Senecio
     SENECIO

Direttore
Emilio Piccolo


Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'illuminismo

Rivisitazioni, traduzioni, manipolazioni



Redazione
Sergio Audano, Gianni Caccia, Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola, Lorenzo Fort, Letizia Lanza


Mauro Ferrari
Scheda biobibliografica

01. Fotografia
02. Proculo, ti vidi prostrato innanzi alle lance
03. Antonio il censore caldeggia la nomia di Proculo a poeta laureato
04. Serata mondana
05. Proculo e la filosofia
06. Valerio Merulo al giovane poeta Lucio
07. Proculo medita sulla storia
08. E' assalito dalle Furie
09. Dante alle ombre
10. Osservazione di fatti
11. Terra
12. Le pagine, il fuoco
13. Ulisseide
14. Avrebbe detto …
 

1. Fotografia

Appoggia stanco il busto
al muro sporco, inerte
e ciondolante, fusto
vuoto a braccia conserte;

ben vestito, lo sguardo
fisso e perso nel vuoto,
un cervello un po' tardo
come prova l'immoto

capo reclinato. Pure,
ai suoi tempi scrisse
grande poesia, parole
sicure in rime precise,

versi leggeri ed agili,
una poesia "di cuore,
non d'intelletto". Fragili
detti d'amore e onore

schiantatisi sul marmo
strenuo della vita.

2. Proculo, ti vidi prostrato innanzi alle lance

Proculo, ti vidi prostrato innanzi alle lance
a Maratona, a Salamina aggrappato alle murate
e placido abbronzarti al sole lacustre del Trasimeno;
ora attecchisci tronfio su queste ceneri cartaginesi
spacciando souvenir e progettando svendite e Trionfi:

ma dove sono i tuoi compagni d'arme,
i bicipiti ben oliati?

Dove le tue amanti antiche,
i seni turgidi e bianchi,

gli onori, la fama
e la gloria del mondo,

Proculo? È il tuo ventre
sazio la risposta?

3. Antonio il censore caldeggia la nomia di Proculo a poeta laureato

"È un Sisifo instancabile nei suoi trionfi,
Livia, questo Proculo: raccomandamelo a Cesare
con discrezione: che l'usi a suo piacere,
tenendo all'erta i pretoriani.
 

4. Serata mondana

Il suo sorriso tintinnava a mezz'aria
tra le pareti e i soffitti istoriati
che minacciavano Giudizi Universali
ormai da secoli; le mani, precise
come ganasce, stringevano mani
facendo rapidi cenni nascosti
- guai se avessero intuito l'attenta regia,
se avessero pensato che la scena ancora
necessitava di suggerimenti e sproni -.
Il Gran Pessimista, Strumento del Fato,
intratteneva gli ospiti gioviale:
"Tartina? Una prefazione, caviale?"
Ma ancora lo sguardo (certo memore
dell'occhio intento di Alessandro ad Isso)
specchio dell'anima vagolava e rimbalzava
in qua e in là, stimando e valutando
gli ospiti, apprezzando il cenno d'intesa
di quei due che "prendono bustarelle, no?"
e l'allegria della signora
dai due cognomi e dal bicchiere vuoto.
L'intelletto gli forniva agile e rombante
battute salaci e ficcanti citazioni
(talvolta, sia concesso, da se stesso):
la sua coscienza risuonava
come l'ultimo chicco in un barattolo.
 

5. Proculo e la filosofia

Quell'universo di pietre e rovi,
talvolta fango, che placido sul tavolo
serale di una trattoria poggiava i gomiti
ingozzandosi di carne, pane e vino,
fauce gli apparve, famelica e contorta
d'una iena su un cerbiatto;
e il vespro come un ventre cavo risuonò,
l'aurora ebbe un fetore di cloaca.
Poi, sedutosi a mirare il suo Creato
sotto un cielo di vetrate infrante,
finalmente in pace con se stesso
ruminò nella sua mente il Bene e il Male.

