01.
Fotografia
02.
Proculo, ti vidi prostrato innanzi alle lance
03.
Antonio il censore caldeggia la nomia di Proculo a poeta laureato
04.
Serata mondana
05.
Proculo e la filosofia
06.
Valerio Merulo al giovane poeta Lucio
07.
Proculo medita sulla storia
08.
E' assalito dalle Furie
09.
Dante alle ombre
10.
Osservazione di fatti
11.
Terra
12.
Le pagine, il fuoco
13.
Ulisseide
14.
Avrebbe detto …
1.
Fotografia
Appoggia
stanco il busto
al muro
sporco, inerte
e
ciondolante,
fusto
vuoto a
braccia conserte;
ben vestito,
lo sguardo
fisso e
perso nel vuoto,
un cervello
un po' tardo
come prova
l'immoto
capo reclinato.
Pure,
ai suoi
tempi scrisse
grande
poesia, parole
sicure
in rime precise,
versi leggeri
ed agili,
una poesia
"di cuore,
non
d'intelletto".
Fragili
detti d'amore
e onore
schiantatisi
sul marmo
strenuo
della vita.
2.
Proculo, ti vidi prostrato innanzi alle lance
Proculo,
ti vidi prostrato innanzi alle lance
a Maratona,
a Salamina aggrappato alle murate
e placido
abbronzarti al sole lacustre del Trasimeno;
ora
attecchisci
tronfio su queste ceneri cartaginesi
spacciando
souvenir e progettando svendite e Trionfi:
ma dove
sono i tuoi compagni d'arme,
i bicipiti
ben oliati?
Dove le
tue amanti antiche,
i seni
turgidi e bianchi,
gli onori,
la fama
e la gloria
del mondo,
Proculo?
È il tuo ventre
sazio la
risposta?
3.
Antonio il censore caldeggia la nomia di Proculo a poeta laureato
"È
un Sisifo instancabile nei suoi trionfi,
Livia,
questo Proculo: raccomandamelo a Cesare
con discrezione:
che l'usi a suo piacere,
tenendo
all'erta i pretoriani.
4.
Serata mondana
Il suo sorriso
tintinnava a mezz'aria
tra le
pareti e i soffitti istoriati
che minacciavano
Giudizi Universali
ormai da
secoli; le mani, precise
come ganasce,
stringevano mani
facendo
rapidi cenni nascosti
- guai
se avessero intuito l'attenta regia,
se avessero
pensato che la scena ancora
necessitava
di suggerimenti e sproni -.
Il Gran
Pessimista, Strumento del Fato,
intratteneva
gli ospiti gioviale:
"Tartina?
Una prefazione, caviale?"
Ma ancora
lo sguardo (certo memore
dell'occhio
intento di Alessandro ad Isso)
specchio
dell'anima vagolava e rimbalzava
in qua
e in là, stimando e valutando
gli ospiti,
apprezzando il cenno d'intesa
di quei
due che "prendono bustarelle, no?"
e l'allegria
della signora
dai due
cognomi e dal bicchiere vuoto.
L'intelletto
gli forniva agile e rombante
battute
salaci e ficcanti citazioni
(talvolta,
sia concesso, da se stesso):
la sua
coscienza risuonava
come l'ultimo
chicco in un barattolo.
5.
Proculo e la filosofia
Quell'universo
di pietre e rovi,
talvolta
fango, che placido sul tavolo
serale
di una trattoria poggiava i gomiti
ingozzandosi
di carne, pane e vino,
fauce gli
apparve, famelica e contorta
d'una iena
su un cerbiatto;
e il vespro
come un ventre cavo risuonò,
l'aurora
ebbe un fetore di cloaca.
Poi, sedutosi
a mirare il suo Creato
sotto un
cielo di vetrate infrante,
finalmente
in pace con se stesso
ruminò
nella sua mente il Bene e il Male.
6.
Valerio Merulo al giovane poeta Lucio
"Che triste
il tuo libercolo, Lucio;
e che oscena
tanta ossessione
di
realtà,
quel pullulare
d'uomini
e cose che sporca la mente...
sconveniente,
in questo mondo
civile
e irreale che dondola
sospeso
fra due salici. E chiedermi
una
recensione,
via, non è da te...
