Senecio
     SENECIO

Direttore
Emilio Piccolo


Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'illuminismo

Rivisitazioni, traduzioni, manipolazioni



Redazione
Sergio Audano, Gianni Caccia, Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola, Lorenzo Fort, Letizia Lanza

Fortuna Della Porta
Scheda biobibliografica

 
 

1. Minotauro
 

I
La fibra della ginestra
nel fango dolente:
fu creato – controvento –
ancora un uomo, padre e figlio
di tutti gli uomini 
alla corrente abbandonato
Esanime di respiro e pensiero
escoriato dal flutto
dalla tormenta
pampa e deserto
rubra la ferita
del tempo. Nelle viscere
il rullo del continente
Stremato per sempre
dal suo andare
in tondo
La fine e il frullo
in ogni punto
L’inizio in nessun punto 

II
Acqua di mare
culla e nutrimento:
lucido mantello
la pelle.
Dalla casa estuaria
il solo imperio
è l’occhio – a perdifiato –
sul crespo
di un lenzuolo
di flutti e di perle
Pipistrelli e gole 
contengono 
il riflesso dell’albero
e della parola,
ferza 
alla singola cellula
ferri 
alla libertà
Cola da ogni onda
in ogni molecola 
il sogghigno
di chi sbatte
il farsi e il disfarsi
della creta e del viso
il rammarico intatto
Il manufatto
al suo pianto
alla fine del giorno
è la resina
dinoccolata
della resa.

III
Occhi di cerume
bacio di spini
fronte di corna appuntite
ecco il traditore
e la creatura
che guarda la spuma e la cenere
sfatto guerriero – cucito –
con refe sdrucciola
Gialla la stalla e la pialla 
della vita La clorosi
sfila i suoi trucioli
alla balla della via
Da un pilastro a un lutto
nell’asciutto del labirinto
la maledizione vi
nacque con testa 
di toro onesto
e umano disordine
A Creta da Minosse
il labirinto
di ogni vita
e del costrutto
le mosse.

IV
Chiuso dalla maledizione
è pronto il progetto
Tremola Minotauro
l’uomo che guaisce
nella pallida sera
la fame invereconda
e le viscere 
della lussuria
Lo chiama
dalla stia del sigillo animale
la stilla del sangue
e il serpente
scritta di un 
colore ignudo
putrefatto
E poi la mala caratura
pretese
dal suo appetito
la carneficina
e al germoglio fresco
assetato
del sopravvivere
la magagna
di bere la cicuta
del succo vaginale

V
Solo, come fulmine
fulminato
sull’orizzonte
nero
Minotauro
giace
il facinoroso
cavallo alata
progenie
e fulmine 
fulminato
dalla stilla elettrica
La necessità
del suo zigzagare 
Fulminato
da un punto
del microsecondo
In un punto solo
il lampo
inappellabile
di Minotauro 
lo squarcio e la soma
e l’onesto giglio 

VI
Dove su un prato 
neanche l’erba brucia 
ogni passaggio si è
scompaginato
Prima di cominciare
un alito
fulminescente
e dopo il giacere
la miseria
Aspetta, Minotauro
Aspetta …
Pietra della tomba
Aspettami.

VII
Erba-caverna
Caverna-magenta
Magenta-lucente
Magma e semente
Un filo cresce
muore
silente
Il marmo scalfisce 
la genesi
di una scultura
di ferro
Minotauro
innocente
nella teca 
del pulito sente

VIII
Rinnegato dal padre
involontario
escremento
del fato e del mare
La cena 
per sua natura
di carne e di umano
Il destino
sommerso
dalla brama 
ma dal ventre
che chiama 
il grillo e il tulipano
I calzari inospitali
infrangibili
fino al filo di lana

IX
cadeva la sera a gocce
a tormenti
bruciavano 
i cuscini del sole
il buio e la promessa
si apriva sul ciglio
di altre sere
sodali
e misteriche
poi il compimento
della tragedia
Minotauro 
attende

X
Tradito dal sangue
dalla ragione
da Arianna sorella
il suo filo
domato dall’architrave
giunge 
allo speco
del labirinto
e tradisce 
tradisce
il sangue medesimo
e Minotauro in ginocchio 
aspetta la scimitarra
per pagare
la brama 
e l’orlo vellicato della tela
sui genitali atoni 
e la gola sgozzata
cade
Minotauro anch’io 
Qui nel mio labirinto 
urlo 
e mi strazio
sulla lama su cui presto 
a scoppiare 
il fiato 
e i fiordalisi 