6. Valerio Merulo al giovane poeta Lucio

"Che triste il tuo libercolo, Lucio;
e che oscena tanta ossessione
di realtà, quel pullulare
d'uomini e cose che sporca la mente...
sconveniente, in questo mondo
civile e irreale che dondola
sospeso fra due salici. E chiedermi 
una recensione, via, non è da te...
Guarda con quanta grazia Proculo
invece piazza i suoi prodotti
(tutti lo comprano al Foro)
e già prepara nuove meraviglie."

7. Proculo medita sulla storia

Nell'acqua fino alla cintola
controcorrente mirava gli acquitrini
livellati da una marea pietosa,
quando il suo sguardo si incagliò in un'ansa
da cui dedusse fango e canneti

splendida vita da carpe.

(Più innanzi, passata la pianura,
l'acqua tornava a rivoltare
bianca e impetuosa i ciottoli,
precipitando quindi
da una rupe di cinabro.)

8. E' assalito dalle Furie

Appollaiato su una cengia, ammirando
il volo planato dei gabbiani
senza sforzo esplodere nel controluce
e riapparire sopra il mare

per un istante ha immaginato
rostri che gli estirpano le viscere
e ai polsi catene eterne
(per quale colpa, fra le tante?);

solo un istante, che perdura un altro istante
quando, le palme sulle palpebre,
ritrova i rostri sulla retina, ed ali,

finché l'abbaglio torna compiacente,
il fuoco sferza la coscienza 
e il vento spazza via le scorie. 

Si stende madido, cullato
dall'urlo quasi umano degli scogli.
 

Dante alle ombre

È vostra la più esperienza
e mia la vita solida che indaga.
È il vostro regno questo, ombroso
dove non batte voce il senso –
le mie domande, il corpo del mistero;
questo silenzio, l’assenzio del dolore.
 

Osservazione di fatti

Prima: latenze e intersezioni sghembe,
lo spazio che si presta lungo gli anni
perduto in un brusìo inudibile.

Dopo: nei secoli dei secoli
virare di colori e forme
per destinazioni ignote.

Sotto: terra della Terra
immobile e scagliata, le geologie
che fremono in maturazione,
spazi che premono. Invidie limbali.

Sopra: frusciare a mezza altezza,
poi suoni cupi, grevi salendo;
convergenza delle linee:
tutto si sgravida salendo a un punto
che non hai nel cuore.
 

Terra

Le fondazioni magnetiche,
le primavere estuose d’arenaria –
    due
avanzano fra gli equinozi
verso un proprio paradiso

in bilico su faglie e ferite urlanti,
crepacci in cui precipitò
l’antico dio della creazione

di fumo nero e giallo di follia
assiso adesso al centro arroventato
pulsante sangue e umori tiepidi di larve.
 

Le pagine, il fuoco

    scritto sui confini

Le devastate geografie
che ammiccano dall’erba verde sangue
a pagine riscritte ad ogni squarcio,
il sisifo perenne delle arterie
e il riso crudo di ferite
che da terra e cielo mai avranno cicatrici:

s’affonda questa barca piccola
e non c’è fondo, schianto,
tumulto di valanga
o suolo antico cui tornare,
ma solo un premere di corpo
inutile senza un baratro
che, divorando, fonda.

Più vena esigono i crogioli
che secernono la Storia,
più ganga si rapprende al suolo
balenando scorie e viscere:
si replica nel sangue la spirale
e avanza oscura, immemore
di quanto tenga d’inumano
questo tutto che ci colse
inavvertiti; e s’alza dalle nostre pagine
come un lontano fuoco di battaglia,

nell’ammassarsi delle sere
cui campi che la storia umana ha concimato.
 

Ulisseide
 

Le giovani bagnanti in fiore

Bisbigliano al Lete le fanciulle
affanni e gioie, sciacquando panni
sotto l’occhio di un Ulisse
salvo e moribondo,
giocano i loro anni luminosi:
ma su che pietra sarà incisa
la cortesia di corpi che si danno
nella luce pura; chi scriverà
la gioia destinata al vento
commovente fra le parentesi
di un tempo numinoso
in cui gli eroi giungono ancora
da tempeste e incendi, la loro storia
un urlo da ascoltare
ancora incomprensibile, distante?

