1.
Minotauro
I
La fibra
della ginestra
nel fango
dolente:
fu creato –
controvento –
ancora un
uomo, padre e
figlio
di tutti gli
uomini
alla corrente
abbandonato
Esanime di
respiro e
pensiero
escoriato dal
flutto
dalla tormenta
pampa e
deserto
rubra la
ferita
del tempo.
Nelle viscere
il rullo del
continente
Stremato per
sempre
dal suo andare
in tondo
La fine e il
frullo
in ogni punto
L’inizio in
nessun
punto
II
Acqua di mare
culla e
nutrimento:
lucido
mantello
la pelle.
Dalla casa
estuaria
il solo
imperio
è
l’occhio – a
perdifiato
–
sul crespo
di un lenzuolo
di flutti e
di perle
Pipistrelli e
gole
contengono
il riflesso
dell’albero
e della
parola,
ferza
alla singola
cellula
ferri
alla
libertà
Cola da ogni
onda
in ogni
molecola
il sogghigno
di chi sbatte
il farsi e il
disfarsi
della creta e
del viso
il rammarico
intatto
Il manufatto
al suo pianto
alla fine del
giorno
è la
resina
dinoccolata
della resa.
III
Occhi di
cerume
bacio di spini
fronte di
corna appuntite
ecco il
traditore
e la creatura
che guarda la
spuma e la
cenere
sfatto
guerriero – cucito
–
con refe
sdrucciola
Gialla la
stalla e la
pialla
della vita La
clorosi
sfila i suoi
trucioli
alla balla
della via
Da un
pilastro a un lutto
nell’asciutto
del
labirinto
la
maledizione vi
nacque con
testa
di toro onesto
e umano
disordine
A Creta da
Minosse
il labirinto
di ogni vita
e del
costrutto
le mosse.
IV
Chiuso dalla
maledizione
è
pronto il
progetto
Tremola
Minotauro
l’uomo che
guaisce
nella pallida
sera
la fame
invereconda
e le
viscere
della lussuria
Lo chiama
dalla stia
del sigillo
animale
la stilla del
sangue
e il serpente
scritta di
un
colore ignudo
putrefatto
E poi la mala
caratura
pretese
dal suo
appetito
la carneficina
e al
germoglio fresco
assetato
del
sopravvivere
la magagna
di bere la
cicuta
del succo
vaginale
V
Solo, come
fulmine
fulminato
sull’orizzonte
nero
Minotauro
giace
il facinoroso
cavallo alata
progenie
e
fulmine
fulminato
dalla stilla
elettrica
La
necessità
del suo
zigzagare
Fulminato
da un punto
del
microsecondo
In un punto
solo
il lampo
inappellabile
di
Minotauro
lo squarcio e
la soma
e l’onesto
giglio
VI
Dove su un
prato
neanche
l’erba
brucia
ogni
passaggio si è
scompaginato
Prima di
cominciare
un alito
fulminescente
e dopo il
giacere
la miseria
Aspetta,
Minotauro
Aspetta …
Pietra della
tomba
Aspettami.
VII
Erba-caverna
Caverna-magenta
Magenta-lucente
Magma e
semente
Un filo cresce
muore
silente
Il marmo
scalfisce
la genesi
di una
scultura
di ferro
Minotauro
innocente
nella
teca
del pulito
sente
VIII
Rinnegato dal
padre
involontario
escremento
del fato e
del mare
La cena
per sua natura
di carne e di
umano
Il destino
sommerso
dalla
brama
ma dal ventre
che
chiama
il grillo e
il tulipano
I calzari
inospitali
infrangibili
fino al filo
di lana
IX
cadeva la
sera a gocce
a tormenti
bruciavano
i cuscini del
sole
il buio e la
promessa
si apriva sul
ciglio
di altre sere
sodali
e misteriche
poi il
compimento
della tragedia
Minotauro
attende
X
Tradito dal
sangue
dalla ragione
da Arianna
sorella
il suo filo
domato
dall’architrave
giunge
allo speco
del labirinto
e
tradisce
tradisce
il sangue
medesimo
e Minotauro
in
ginocchio
aspetta la
scimitarra
per pagare
la brama
e l’orlo
vellicato della
tela
sui genitali
atoni
e la gola
sgozzata
cade
Minotauro
anch’io
Qui nel mio
labirinto
urlo
e mi strazio
sulla lama su
cui
presto
a
scoppiare
il fiato
e i
fiordalisi
2.