2. Icaro

Da giovinezza aperto Icaro 
si libra negli aghi del sole
sono aghi che lo perderanno. 
Assaggia giaggioli pervinca 
nella placenta astrale in fuga 
da una catena inospitale.
Lo spasimo di sbarre sulle 
dune delle ossa e lo spossante 
tribolo che di notte ferma 
l’acido nella sua ragione 
e sgrava picche e fastelli su 
giunture e paurosi fantasmi 
a un laccio di chiavi  inutili 
lasciano le sue remiganti. 
Ora il fruscio delle nuvole 
dissolve dalla sua pupilla 
la bruma e gli offre un appiglio 
quasi un pozzo che d’un tratto si 
cinge di scale, e, nero e dritto, 
spalanca poi il suo occhio di vetro
nel riflesso di un catino 
di estasi immensurabile.
Qui la guglia dell’aria è suo 
liquido baccello e concava 
cetra citerea. Prestato dal 
padre all’immenso e al suo vino 
in volo che lo riscatti, ma 
la gioventù senza memoria 
e pericolo lancia chicchi 
nell’aria braccata d’umana 
inanità per un boccale 
audace. Porta un ramo di 
biancospino all’alba nimbata 
crocedelizia i rosei fiocchi
a sorvolo sull’erba azzurra 
e gli affusolati argenti
del tortuoso ulivo a cogliere 
il battito della passione
-lo scandaglio vago di Ulisse- 
nello scarabeo dell’anima
presso la sorgente vietata.
Infrangere la regola al 
costo dell’albore del proprio 
arbore ceduo e sigillare 
l’umidore della parola
e il piacere di occhi futuri 
sui vagabondi uccelli e le api
a scorribanda sul nettare 
e il muliebre candore delle 
gemme su una rocca di vento 
appartiene all’innocenza.
 Ogni rivoluzione tocca 
cuore di coraggio fiero
di un giovanile pensiero 
cui segue lo stentare affranto
e le dita incollate al che 
si apre a fato illacrimato:
morte pianta prima del tempo 
la rossola tosca in gola 
al quotidiano desinare.
 

3. Ode pour l’election de son sepulcre
Omaggio ad Ezra Pound

Clio occhilucenti, ecco la mia urna mondata, 
deponila sulla riva gigliata della risacca volubile
aqua laudatur sit et mare e la sabbia di silice
accerchiala di tua mano al fico d’india là in cima 
intrapreso di roccia e molli acuminate midolla
della mia morte risorta rimbombano le orecchie.
Al sacello traslucido di luce vesperale 
o biacca colore d’arenile Clio,  sii saggia,
dissuggella sinuosa il cuneo della mia conchiglia
sollazza l’ermetico impolverato pallottolarmi 
e dunque astuccio d’aria alzarmi in ala vagante
E tronco di quercia incava  per depormici in fama
Uccelli, grilli,  a trillare della dissoluzione giapprima
pascunt et alunt meam animan ad libitum
j’ai trouvé une goutte de vermeille en fin
do it, immortala la mia secca grancassa dalle ore aduse
tempus tacendi nessun serto da posteri o Muse.
 

4. Apocalisse

All’ombra della pineta tacita s’agguanta
L’afa sdolce d’agosto come lenzuoli umidi
E non una freccia di vento insinua il piede
Tra cipii di passeracei, anche la lucertola tace.
Nell’ora della calura vale lo scrollo della cicala
Ai timpani con le ali a cocca, trilla la sua vittoria
Beffarda umida sul vigore  della pista tracciata
Prima della spossatezza, prima che si perdessero
I propositi delle prime luci. Sono arse le ninfe
gli gnomi e gli elfi nel fradicio ribollire d’agosto
E una tara sospesa e spettrale accudisce il bosco.
Sfatto il terreno ruggine schierato dalle formiche
Pesa oltre la chioma-ombrella un pallidissimo cielo
Con una musica che non si regge, abbacinata e greve,
Tace il ritmo del mare oltre il corredo di sabbia
Perché Tritone ha abbandonato i flutti e Eolo l’otre
Ogni sostanza si è cangiata in onta o risucchio
E non c’è chi possa guardare intorno e puntellarsi
sull’esilio immobile di un libro scritto di ignoto.
Si sfaldano i lacerti mentali contro l’inevidenza
Danza alla gravità a decrescere la bonaccia del corpo
Derelitto in nuova estraneità, scarto di mondo.
È lo sceneggiatore che oggi fa fuoco e domani neve
E ci sforza a ognora con l’esile staffile del suo grimaldello
E parla oscuro in incognita, ci risparmia o ci doppia
Nulla che rassicuri il brivido che d’agosto ti prende
 