Ovunque tu piazzassi l’asse,
con qualunque cura umana la ponessi
in equilibrio, calerebbe come scure
sul sorriso a questi lieti e spensierati
grumi che si bagnano
scherzosi del futuro immemori.
 

Sìsifo
A Giorgio Luzzi

È il suo frammento, questo, di un tempo
che porta a perfezione; ad altri imperscrutabile
toccò la metamorfosi, morte saettante
o pura cupa evanescenza in ombra
per figli che non tornano se non mutati
anch’essi, in mano un ramo d’oro e freddi:
e che stridìo sarebbe l’improbabile,
di ferro contro ferro: faville e lacrime.
Ma lui, la pietra che lo rinnovella e lo trascina in alto
è lieve ormai, esatta nella sua rotondità
di pena senza scampo né misura.
Dolce al fondo è l’ascesi: l’eternità dolente
ormai gli posa accanto sua, e ancora
e ancora giunto a zenit che s’incendiano di voti,
nel corrugarsi dello scempio che s’addensa,
ecco rialza il capo in un sorriso mesto Sìsifo.
 

Notizie da Itaca

Dicono sia sempre stato qui, fingendo
anche a se stesso assedi senza fine,
mostri e ritorni; forse persino isole beate,
lussurie di fanciulle e dee;
per non avere ricordanze,
non temer rimpianti – qui,
nascosto in una piega della Storia
mentre Penelope s’imputtaniva,
Telemaco impazziva lentamente
e il cane stesso, Argo l’amato,
lo dimenticava; a impolverarsi
con gli anni, ad osservare
il male che riempiva gli otri
finché non fosse colma la misura,
sempre più atroci vendette
meditando con accidia calcolata.
E un giorno dicono riapparve
sulla soglia brandendo l’arco e
fallendo la prova delle scuri;
uscendo di scena fra i lazzi dei servi,
dei proci, di Penelope e Telemaco
bofonchiando di versi immortali a venire. 
 

Ancora Ulisse

Un pover’uomo, un re in brandelli
reduce dai flutti a tante pietre
e rimembranze; un attaccante obliquo,
fuggitivo astuto da quei campi 
d’odio e di sterminio infine
ritornato a pane d’orzo e quiete
in questo lento dopoguerra senza dèi.
Ricostruzioni attendono caparbie
le nostre mani ossute e la ragione
clauda dei sopravvissuti.
Vorrebbero che ripartissi,
parlano di gloria e consoscenza:
a un re di capre, che ritrova questa
moglie umana per divine
amanti abbandonate
e un regno di sterpaglie.
La vela ancora, il remo, il flutto
sul volto e il desiderio;
e l’orizzonte vuoto, mostri,
gorghi, terrori e piaceri;
ancora quello chiedono, a un pastore
che null’altro impetra che silenzio
e ben compatte mura, siepi
a chiudere la vista stanca
ed un civile cenno presso la fontana.

Avrebbe detto …

Oh certo, molta speranza, infinita speranza, ma non per noi.
F. Kafka

Avrebbe detto, lei dagli occhi glauchi 
e dalle vele bianche, “Gli occhi, quello 
era oltre il muro e tornerà 
oltre ogni perdita a guardarci in viso,
posandoci una mano sulla spalla
ed invitandoci a resistere
finché avrà fine il tempo;
perché potremmo farcela
– se non adesso domani o un domani,
persino noi per cui non c’è speranza
alcuna, dell’infinita 
che altri occhi invocano” –
avrebbe detto quello certamente,
fedele alla disperazione, lei che 
devotamente aspetta la fine del tempo 
per riavere il corpo.
   Per gli altri, 
col dubbio di non avere dubbi a sufficienza,
il tempo è ustione, le mani ficcate nella conoscenza 
dei rovi e nell’orrore dei bordi scagliati,
un lento bruciante rasoio sulla pelle.
(Ad occhi chiusi era un respiro che tornava
a riprendersi un corpo, per restare –
resurrezione della carne, putredine insanita;
nella più piena luce invece della ragione 
solo un rantolo nel rigirarsi insonne, e il nulla.)  


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