Icaro
Da giovinezza aperto
Icaro
si libra
negli aghi del
sole
sono aghi che
lo
perderanno.
Assaggia
giaggioli
pervinca
nella
placenta astrale in
fuga
da una catena
inospitale.
Lo spasimo di
sbarre
sulle
dune delle
ossa e lo
spossante
tribolo che
di notte
ferma
l’acido nella
sua
ragione
e sgrava
picche e
fastelli su
giunture e
paurosi
fantasmi
a un laccio
di
chiavi inutili
lasciano le
sue
remiganti.
Ora il
fruscio delle
nuvole
dissolve
dalla sua
pupilla
la bruma e
gli offre un
appiglio
quasi un
pozzo che d’un
tratto
si
cinge di
scale, e, nero e
dritto,
spalanca poi
il suo
occhio di
vetro
nel riflesso
di un
catino
di estasi
immensurabile.
Qui la guglia
dell’aria
è
suo
liquido
baccello e
concava
cetra
citerea. Prestato
dal
padre
all’immenso e al
suo vino
in volo che
lo riscatti,
ma
la
gioventù senza
memoria
e pericolo
lancia
chicchi
nell’aria
braccata
d’umana
inanità
per un
boccale
audace. Porta
un ramo
di
biancospino
all’alba
nimbata
crocedelizia
i rosei
fiocchi
a sorvolo
sull’erba
azzurra
e gli
affusolati argenti
del tortuoso
ulivo a
cogliere
il battito
della passione
-lo
scandaglio vago di
Ulisse-
nello
scarabeo dell’anima
presso la
sorgente
vietata.
Infrangere la
regola
al
costo
dell’albore del
proprio
arbore ceduo
e
sigillare
l’umidore
della parola
e il piacere
di occhi
futuri
sui vagabondi
uccelli e
le api
a scorribanda
sul
nettare
e il muliebre
candore
delle
gemme su una
rocca di
vento
appartiene
all’innocenza.
Ogni
rivoluzione
tocca
cuore di
coraggio fiero
di un
giovanile
pensiero
cui segue lo
stentare
affranto
e le dita
incollate al
che
si apre a
fato
illacrimato:
morte pianta
prima del
tempo
la rossola
tosca in
gola
al quotidiano
desinare.
3.
Ode pour l’election de son sepulcre
Omaggio ad
Ezra Pound
Clio occhilucenti,
ecco la mia
urna mondata,
deponila
sulla riva
gigliata
della risacca volubile
aqua laudatur
sit et mare
e la
sabbia di silice
accerchiala
di tua mano
al fico
d’india là in cima
intrapreso di
roccia e
molli
acuminate midolla
della mia
morte risorta
rimbombano
le orecchie.
Al sacello
traslucido di
luce
vesperale
o biacca
colore d’arenile
Clio,
sii saggia,
dissuggella
sinuosa il
cuneo
della mia conchiglia
sollazza
l’ermetico
impolverato
pallottolarmi
e dunque
astuccio d’aria
alzarmi
in ala vagante
E tronco di
quercia
incava
per depormici in fama
Uccelli,
grilli, a
trillare
della dissoluzione giapprima
pascunt et
alunt meam
animan
ad libitum
j’ai
trouvé une
goutte
de vermeille en fin
do it,
immortala la mia
secca
grancassa dalle ore aduse
tempus
tacendi nessun
serto da
posteri o Muse.
4.
Apocalisse
All’ombra della pineta
tacita
s’agguanta
L’afa sdolce
d’agosto
come lenzuoli
umidi
E non una
freccia di
vento insinua
il piede
Tra cipii di
passeracei,
anche
la lucertola tace.
Nell’ora
della calura
vale lo
scrollo della cicala
Ai timpani
con le ali a
cocca,
trilla la sua vittoria
Beffarda
umida sul
vigore
della pista tracciata
Prima della
spossatezza,
prima
che si perdessero
I propositi
delle prime
luci.
Sono arse le ninfe
gli gnomi e
gli elfi nel
fradicio
ribollire d’agosto
E una tara
sospesa e
spettrale
accudisce il bosco.
Sfatto il
terreno ruggine
schierato
dalle formiche
Pesa oltre la
chioma-ombrella
un pallidissimo cielo
Con una
musica che non si
regge,
abbacinata e greve,
Tace il ritmo
del mare
oltre
il corredo di sabbia
Perché
Tritone ha
abbandonato
i flutti e Eolo l’otre
Ogni sostanza
si è
cangiata
in onta o risucchio
E non
c’è chi
possa guardare
intorno e puntellarsi
sull’esilio
immobile di
un libro
scritto di ignoto.