5. Tenebre
 

Endecasillabo

Tenebre sento che il mio disarmato 
Verso è leggero e non prosciuga il mare
Butta via la preghiera, vola come
Tenera piuma sulla convenzione
Della mia mente ordinaria, batto
I polsi a sorte affinché fuoriesca 
E fruttifichi e stia la mia parola 
A quella degli altri. Il singulto
Del mondo bevo, defloro la notte
Il crepacuore di Iside sussurro
Per ripartire il pane delle fate.
L’onirico mio candore nativo
Consegnerò ad un angelo puro
Su una collina di mille o più anni
Da affrancare ad inerzia di sangue,
il pensiero a morte delle pietre 
posate lungo i fiumi come agnelli
cadere nelle lacrime infauste
a meretrice che svende di fame
e piacere, assaggiare insconfitta
viscere spurie a un penitente
girare al secolo la toppa buia
scrollata di presaga paura
con la chiave a croce della vita 
in simultanea zaffata d’inferno
e se la terra siglerò col tono
di profeta sarò allora poeta.
 

Omaggio a Coleridge

Ah, Polifemo, è ben arduo
Il passo al tuo esercito in parata
Dai riccioli gialli e il piglio rattenuto
Così sovrabbondante nel campo
Pigmentato, la smisurata pupilla
Sotto il vetusto cielo
Irrigidisce lo slancio
Lungo i raggi spigliati e
Solo la testa sul lungo esile collo
Risale la fotosintesi
Devota e fiera. Infaticabile
All’orizzonte la tempesta
Già affretta gli stormi imminenti
E presto l’occhio del vento
Pareggerà la piana da ogni rigoglio.
Coleridge, abbi pietà,
trattienila allo scoglio
tu che sai, dai girasoli d’oro.
 

6. Il Principio
 

Ora la terra era informe e deserta
E le tenebre ricoprivano l’abisso.
Ecco il primo bagliore, ecco la prima rosa
E dio vide che la cosa era buona. 
Nasce un fiore nel cosmo. Soffia la sua eco perenne
L’eterno presente big bang dal mezzo della pietra
Spiccata in un sol tocco dal caos dell’informe astrale.
Nel subbuglio Gea si germina e poi Eros, Tartaro, Erebo.
L’incavo si coprì della Notte più fonda
Finché l’Erebo generò il Giorno e Gea Urano e il Ponto 
E lo zodiaco sorrise specchiandosi nello gnomone.
Ogni cosa così affrancata dal primo istante fu verbo 
E ebbe un unico posto in alto o in basso
per diffondere la novella della propria nascita 
Mentre Ahura  Mazdah si accarezzava la barba.
All’alba l’immenso comincia sulla cornice del polo
 E si rimpinza le tasche e riapre i palmi 
Per accendere la volta celeste di albe e costellazioni 
Perché la pace che sente è quella della Parola. 
Ha diviso l’essere dal contrario coi bassi occhi esitanti, 
Quindi ha brandito la bacchetta per condurre l’orchestra
E la diga della musica ha traboccato le gamme acustiche: 
Finanche ultrasuoni al cane e al lupo dagli occhi di giada. 
Sia il firmamento in mezzo alle acque
Per separare le acque dalle acque
E dio vide che la cosa era buona
Nondimeno la stirpe dei posteri ha sete di un proprio riscatto 
A  spendere perizia a tarare gli strumenti, 
Fino all’iniziale soffione, dentro la noce dell’evento, 
Virtuosi pionieri di traverso a un rudimentale rotore, 
Una sciocchezzuola caduca, una lente di cristallo 
Che esonda la fulminazione della prima ora costipata. 
A ogni giro coi lampi cremisi  riprende il ribollire del Tempo 
Dal periplo di Fetonte intorno alle faville del sole,
Sorto dal nerofumo come un bulbo  coronato di oro
E di lingue di cinabro rosolate dalla fucina di Vulcano. 
Impressionati assistono alla rissa dei massicci Titani
Corrugati di ruggine, di fogge accese, di porpora espansa
Che urlano fino alle periferie estreme, coperti di raggi,
Noci bacchiate e folgorate da lamprede fluorescenti 
Luce di prepotenza ghiaccia. Fine e inizio coincidenti.
Sullo smacco dei miserabili già compare la supplica urgente
Se gli scienziati filosofi dentro il turgido esordio dell’essere,
Anche un sasso smussato e dimenticato dal ruscello
O un encausto assopito nella sua cera fusa
Per amore di dottrina scavano il principio e la resa
E il fuoco, il vapore e gli atomi accolsero la propria natura
Con sbigottimento sommesso e la certezza del tradimento.
Nella gerarchia dei cieli l’energico balzo in avanti
Alla contemplazione del vero e la sua onnipotenza 
Anche l’arte e il mito lo tentano insieme alla fede
Per mutare la strettoia dell’uomo e sollevarne lo sconforto
Mentre il logos trascina  le labbra mai persuase dalla coppa
Intanto che una vacua oscurità ricopre ancor meglio
Ogni umana velleità con catramose gramaglie.