Guarda
con quanta grazia Proculo
invece
piazza i suoi prodotti
(tutti
lo comprano al Foro)
e già
prepara nuove meraviglie."
7.
Proculo medita sulla storia
Nell'acqua
fino alla cintola
controcorrente
mirava gli acquitrini
livellati
da una marea pietosa,
quando
il suo sguardo si incagliò in un'ansa
da cui
dedusse fango e canneti
splendida
vita da carpe.
(Più
innanzi, passata la pianura,
l'acqua
tornava a rivoltare
bianca
e impetuosa i ciottoli,
precipitando
quindi
da una
rupe di cinabro.)
8.
E' assalito dalle Furie
Appollaiato
su una cengia, ammirando
il volo
planato dei gabbiani
senza sforzo
esplodere nel controluce
e riapparire
sopra il mare
per un istante
ha immaginato
rostri
che gli estirpano le viscere
e ai polsi
catene eterne
(per quale
colpa, fra le tante?);
solo un
istante, che perdura un altro istante
quando,
le palme sulle palpebre,
ritrova
i rostri sulla retina, ed ali,
finché
l'abbaglio torna compiacente,
il fuoco
sferza la coscienza
e il vento
spazza via le scorie.
Si stende
madido, cullato
dall'urlo
quasi umano degli scogli.
Dante
alle ombre
È
vostra la più esperienza
e mia la
vita solida che indaga.
È
il vostro regno questo, ombroso
dove non
batte voce il senso –
le mie
domande, il corpo del mistero;
questo
silenzio, l’assenzio del dolore.
Osservazione
di fatti
Prima: latenze
e intersezioni sghembe,
lo spazio
che si presta lungo gli anni
perduto
in un brusìo inudibile.
Dopo: nei
secoli dei secoli
virare
di colori e forme
per
destinazioni
ignote.
Sotto: terra
della Terra
immobile
e scagliata, le geologie
che fremono
in maturazione,
spazi che
premono. Invidie limbali.
Sopra: frusciare
a mezza altezza,
poi suoni
cupi, grevi salendo;
convergenza
delle linee:
tutto si
sgravida salendo a un punto
che non
hai nel cuore.
Terra
Le fondazioni
magnetiche,
le primavere
estuose d’arenaria –
due
avanzano
fra gli equinozi
verso un
proprio paradiso
in bilico
su faglie e ferite urlanti,
crepacci
in cui precipitò
l’antico
dio della creazione
di fumo
nero e giallo di follia
assiso
adesso al centro arroventato
pulsante
sangue e umori tiepidi di larve.
Le
pagine, il fuoco
scritto sui
confini
Le devastate
geografie
che ammiccano
dall’erba verde sangue
a pagine
riscritte ad ogni squarcio,
il sisifo
perenne delle arterie
e il riso
crudo di ferite
che da
terra e cielo mai avranno cicatrici:
s’affonda
questa barca piccola
e non
c’è
fondo, schianto,
tumulto
di valanga
o suolo
antico cui tornare,
ma solo
un premere di corpo
inutile
senza un baratro
che,
divorando,
fonda.
Più
vena esigono i crogioli
che secernono
la Storia,
più
ganga si rapprende al suolo
balenando
scorie e viscere:
si replica
nel sangue la spirale
e avanza
oscura, immemore
di quanto
tenga d’inumano
questo
tutto che ci colse
inavvertiti;
e s’alza dalle nostre pagine
come un
lontano fuoco di battaglia,
nell’ammassarsi
delle sere
cui campi
che la storia umana ha concimato.
Ulisseide
Le giovani
bagnanti in fiore
Bisbigliano
al Lete le fanciulle
affanni
e gioie, sciacquando panni
sotto
l’occhio
di un Ulisse
salvo e
moribondo,
giocano
i loro anni luminosi:
ma su che
pietra sarà incisa
la cortesia
di corpi che si danno
nella luce
pura; chi scriverà
la gioia
destinata al vento
commovente
fra le parentesi
di un tempo
numinoso
in cui
gli eroi giungono ancora
da tempeste
e incendi, la loro storia
un urlo
da ascoltare
ancora
incomprensibile, distante?