Si sfaldano i
lacerti
mentali
contro l’inevidenza
Danza alla
gravità
a decrescere
la bonaccia del corpo
Derelitto in
nuova
estraneità,
scarto di mondo.
È lo
sceneggiatore
che
oggi fa fuoco e domani neve
E ci sforza a
ognora con
l’esile
staffile del suo grimaldello
E parla
oscuro in
incognita,
ci risparmia o ci doppia
Nulla che
rassicuri il
brivido
che d’agosto ti prende
5.
Tenebre
Endecasillabo
Tenebre sento che il
mio disarmato
Verso
è leggero e
non
prosciuga il mare
Butta via la
preghiera,
vola
come
Tenera piuma
sulla
convenzione
Della mia
mente
ordinaria, batto
I polsi a
sorte
affinché
fuoriesca
E fruttifichi
e stia la
mia parola
A quella
degli altri. Il
singulto
Del mondo
bevo, defloro
la notte
Il crepacuore
di Iside
sussurro
Per ripartire
il pane
delle fate.
L’onirico mio
candore
nativo
Consegnerò
ad un
angelo
puro
Su una
collina di mille o
più
anni
Da affrancare
ad inerzia
di sangue,
il pensiero a
morte delle
pietre
posate lungo
i fiumi come
agnelli
cadere nelle
lacrime
infauste
a meretrice
che svende di
fame
e piacere,
assaggiare
insconfitta
viscere
spurie a un
penitente
girare al
secolo la toppa
buia
scrollata di
presaga paura
con la chiave
a croce
della vita
in simultanea
zaffata
d’inferno
e se la terra
siglerò
col tono
di profeta
sarò
allora
poeta.
Omaggio
a Coleridge
Ah, Polifemo, è
ben arduo
Il passo al
tuo esercito
in parata
Dai riccioli
gialli e il
piglio
rattenuto
Così
sovrabbondante nel
campo
Pigmentato,
la smisurata
pupilla
Sotto il
vetusto cielo
Irrigidisce
lo slancio
Lungo i raggi
spigliati e
Solo la testa
sul lungo
esile
collo
Risale la
fotosintesi
Devota e
fiera.
Infaticabile
All’orizzonte
la tempesta
Già
affretta gli
stormi
imminenti
E presto
l’occhio del
vento
Pareggerà
la piana
da
ogni rigoglio.
Coleridge,
abbi
pietà,
trattienila
allo scoglio
tu che sai,
dai girasoli
d’oro.
6.
Il Principio
Ora la terra era
informe e deserta
E le tenebre
ricoprivano
l’abisso.
Ecco il primo
bagliore,
ecco
la prima rosa
E dio vide
che la cosa
era buona.
Nasce un
fiore nel cosmo.
Soffia
la sua eco perenne
L’eterno
presente big
bang dal
mezzo della pietra
Spiccata in
un sol tocco
dal
caos dell’informe astrale.
Nel subbuglio
Gea si
germina
e poi Eros, Tartaro, Erebo.
L’incavo si
coprì
della
Notte più fonda
Finché
l’Erebo
generò
il Giorno e Gea Urano e il Ponto
E lo zodiaco
sorrise
specchiandosi
nello gnomone.
Ogni cosa
così
affrancata
dal primo istante fu verbo
E ebbe un
unico posto in
alto
o in basso
per
diffondere la novella
della
propria nascita
Mentre
Ahura Mazdah
si
accarezzava la barba.
All’alba
l’immenso
comincia sulla
cornice del polo
E si
rimpinza le
tasche
e riapre i palmi
Per accendere
la volta
celeste
di albe e costellazioni
Perché
la pace che
sente
è quella della Parola.
Ha diviso
l’essere dal
contrario
coi bassi occhi esitanti,
Quindi ha
brandito la
bacchetta
per condurre l’orchestra
E la diga
della musica ha
traboccato
le gamme acustiche:
Finanche
ultrasuoni al
cane e
al lupo dagli occhi di giada.
Sia il
firmamento in
mezzo alle
acque
Per separare
le acque
dalle acque
E dio vide
che la cosa
era buona
Nondimeno la
stirpe dei
posteri
ha sete di un proprio riscatto
A
spendere perizia
a tarare
gli strumenti,
Fino
all’iniziale
soffione, dentro
la noce dell’evento,
Virtuosi
pionieri di
traverso
a un rudimentale rotore,
Una
sciocchezzuola
caduca, una
lente di cristallo
Che esonda la
fulminazione della
prima ora costipata.