Sul far dell’ora l’era bambina intraprende la strada 
Nel pianoro sonoro ove un brodo viscoso 
Saggia nel padule  le matrici per una nuova parità.
All’impazzata un vortice di pesci si orna di zampe
Per andare a conoscere la primula e la timida mammola 
Nei pascoli dei dinosauri, tra sambuchi umidicci
Inginocchiati a una querula pioggia di sbieco
E ispidi arbusti affondati nella melma marcescente.
Nelle ore prostrate comincia lo sfregio triviale
Allorquando il tosco dell’evoluzione accende il suo tripode
Chiamando alla battaglia gli arieti a corna allacciate
Le tigri maculate e un macaco col dito proteso alla coscienza.
L’iconografia di sisma e eruzioni intacca tutt’intorno
Le brulle alture soffiate di argilla e imprigionate di slavine,
Quando il grugnito della morte 
La figlia dell’universo incaglia lo stagno 
E il colosso capitolato alla meteora è seppellito nella creta 
Affinché un paleontologo scavasse quell’ultimo fiato 
Per porgerlo all’odorato commosso di un giorno lontano.
Ecco un bosco di palmizi e un  canale di bisce lenticole
Su cui naviga la foga di zefiro e più su un’ala pulita
Abbagliata da guizzi e teneramente compiacente.
Toth è lì seduto da giorni e segna con un ramo la  sabbia 
Fitta come le gocce del pelago e ancor più domestica 
 Il computo del veleggiare del sole e dei suoi fratelli prossimi
Toth è assorto nel calcolo da tramutarsi nel suo disegno, 
O in una piuma che osserva dall’alto il mondo che sorvola.
Per divertimento ha collazionato la scacchiera e il dado multiplo
Ma, prima ancora, come una sfinge, ha estratto dalla sua bontà 
Una celeste Parola, un timbro graffito 
Capace di mandare a fuoco i nevai o raggelare un animo
Adagiandola ad oltranza sullo stupore dei granuli 
Gentili e immobili, coinvolti dalla grazia,
Perché l’uomo nascesse di sua mano per la seconda volta
Scalpellando su un ciottolo, incidendo la malta o con lo stilo
Che conserva, nella tregua di un segno, la lamentazione 
Fatta perpetua gloria dei secoli e della cenere.
Anche Gilgamesh  carico di epopea e leggenda 
Vagava  una volta pensieroso al fiotto di una torcia
In un bosco di cedri, sotto il peso di anni logori.
Gli uccelli con le ali raccolte mordevano i suoi ricordi:
Un amico in lotta con belve,  la sfida all’immunità
Il grande oceano caduto dall’alto sulle colpe degli uomini 
Che la memoria avrebbe tradito alla fine della canzone,
Quando l’aedo abbandonata la cetra trova alla sue membra
Un covile per le orbite senza potere eppure lungimiranti. 
Si mette a contare l’altrui tenebra e la propria che calerà 
Sulla sua retta ardimentosa come su ogni naviglio 
Finché l’eletto non incontra uno scriba in attesa, 
Assiso alla biforcazione di un ramo a dondolare i piedi
Per raccogliere la sua stessa fama e un testamento.
Da allora se un bimbo è ridotto a gregge  dal pascolo asciutto
Con la pelle raggrinzita intorno alle costole
E il padre colto in schiavitù fugge davanti alla rovina 
E al trionfo dell’usurpatore nelle strade disseminate 
Di odio e ferite che inondano il selciato di bile 
Quando in tralice si scaglia il fuoco della nebulosa vendicatrice
O un flutto rovescia la sua stizza fino all’empireo
Su larve e girini e  tutti i suoi nati in deliquio
O Teseo libera i sette giovani e le giovanette
O Iside agita il sistro e la sacerdotessa
L’ascia bipenne, nell’antico tempio di Delfi
O una mente si ribella, stregata dall’immensurabile sapienza,
Una lastra di piombo, incisa da una visione,
consegna il testimone fino all’orlo dell’Eden.
Ma negromanti sacerdoti di oracolo  insulso 
Hanno costruito un altare e intorno all’altare
Un fortilizio e cinto il fortilizio con spranghe e cemento
E sull’altare a misura delle cose un semplice metro
Che Fromm ha inghirlandato di un serto luciferino.
Si dissetano nella sentina con erbe che spillano vizio
E mangiano lercio, spalancando le mandibole per futilità
E ogni metallo ha perso smalto in mano agli sciacalli. 

