche
Se ti parrà impossibile venire perché
non più vivente, penseremo che basti
un panno umido sulla tua fronte
per farti riavere dal malo sogno
della morte per fame
Non ci sono segni sulla Montagna
pietre d’architetto, fondazioni di templi
resti da disseppellire
Non ci sono segni da riscoprire
rivedere i passaggi delle civiltà
i sassi della storia vera e seria
le ossa degli scontri cruciali
Ci furono legni incrociati e abbattuti dal vento
sassi che le acque in discesa spostarono
e persero le forme del pensiero sacrale
Ci furono foglie offerte verdi a seccare
fuochi spenti dopo la fiamma
e si sedettero uomini segnati in attesa
e si aggirò Dio a cercare
il suo Mosè americano
* Cfr. A. Leoni,
A mani ferme. Prefazione di G. Oldani,
puntoacapo, Novi Ligure (AL) 2012.
Dalla cittadella di Alessandria*
Io qua, tu nel teatro dei Greci
Io a cercare niente, tu a giocare con bilie antiche
Trovai sfere di ferro, bocce pesanti, minuscole gocce di piombo
Allestito che fu il museo, portatile, in scatola, esponevo qua e là
Io e altri a percuotere casse di risonanze secolari
Corse accaldate...
Io giocai a non finire alla guerra...
Ai bordi della città segreta sentivate profumi di notte
Occhi nel buio...
Non trovavo cunicoli che non mostrassero lingua di terra
Non padiglioni abbastanza spaventosi
Solo antri di minotauri settecenteschi senza tracce di stucchi ...
* Cfr. A. Leoni, Il bambino della cittadella, puntoacapo, Novi Ligure (AL) 2013 (con CD-ROM).
Le Grotte*
Ed è la calda estate
di luci e ombre chiare
che segnano di fiamma
i ricordi dei camini.
Ed è l’inverno lento
degli umidi vaganti
di chi respira quiete
con nella mente sole.
Confondono gli umori
le figlie dei solstizi
le due stagioni estreme
quando viene Natale.
E in una grotta accade
che il vento entri forte,
gli sguardi si smarriscono,
che cerchino tepore
di lana, di mantello
di paglia intrisa d’aria.
E che un corpo piccolo
riveli il gran mistero
del Padre delle stelle
disposto a respirare,
E che un corpo piccolo
riveli il gran mistero
del Padre delle stelle
disposto a camminare.
Le grotte dell’inverno
in smarrimenti e attese,
le grotte dell’estate
in ombre e fresche arie.
Le grotte dell’umano
di segni sulla roccia,
le grotte del divino
dei soffi dello Spirito.
*Cfr. Il Gruppo dell’Incanto, I Gatti (CD).
Il Monte*
(Medjugorje, 2012)
Balzi, aliti
stambecchi, aironi
invisibili al Monte
silenziosi
dopo danze sul violino
che per loro fece musica
Non notte, non risveglio
nella luce
ogni ora del buio
accanto a Lei
(visitati da animali
venuti solitari a intrattenersi
a scomparire ai primi arrivi
al mattino)
Non appartiene solo
ai ricolmi di necessità
il Monte
da Lei scelto
Non ai respiri affannosi
allo sguardo che scruta
la salita
Non solo agli angeli
non nati, silenziosi
Moltitudini che attendono
sfiorano i sassi
Abitano – attimi – gli anfratti
Ispirano le ascese
Avvolgono i corpi incerti
Vagano senza spazio
*Cfr. A. Leoni, Fra aria e pietra. Prefazione di B. Viscardi Balduzzi, puntoacapo, Pasturana (AL) 2018.