A ogni giro
coi lampi
cremisi
riprende il ribollire del Tempo
Dal periplo
di Fetonte
intorno
alle faville del sole,
Sorto dal
nerofumo come
un bulbo
coronato di oro
E di lingue
di cinabro
rosolate
dalla fucina di Vulcano.
Impressionati
assistono
alla
rissa dei massicci Titani
Corrugati di
ruggine, di
fogge
accese, di porpora espansa
Che urlano
fino alle
periferie
estreme, coperti di raggi,
Noci
bacchiate e
folgorate da
lamprede fluorescenti
Luce di
prepotenza
ghiaccia.
Fine e inizio coincidenti.
Sullo smacco
dei
miserabili già
compare la supplica urgente
Se gli
scienziati
filosofi dentro
il turgido esordio dell’essere,
Anche un
sasso smussato e
dimenticato
dal ruscello
O un encausto
assopito
nella
sua cera fusa
Per amore di
dottrina
scavano
il principio e la resa
E il fuoco,
il vapore e
gli atomi
accolsero la propria natura
Con
sbigottimento
sommesso e
la certezza del tradimento.
Nella
gerarchia dei cieli
l’energico
balzo in avanti
Alla
contemplazione del
vero
e la sua onnipotenza
Anche l’arte
e il mito lo
tentano
insieme alla fede
Per mutare la
strettoia
dell’uomo
e sollevarne lo sconforto
Mentre il
logos
trascina
le labbra mai persuase dalla coppa
Intanto che
una vacua
oscurità
ricopre ancor meglio
Ogni umana
velleità con
catramose gramaglie.
Sul far dell’ora l’era
bambina
intraprende la strada
Nel pianoro
sonoro ove un
brodo
viscoso
Saggia nel
padule
le matrici
per una nuova parità.
All’impazzata
un vortice
di pesci
si orna di zampe
Per andare a
conoscere la
primula
e la timida mammola
Nei pascoli
dei
dinosauri, tra
sambuchi umidicci
Inginocchiati
a una
querula pioggia
di sbieco
E ispidi
arbusti
affondati nella
melma marcescente.
Nelle ore
prostrate
comincia
lo sfregio triviale
Allorquando
il tosco
dell’evoluzione
accende il suo tripode
Chiamando
alla battaglia
gli
arieti a corna allacciate
Le tigri
maculate e un
macaco
col
dito proteso alla coscienza.
L’iconografia
di sisma e
eruzioni
intacca tutt’intorno
Le brulle
alture soffiate
di
argilla e imprigionate di slavine,
Quando il
grugnito della
morte
La figlia
dell’universo
incaglia
lo stagno
E il colosso
capitolato
alla
meteora è seppellito nella creta
Affinché
un
paleontologo
scavasse quell’ultimo fiato
Per porgerlo
all’odorato
commosso
di un giorno lontano.
Ecco un bosco
di palmizi
e un
canale di bisce lenticole
Su cui naviga
la foga di
zefiro
e più su un’ala pulita
Abbagliata da
guizzi e
teneramente
compiacente.
Toth è
lì
seduto
da giorni e segna con un ramo la sabbia
Fitta come le
gocce del
pelago
e ancor più domestica
Il
computo del
veleggiare
del sole e dei suoi fratelli prossimi
Toth è
assorto nel
calcolo
da tramutarsi nel suo disegno,
O in una
piuma che
osserva dall’alto
il mondo che sorvola.
Per
divertimento ha
collazionato
la scacchiera e il dado multiplo
Ma, prima
ancora, come
una sfinge,
ha estratto dalla sua bontà
Una celeste
Parola, un
timbro
graffito
Capace di
mandare a fuoco
i nevai
o raggelare un animo
Adagiandola
ad oltranza
sullo
stupore dei granuli
Gentili e
immobili,
coinvolti
dalla grazia,
Perché
l’uomo
nascesse
di sua mano per la seconda volta
Scalpellando
su un
ciottolo,
incidendo la malta o con lo stilo
Che conserva,
nella
tregua di
un segno, la lamentazione
Fatta
perpetua gloria dei
secoli
e della cenere.
Anche
Gilgamesh
carico
di epopea e leggenda
Vagava
una volta
pensieroso
al fiotto di una torcia
In un bosco
di cedri,
sotto il
peso di anni logori.