A me hanno raccontato una magnifica storia
Correva lenta come il tempo
A me hanno raccontato di quattro fiumi
Tigri Eufrate Pison e Ghicon intorno al Paese d’Etiopia
A me hanno raccontato di quattro fiumi in un giardino d’oriente.
Chi non ne ha sentito parlare?
Tra quattro fiumi ad oriente giaceva un giardino di piacere
E il giardino del piacere era selvaggio e aprico
Io baci sapevano di mandorle
 Lucevano i cirri del crepuscolo
Il suolo del giardino del piacere 
Accoglieva radici nodose in terra succulenta
E spazi, anfratti, colline  nati da ogni era geologica
Così nuovo ma così assestato che mai più
Montagna poteva trasformarsi in mare.
Vivevano nel giardino d’oriente giunchiglie e anemoni
Passerotti tigri elefanti serpi – Serpenti –
Nella radura pavoni infervorati della propria coda,
Liane e orchidee ad accogliere un pappagallo arancione
Però non li conosceva nessuno
Per la ragione che nell’Eden non era nato ancora nessuno
Anche paradiso è realtà sospesa, incompleta e sorda, 
Prima che coscienza umana la includa.
A me hanno raccontato che l’Eden della meraviglia
Sortì da un discrimine che divenne materia
E il gocciolio dell’inizio scavò la pietra opaca e deserta
Tingendone l’involucro di azzurro pervinca
Domando il metano liquefatto
Che si mise a scorrere in rivoli soffusi di crespe. 
Tutto era pronto al concepimento
E ad un tratto nuvole accapigliarsi e correre 
A frotte ricciute dalle terrazze del cielo
Per andarsi a strizzare sull’ anemica carestia dei solchi
E fu allora che la natura esultò coi primi frutici,
Larve e gracidii di girini e prima ancora 
Allagando gli stagni per sostentarne le uova. 
Il giardino fu poi equipaggiato di oro e ametiste 
Come i pendagli della regina, ammassato come bottino,
E infine rivestito di velluto come sultana di lusso. 
Il sole vi si gettava ogni giorno senza mai infierire
E come un saggio caparbio continuò a empire di cure
Il microcosmo introflesso con la propria vitalità
Ninnandolo come un  bambino 
Alla ricerca del primo fiato per dischiudersi. 
La manciata di idrocarburi appena lavata dalla pioggia
Asciugata e svelenita dal calore del sole
Incipiò la voglia di conversione e di tempo
Fino a che fu inaugurata l’inverosimile storia 
Di totipotenti unicellulari  catalizzati dalla luce 
Che duplicavano in ogni reciproco abbraccio  una metamorfosi
E non servono strumenti di sopravvivenza o di lotta
Quando la pace è stata impastata alla propria condizione.
Il giardino deliziava solo se stesso e nulla aveva nome 
Nessuno si riconosceva nell’ora in cui  la terra partorì 
La prima generazione di coscienza riflessa
 Nell’immenso spazio recintato con un sorriso
Dalla creta e da due crani di materiale molliccio
Speculari e diversi si amarono sotto la volta del cielo
Godettero della nudità come di un sorso d’acqua.
Eva brillava come un fuoco notturno
Adamo era il fedele compagno
Al primo giorno per mano 
Fiumi e cascate, designarono steppe e  magnolie 
Poi presero delle bacche d’inchiostro per privilegio
All’ eternità unica e possibile della Parola.
Sulla cavità di una caverna  Eva impresse la memoria di un bue 
Al secondo giorno dipinse trote e ranocchi 
Impiastricciò poi su un vaso col murice viola
La sua invisibile nudità animale 
Solo dopo tanti giorni prese la mela 
E si sa come la storia finì
Ma tutti avremmo bisogno di una mela 
Per avvicinare l’onnicomprensivo che scorre
E’ la mente più grande del mare
Non si genuflette nemmeno alla perfezione
E lotta e si avvilisce e squarcia veli che sempre si tengono. 
L’errore è averci permessi dissidenti e pensanti
Costi quel che costi la nostra condizione
Anche udire un ventre che si apre o scricchiola la morte