Ovunque
tu piazzassi l’asse,
con qualunque
cura umana la ponessi
in equilibrio,
calerebbe come scure
sul sorriso
a questi lieti e spensierati
grumi che
si bagnano
scherzosi
del futuro immemori.
Sìsifo
A Giorgio
Luzzi
È
il suo frammento, questo, di un tempo
che porta
a perfezione; ad altri imperscrutabile
toccò
la metamorfosi, morte saettante
o pura
cupa evanescenza in ombra
per figli
che non tornano se non mutati
anch’essi,
in mano un ramo d’oro e freddi:
e che stridìo
sarebbe l’improbabile,
di ferro
contro ferro: faville e lacrime.
Ma lui,
la pietra che lo rinnovella e lo trascina in alto
è
lieve ormai, esatta nella sua rotondità
di pena
senza scampo né misura.
Dolce al
fondo è l’ascesi: l’eternità dolente
ormai gli
posa accanto sua, e ancora
e ancora
giunto a zenit che s’incendiano di voti,
nel corrugarsi
dello scempio che s’addensa,
ecco rialza
il capo in un sorriso mesto Sìsifo.
Notizie
da Itaca
Dicono sia
sempre stato qui, fingendo
anche a
se stesso assedi senza fine,
mostri
e ritorni; forse persino isole beate,
lussurie
di fanciulle e dee;
per non
avere ricordanze,
non temer
rimpianti – qui,
nascosto
in una piega della Storia
mentre
Penelope s’imputtaniva,
Telemaco
impazziva lentamente
e il cane
stesso, Argo l’amato,
lo dimenticava;
a impolverarsi
con gli
anni, ad osservare
il male
che riempiva gli otri
finché
non fosse colma la misura,
sempre
più atroci vendette
meditando
con accidia calcolata.
E un giorno
dicono riapparve
sulla soglia
brandendo l’arco e
fallendo
la prova delle scuri;
uscendo
di scena fra i lazzi dei servi,
dei proci,
di Penelope e Telemaco
bofonchiando
di versi immortali a venire.
Ancora Ulisse
Un pover’uomo,
un re in brandelli
reduce
dai flutti a tante pietre
e
rimembranze;
un attaccante obliquo,
fuggitivo
astuto da quei campi
d’odio
e di sterminio infine
ritornato
a pane d’orzo e quiete
in questo
lento dopoguerra senza dèi.
Ricostruzioni
attendono caparbie
le nostre
mani ossute e la ragione
clauda
dei sopravvissuti.
Vorrebbero
che ripartissi,
parlano
di gloria e consoscenza:
a un re
di capre, che ritrova questa
moglie
umana per divine
amanti
abbandonate
e un regno
di sterpaglie.
La vela
ancora, il remo, il flutto
sul volto
e il desiderio;
e l’orizzonte
vuoto, mostri,
gorghi,
terrori e piaceri;
ancora
quello chiedono, a un pastore
che
null’altro
impetra che silenzio
e ben
compatte
mura, siepi
a chiudere
la vista stanca
ed un civile
cenno presso la fontana.
Avrebbe detto …
Oh certo,
molta speranza, infinita speranza, ma non per noi.
F. Kafka
Avrebbe
detto, lei dagli occhi glauchi
e dalle
vele bianche, “Gli occhi, quello
era oltre
il muro e tornerà
oltre ogni
perdita a guardarci in viso,
posandoci
una mano sulla spalla
ed invitandoci
a resistere
finché
avrà fine il tempo;
perché
potremmo farcela
– se non
adesso domani o un domani,
persino
noi per cui non c’è speranza
alcuna,
dell’infinita
che altri
occhi invocano” –
avrebbe
detto quello certamente,
fedele
alla disperazione, lei che
devotamente
aspetta la fine del tempo
per riavere
il corpo.
Per gli altri,
col dubbio
di non avere dubbi a sufficienza,
il tempo
è ustione, le mani ficcate nella conoscenza
dei rovi
e nell’orrore dei bordi scagliati,
un lento
bruciante rasoio sulla pelle.
(Ad occhi
chiusi era un respiro che tornava
a riprendersi
un corpo, per restare –
resurrezione
della carne, putredine insanita;
nella più
piena luce invece della ragione
solo un
rantolo nel rigirarsi insonne, e il nulla.)