Gli uccelli
con le ali
raccolte
mordevano i suoi ricordi:
Un amico in
lotta con
belve,
la sfida all’immunità
Il grande
oceano caduto
dall’alto
sulle colpe degli uomini
Che la
memoria avrebbe
tradito
alla fine della canzone,
Quando l’aedo
abbandonata
la
cetra trova alla sue membra
Un covile per
le orbite
senza
potere eppure lungimiranti.
Si mette a
contare
l’altrui tenebra
e la propria che calerà
Sulla sua
retta
ardimentosa come
su ogni naviglio
Finché
l’eletto
non incontra
uno scriba in attesa,
Assiso alla
biforcazione
di un
ramo a dondolare i piedi
Per
raccogliere la sua
stessa
fama e un testamento.
Da allora se
un bimbo
è
ridotto a gregge dal pascolo asciutto
Con la pelle
raggrinzita
intorno
alle costole
E il padre
colto in
schiavitù
fugge davanti alla rovina
E al trionfo
dell’usurpatore
nelle strade disseminate
Di odio e
ferite che
inondano
il selciato di bile
Quando in
tralice si
scaglia
il fuoco della nebulosa vendicatrice
O un flutto
rovescia la
sua stizza
fino all’empireo
Su larve e
girini e
tutti
i suoi nati in deliquio
O Teseo
libera i sette
giovani
e le giovanette
O Iside agita
il sistro e
la
sacerdotessa
L’ascia
bipenne,
nell’antico
tempio di Delfi
O una mente
si ribella,
stregata
dall’immensurabile sapienza,
Una lastra di
piombo,
incisa
da una visione,
consegna il
testimone
fino all’orlo
dell’Eden.
Ma negromanti
sacerdoti
di oracolo
insulso
Hanno
costruito un altare
e intorno
all’altare
Un fortilizio
e cinto il
fortilizio
con spranghe e cemento
E sull’altare
a misura
delle
cose un semplice metro
Che Fromm ha
inghirlandato di
un serto luciferino.
Si dissetano
nella
sentina con
erbe che spillano vizio
E mangiano
lercio,
spalancando
le mandibole per futilità
E ogni
metallo ha perso
smalto
in mano agli sciacalli.
A me hanno raccontato
una magnifica
storia
Correva lenta
come il
tempo
A me hanno
raccontato di
quattro
fiumi
Tigri Eufrate
Pison e
Ghicon
intorno al Paese d’Etiopia
A me hanno
raccontato di
quattro
fiumi in un giardino d’oriente.
Chi non ne ha
sentito
parlare?
Tra quattro
fiumi ad
oriente
giaceva un giardino di piacere
E il giardino
del piacere
era
selvaggio e aprico
Io baci
sapevano di
mandorle
Lucevano
i cirri
del crepuscolo
Il suolo del
giardino del
piacere
Accoglieva
radici nodose
in terra
succulenta
E spazi,
anfratti,
colline
nati da ogni era geologica
Così
nuovo ma
così
assestato che mai più
Montagna
poteva
trasformarsi
in mare.
Vivevano nel
giardino
d’oriente
giunchiglie e anemoni
Passerotti
tigri elefanti
serpi
– Serpenti –
Nella radura
pavoni
infervorati
della propria coda,
Liane e
orchidee ad
accogliere
un pappagallo arancione
Però
non li
conosceva
nessuno
Per la
ragione che
nell’Eden
non era nato ancora nessuno
Anche
paradiso è
realtà
sospesa, incompleta e sorda,
Prima che
coscienza umana
la
includa.
A me hanno
raccontato che
l’Eden
della meraviglia
Sortì
da un
discrimine
che divenne materia
E il
gocciolio
dell’inizio scavò
la pietra opaca e deserta
Tingendone
l’involucro di
azzurro
pervinca
Domando il
metano
liquefatto
Che si mise a
scorrere in
rivoli
soffusi di crespe.
Tutto era
pronto al
concepimento
E ad un
tratto nuvole
accapigliarsi
e correre
A frotte
ricciute dalle
terrazze
del cielo
Per andarsi a
strizzare
sull’
anemica carestia dei solchi
E fu allora
che la natura
esultò
coi primi frutici,
Larve e
gracidii di
girini e
prima ancora
Allagando gli
stagni per
sostentarne
le uova.