7. Sotto un albero alla Farnesina
 

Il pino fossile loricato a losanghe, 
con avanzi di carbone dalla foresta pietrificata, 
misto al sughero alla calce al ferro, dai colore intatti, 
è vivo 
e il midollo esuberante, temprato e nobile,
alleva una chioma di solenne audacia.
Si espande come il respiro o un cerchio in acqua, 
deforma lo spazio col suo ombrello smussato,
petulante a gabbiani, rabbonito dai fringuelli.
Respira.
Aria e tempo gli appartengono. 
È un tempio.
Il fusto agghindato di chiocciole, 
formiche a testa rossa a solcare i licheni 
e lassù il manto picchiettato
è scandito dalla sua ospitalità. 
È un titano. 
Sonnecchia nella calura il ciclopico distacco
paventa la sua massiccia indifferenza.
Mente.
Come nel crogiolo terrestre l’accavallarsi 
di strati preserva la fabbrica di Efesto
qui a guardia del tempo, sotto il cilicio, resta
un cuore pulsante di aghi e frutti nocciolati
che dipanano dallo zenit il corso dei secoli 
sul prato dell’aiola pubblica che gli è toccata.
Solo i confratelli gli tengono il passo
l’erba è altra, la recinzione è altra.
Altre generazioni sorte in grembo al domani
apprestano merende con pane più raffinato
e si inseguono su meridiani elettrici
che roteano in sospensione sui pixel dello schermo.
Pure il bicchiere di Falerno insiste ancora 
a scaldare di rosso i pomelli e il desiderio 
che suona la canzone della vita.
Laura non è la stessa, per carità:
accoglie tra i capelli una rosa appena colta.
Da un pezzo ha ceduto crinoline e cappelli
venuta a un passo sciolto, a una gonnellina breve
ma bacia con la stessa bocca di rubino, 
saliva con gli stessi denti intrisi d’amore 
 mordendo come tutte le gemme di altro passato
il fondo dei propri pensieri.
Svolge ancora in mille nodi al vento i capelli biondi 
e trilla di turbamento lo sguardo.
La frescura arborea ammicca agli innamorati
perché i baci conservano il miele e i canditi
alle redini di tutti i millenni. Per la rinuncia 
si è troppo disperati. Sul tronco si accumula
sorpresa memoria degli accadimenti. 
Ogni radice ramificata ha il filo 
di condensazione per una guerra, un terremoto,
enciclopedia sotterranea della storia,
archivio segreto non adatto ai ciechi.
Il Tevere langue la sua ora a due passi, 
appena percettibile si versa
nella rassegnata schiavitù dell’alveo
su cui grava immemorabile la diga muraria.
La stessa marcia del pino. Nato da quando?
coevi di abbondanza, impastati di spazio-tempo, 
severi testimoni dell’orologio del mondo.
Antiche galee impennano la corrente,
spade, elmi, scudi affondano il sole,
Eraclito non si è gettato nella stessa acqua
né ha toccato sostanza mortale nel medesimo istante 
ma nella stringa è restato impigliato 
il ricordo del suo eccellente passaggio.
Che il flusso non sia renitente e accolga me.
Intanto due eternità contigue sfidano il mio segmento:
l’appuntamento col nulla da sempre
prefissato misura la mia esigua e muta frazione 
sulla corteccia scabra e il fagotto d’acqua
che mi sovrastano.

8. Trilogia equorea
 
 

Mare nostrum

Ho vinto tutti  i mari per arrivare
a questo tramonto di distanze.
Nel nulla dei giorni, coi mesi e gli anni 
che precipitano in avanti, 
riesco a pensare che solo la morte
tiene il passo dall’inizio alla fine.
Eppure non mi muovo. Non tocco nulla. 
Nemmeno la tua mano.
A me basta guardarti la radice del polso
per sentirne il battito e il rantolo.
La vita tenebrosa non ha bisogno di parole.
Lontana da esse, mi crescono 
tra i labbri le medesime rughe e le paure
che tremano tremano nelle tue pose rudi. 
Vedo nascere dal segreto le vocali 
del tuo luogo oscuro che come me urla
sanguinando al tempo che si chiude. 
Questo ho imparato dal mio tacere: 
le solitudini sono tutte ferme come il marmo
e non si trova una frase a descrivere l’inesprimibile. 
Non servono le sillabe, bastano 
gli emboli del cuore nella mia e nella tua sera 
gettandoci la rete come pescatori
abdicati al silenzio come pesci.
 