Il giardino
fu poi
equipaggiato
di oro e ametiste
Come i
pendagli della
regina,
ammassato come bottino,
E infine
rivestito di
velluto
come sultana di lusso.
Il sole vi si
gettava
ogni giorno
senza mai infierire
E come un
saggio caparbio
continuò
a empire di cure
Il microcosmo
introflesso
con
la propria vitalità
Ninnandolo
come un
bambino
Alla ricerca
del primo
fiato
per dischiudersi.
La manciata
di
idrocarburi appena
lavata dalla pioggia
Asciugata e
svelenita dal
calore
del sole
Incipiò
la voglia
di conversione
e di tempo
Fino a che fu
inaugurata
l’inverosimile
storia
Di
totipotenti
unicellulari
catalizzati dalla luce
Che
duplicavano in ogni
reciproco
abbraccio una metamorfosi
E non servono
strumenti
di sopravvivenza
o di lotta
Quando la
pace è
stata
impastata alla propria condizione.
Il giardino
deliziava
solo se
stesso e nulla aveva nome
Nessuno si
riconosceva
nell’ora
in cui la terra partorì
La prima
generazione di
coscienza
riflessa
Nell’immenso
spazio
recintato
con un sorriso
Dalla creta e
da due
crani di
materiale molliccio
Speculari e
diversi si
amarono
sotto la volta del cielo
Godettero
della
nudità
come di un sorso d’acqua.
Eva brillava
come un
fuoco notturno
Adamo era il
fedele
compagno
Al primo
giorno per
mano
Fiumi e
cascate,
designarono
steppe e magnolie
Poi presero
delle bacche
d’inchiostro
per privilegio
All’
eternità
unica e
possibile della Parola.
Sulla
cavità di
una caverna
Eva impresse la memoria di un bue
Al secondo
giorno dipinse
trote
e ranocchi
Impiastricciò
poi
su un
vaso col murice viola
La sua
invisibile
nudità
animale
Solo dopo
tanti giorni
prese
la mela
E si sa come
la storia
finì
Ma tutti
avremmo bisogno
di una
mela
Per
avvicinare
l’onnicomprensivo
che scorre
E’ la mente
più
grande
del mare
Non si
genuflette nemmeno
alla
perfezione
E lotta e si
avvilisce e
squarcia
veli che sempre si tengono.
L’errore
è averci
permessi
dissidenti e pensanti
Costi quel
che costi la
nostra
condizione
Anche udire
un ventre che
si
apre o scricchiola la morte
7.
Sotto un albero alla Farnesina
Il pino fossile
loricato a losanghe,
con avanzi di
carbone
dalla foresta
pietrificata,
misto al
sughero alla
calce al
ferro, dai colore intatti,
è
vivo
e il midollo
esuberante,
temprato
e nobile,
alleva una
chioma di
solenne
audacia.
Si espande
come il
respiro o
un cerchio in acqua,
deforma lo
spazio col suo
ombrello
smussato,
petulante a
gabbiani,
rabbonito
dai fringuelli.
Respira.
Aria e tempo
gli
appartengono.
È un
tempio.
Il fusto
agghindato di
chiocciole,
formiche a
testa rossa a
solcare
i licheni
e
lassù il manto
picchiettato
è
scandito dalla
sua ospitalità.
È un
titano.
Sonnecchia
nella calura
il ciclopico
distacco
paventa la
sua massiccia
indifferenza.
Mente.
Come nel
crogiolo
terrestre l’accavallarsi
di strati
preserva la
fabbrica
di Efesto
qui a guardia
del tempo,
sotto
il cilicio, resta
un cuore
pulsante di aghi
e frutti
nocciolati
che dipanano
dallo zenit
il corso
dei secoli
sul prato
dell’aiola
pubblica
che gli è toccata.
Solo i
confratelli gli
tengono
il passo
l’erba
è altra, la
recinzione
è altra.
Altre
generazioni sorte
in grembo
al domani
apprestano
merende con
pane più
raffinato
e si
inseguono su
meridiani elettrici
che roteano
in
sospensione sui
pixel dello schermo.
Pure il
bicchiere di
Falerno
insiste ancora
a scaldare di
rosso i
pomelli
e il desiderio
che suona la
canzone
della vita.
Laura non
è la
stessa,
per carità:
accoglie tra
i capelli
una rosa
appena colta.
Da un pezzo
ha ceduto
crinoline
e cappelli
venuta a un
passo
sciolto, a
una gonnellina breve
ma bacia con
la stessa
bocca
di rubino,
saliva con
gli stessi
denti intrisi
d’amore
mordendo
come tutte
le
gemme di altro passato
il fondo dei
propri
pensieri.
Svolge ancora
in mille
nodi al
vento i capelli biondi
e trilla di
turbamento lo
sguardo.
La frescura
arborea
ammicca agli
innamorati
perché
i baci
conservano
il miele e i canditi
alle redini
di tutti i
millenni.
Per la rinuncia
si è
troppo
disperati.
Sul tronco si accumula
sorpresa
memoria degli
accadimenti.
Ogni radice
ramificata ha
il
filo
di
condensazione per una
guerra,
un terremoto,
enciclopedia
sotterranea
della
storia,
archivio
segreto non
adatto ai
ciechi.
Il Tevere
langue la sua
ora a
due passi,
appena
percettibile si
versa
nella
rassegnata
schiavitù
dell’alveo
su cui grava
immemorabile
la
diga muraria.
La stessa
marcia del
pino. Nato
da quando?
coevi di
abbondanza,
impastati
di spazio-tempo,
severi
testimoni
dell’orologio
del mondo.
Antiche galee
impennano
la corrente,
spade, elmi,
scudi
affondano
il sole,
Eraclito non
si è
gettato
nella stessa acqua
né ha
toccato
sostanza
mortale nel medesimo istante
ma nella
stringa è
restato
impigliato
il ricordo
del suo
eccellente
passaggio.
Che il flusso
non sia
renitente
e accolga me.
Intanto due
eternità contigue
sfidano il mio segmento:
l’appuntamento
col nulla
da sempre
prefissato
misura la mia
esigua
e muta frazione
sulla
corteccia scabra e
il fagotto
d’acqua
che mi
sovrastano.
8.
Trilogia equorea
Mare
nostrum
Ho vinto tutti i
mari per
arrivare
a questo
tramonto di
distanze.
Nel nulla dei
giorni, coi
mesi
e gli anni
che
precipitano in
avanti,
riesco a
pensare che solo
la
morte
tiene il
passo
dall’inizio alla
fine.
Eppure non mi
muovo. Non
tocco
nulla.
Nemmeno la
tua mano.
A me basta
guardarti la
radice
del polso
per sentirne
il battito e
il
rantolo.
La vita
tenebrosa non ha
bisogno
di parole.
Lontana da
esse, mi
crescono
tra i labbri
le medesime
rughe
e le paure
che tremano
tremano nelle
tue
pose rudi.
Vedo nascere
dal segreto
le vocali
del tuo luogo
oscuro che
come
me urla
sanguinando
al tempo che
si chiude.
Questo ho
imparato dal
mio tacere:
le solitudini
sono tutte
ferme
come il marmo
e non si
trova una frase
a descrivere
l’inesprimibile.
Non servono
le sillabe,
bastano
gli emboli
del cuore
nella mia
e nella tua sera
gettandoci la
rete come
pescatori
abdicati al
silenzio come
pesci.
Mare
greco
Sul mare greco al
riparo del porto
dorme un
caicco
e il caicco
sembra una
noce
tanto
è limato dal
sale
e dal sole
È
così
vecchio
che oramai
serve solo i
suoi
sogni
Ma sulla
poppa
accanto
alla gomena
è
stesa una dea di
marmo
e di avorio
e ne
è
invaso il
mare
perché,
intorno al
caicco,
brilla un
pallore di pane.
Il caicco, un
tempo,
alzava le
vele
e inseguiva
la storia
A una guerra
si
avviò
si vede dalle
sconnessure
che ha
sostato sotto le
mura
di Troia
Il caicco una
volta
sbatteva le
vele
nell’ansa della
marea
quando andava
ad
incontrare
tesori e
guerrieri
Chissà
quante
vicende
sono pressate
nei suoi
fianchi
esulcerati
Ora,
nell’acqua
verdebianco
intorno al
vecchio caicco
in
disarmo
che ne ha
viste di cotte
e di
crude,
si bagna
esausta l’annosa
avventura
e
perché non pure
una
dea
con scettro e
corona?
Mare
malato
Oggi l’acqua ha
espettorato malato
e anche la
mareggiata di
ieri
traboccava
ruggine sul
margine
della rena
strinata,
raggiunta
dal silenzio.
Nell’impervia terra
del cactus
sul Tirreno
che inarca
alla sera
la sua vampa
di rossa lava
e l’umore del
suolo
è
irrequieto e smodato
anche qui,
sommesso,
un gocciolio
di veleno
ubriaca
il vento.