Mare greco

Sul mare greco al riparo del porto
dorme un caicco 
e il caicco sembra una noce
tanto è limato dal sale e dal sole
È così vecchio che oramai
serve solo i suoi sogni 
Ma sulla poppa  accanto alla gomena
è stesa una dea di marmo e di avorio
e ne è  invaso il mare 
perché, intorno al caicco,
brilla un pallore di pane.
Il caicco, un tempo, alzava le vele
e inseguiva la storia
A una guerra si avviò 
si vede dalle sconnessure 
che ha sostato sotto le mura di Troia
Il caicco una volta 
sbatteva le vele nell’ansa della marea 
quando andava ad incontrare 
tesori e guerrieri
Chissà quante vicende sono pressate 
nei suoi fianchi esulcerati 
Ora, nell’acqua verdebianco
intorno al vecchio caicco in disarmo
che ne ha viste di cotte e di crude,
si bagna esausta l’annosa avventura
e perché non pure una dea 
con scettro e corona?
 

Mare malato

Oggi l’acqua ha espettorato malato 
e anche la mareggiata di ieri 
traboccava ruggine sul margine 
della rena strinata, raggiunta dal silenzio.

Nell’impervia terra del cactus 
sul Tirreno che inarca alla sera
la sua vampa di rossa lava
e l’umore del suolo è irrequieto e smodato

anche qui, sommesso, 
un gocciolio di veleno ubriaca il vento.
Immagino, su questa punta costiera 
lastricata dal rimpianto di antiche consonanze,

un Morfeo così adombrato 
che verrebbe a prendere di buon grado 
non solo me ma Palinuro 
e Scilla a serrarci le porte

ora che quaggiù si semina da stranieri 
l’erba infestante  che abbranca
le flottiglie dei pesci
e scioglie il fiocco che strascica

l’anima all’incontaminato.
Mi sento persa. Quasi non respiro.
La sorte dell’idillio è segnata
e il mito che qui abitò rinuncia all’approdo

nei porti crestati di pece, 
neri e perduti prima buio
come sorte spaccata e vino fradicio
Ora che il mare non è più il mare

la poesia non trattiene il senno delle cose
e un’altra solitudine ci occupa.
Mi aspetto che prima o poi 
anche l’iride caraibica di Walcott

compresa di Montale e Quasimodo
valuti di accomiatare l’illusione
di una coperta spiccata quaggiù 
che col suono dei fiori faccia brezza.

9. I confini del mare

Parliamo tranquillamente
della linea del fra – acqua e spiaggia –
che ci è data per strada. Essa ha funzione
di forbice. Quando un piede più risoluto
anela a misurare quello che vale,
incatena le caviglie col peso dei muscoli
e se il tremendo sussulto del sangue
vorrebbe spingersi in alto, dove rosa
somiglia a fiordaliso e il sogno al possibile,
istruisce a rasoiate che il volo è radente,
soggetto a gravità. Sin dal primo vagito ha segnato
in ogni fibra che la vita è caduca
e l’umano respiro plana solo nella morte,
pertanto la direzione è unica, diritta e asserragliata.
 

La linea del fra – acqua e spiaggia –
si stende tra seducenti infiniti
di liquido e suolo spalancati inattingibili
mentre si perdura nell’ombra.
Meglio allora accettare l’andatura,
meditando che le illusioni sono gli squali
che abitano gli abissi e un arancio, casomai,
addolcisca la bocca quando l’arsura si fa sentire.
 

La linea del fra – acqua e spiaggia –
è il cordone ombelicale della madre Gaia
che si proclama magnanima, la prigione
della carne putrescente, le ascese senz’ali,
ciò che chiedemmo e mai realizzato.
Sul cuore della terra che ci parve compagna
abitiamo solo il nostro alito.
 

È in questo modo che la linea del fra
– acqua e spiaggia – vuoto e vuoto da ogni lato
divora ogni volo, ogni lingua.


10. Donne di meraviglie

(Cassandra)
 … Cassandra era figlia di re e non tesseva al telaio, poggiava al suolo
piedi sottili come la sua fortuna perché si è figli di re
ma non per questo incolumi.
Non lucidava gli ori, aveva le ancelle e
non intrecciava i lacci della tunica.
Conservava perciò mani tenui come le sue speranze.
Ecco, amava i puledri, questo è certo e le loro froge diritte e fiere
e il cielo stellato che intreccia col fato
il fiato delle ragazze innamorate.
In fondo aspettava, come tutte le altre,
anche se non propriamente
un cavallo di legno e il voltafaccia degli dei.
A quell’ora di mattina Cassandra dal peplo d’oro
vorticava davanti alle porte.
Brigava e gridava l’inganno perché in qualche modo sentiva
che il cavallo era stato calafatato nell’Ade  
– come avrebbero potuto sorreggere la sua maestà a quelle risibili ruote? –
Lei lo vide attraverso, costipato di pietra focaia e acciarini e lame e scudi,
su cui avrebbero con disonore deposto il suo rango
e urlava di non abbattere le porte ma di ostruirle invece con carri.  
Intanto Apollo la guardava inebriato, la guardava perché
Cassandra aveva occhi d’oliva e chiome di olio minerale.
Per questo Apollo l’amava. Ma anche per questo lei
gridava ma non le usciva la voce.
La prima volta Apollo la incontrò nella prima luce.
La seguì su una spiaggia dove Cassandra andava a esplorare
oltre il rigo del mare i suoi rosei fantasmi quando il dio
nel vederla accesa di grazia con stupore si accorse
di essersi perso in una vita che non era la sua.
La coprì subito di desiderio e di doni, le indicò il trono dell’eternità
e il premio della semideità per i figli che sarebbero nati da loro.
Ma Cassandra ascoltando la voce del cuore gli disse no.
Cassandra però era una donna e non poteva scampare
e quindi lei pagò. E, così, l’arroganza del dio le mise in bocca
il gingillo della profezia inascoltata
di modo che le orecchie intorno a lei si chiusero e il fiato le usciva
come un vagito, ossia inestricabile,
compreso l’avviso del più insanabile disastro.
Per questo Troia bruciò e il suo reticolo incenerito
fu seppellito nella memoria
e nel periscopio degli aedi che intrufola la poesia
ovunque sia scorso il sangue.
Cassandra, perché ti agiti?
È solo Aiace Oileo che chiede un po’ di piacere, non ti costa niente
e là fuori aspetta Agamennone per travolgerti nel suo lutto medesimo,
tanto sei femmina e non vali la pena.
Quel tale si sedette e, accendendosi una sigaretta, apostrofò: Cassandra?
Vai a capire le donne!
 
(monologo)
Cassandra è maledetta. Erba strinata e livide occhiaie 
abitano il mio castigo. Nessuno mi intende.
L’inflessibile corrente del fuoco
corrompe i muri, dilaga fino alle sorgenti più pure,
nell’ebro gorgo dei Teucri affonda il morso,
svilendo l’occhio della luna.
Nella casa accanto alle porte,
i lanuginosi capelli di Tèreo, il fiore della bocca,
il frugoletto, or son due mesi, della schiava Lèuttra
e il piedino ondulato e tradito
come incompiuto è l’orlo dei sogni,
latteo come un corallo, il volto già leso da chiazze
emana corrompendosi odore d’ incenso.
Dalla croce della sua pena, Lèuttra si leva come pietra d’ardesia,
si scuote i semi del fuoco, lo sguardo fisso come lancia.
Non vede i lampi sui carrubi.
Vagola come pazza sulla contigua tomba.
Con la destra trae fasce, soffia al suo bimbo alito nel fiato
gli passa gli unguenti, gli dona baci e baci
sotto il fragore del rogo, baci di ciottoli,
che bruciano le parole d’amore
nelle pieghe della bocca.
Ma tutta la mia città si arrende come Tèreo
sta cedendo alla folgore i passi dei giovani,
i grembi delle gestanti, le mani delle madri che sanano.
Accade come alla fine dei tempi allora che il cielo si aprirà
nell’ultima nube o in un boccio rovente
chiudendo per sempre il mistero dell’uomo
gli scarlatti d’America, i vermigli d’Asia
i cremisi infuocati di Africa, i rossi di Europa e Oceania
e tutto il giro del Tempo intorno al fuoco dell’Essere.                                


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