Immagino, su
questa punta
costiera
lastricata
dal rimpianto
di antiche
consonanze,
un Morfeo così
adombrato
che verrebbe
a prendere
di buon
grado
non solo me
ma
Palinuro
e Scilla a
serrarci le
porte
ora che quaggiù
si semina
da stranieri
l’erba
infestante
che abbranca
le flottiglie
dei pesci
e scioglie il
fiocco che
strascica
l’anima
all’incontaminato.
Mi sento
persa. Quasi non
respiro.
La sorte
dell’idillio
è
segnata
e il mito che
qui
abitò
rinuncia all’approdo
nei porti crestati di
pece,
neri e
perduti prima buio
come sorte
spaccata e
vino fradicio
Ora che il
mare non
è
più il mare
la poesia non
trattiene il senno
delle cose
e un’altra
solitudine ci
occupa.
Mi aspetto
che prima o
poi
anche l’iride
caraibica
di Walcott
compresa di Montale e
Quasimodo
valuti di
accomiatare
l’illusione
di una
coperta spiccata
quaggiù
che col suono
dei fiori
faccia
brezza.
9. I
confini del mare
Parliamo
tranquillamente
della
linea del fra – acqua e spiaggia –
che
ci è data per strada. Essa ha funzione
di
forbice. Quando un piede più risoluto
anela
a misurare quello che vale,
incatena
le caviglie col peso dei muscoli
e
se il tremendo sussulto del sangue
vorrebbe
spingersi in alto, dove rosa
somiglia
a fiordaliso e il sogno al possibile,
istruisce
a rasoiate che il volo è radente,
soggetto
a gravità. Sin dal primo vagito ha segnato
in
ogni fibra che la vita è caduca
e
l’umano respiro plana solo nella morte,
pertanto
la direzione è unica, diritta e asserragliata.
La
linea del fra – acqua e spiaggia –
si
stende tra seducenti infiniti
di
liquido e suolo spalancati inattingibili
mentre
si perdura nell’ombra.
Meglio
allora accettare l’andatura,
meditando
che le illusioni sono gli squali
che
abitano gli abissi e un arancio, casomai,
addolcisca
la bocca quando l’arsura si fa sentire.
La
linea del fra – acqua e spiaggia –
è
il cordone ombelicale della madre Gaia
che
si proclama magnanima, la prigione
della
carne putrescente, le ascese senz’ali,
ciò
che chiedemmo e mai realizzato.
Sul
cuore della terra che ci parve compagna
abitiamo
solo il nostro alito.
È
in questo modo che la linea del fra
–
acqua e spiaggia – vuoto e vuoto da ogni lato
divora
ogni volo, ogni lingua.
10. Donne
di meraviglie
(Cassandra)
… Cassandra era figlia di re e non tesseva al
telaio, poggiava al suolo
piedi
sottili come la sua fortuna
perché si è figli di re
ma
non per questo incolumi.
Non
lucidava gli ori, aveva le ancelle
e
non
intrecciava i lacci della tunica.
Conservava
perciò mani tenui come le
sue speranze.
Ecco,
amava i puledri, questo è certo
e le loro froge diritte e fiere
e
il cielo stellato che intreccia col
fato
il
fiato delle ragazze innamorate.
In
fondo aspettava, come tutte le altre,
anche
se non propriamente
un
cavallo di legno e il voltafaccia
degli dei.
A
quell’ora di mattina Cassandra dal
peplo d’oro
vorticava
davanti alle porte.
Brigava
e gridava l’inganno perché in
qualche modo sentiva
che
il cavallo era stato calafatato nell’Ade
–
come avrebbero potuto sorreggere la
sua maestà a quelle risibili ruote? –
Lei
lo vide attraverso, costipato di
pietra focaia e acciarini e lame e scudi,
su
cui avrebbero con disonore deposto
il suo rango
e
urlava di non abbattere le porte ma
di ostruirle invece con carri.
Intanto
Apollo la guardava inebriato,
la guardava perché
Cassandra
aveva occhi d’oliva e chiome
di olio minerale.
Per
questo Apollo l’amava. Ma anche
per questo lei
gridava
ma non le usciva la voce.
La
prima volta Apollo la incontrò
nella prima luce.
La
seguì su una spiaggia dove
Cassandra andava a esplorare
oltre
il rigo del mare i suoi rosei
fantasmi quando il dio
nel
vederla accesa di grazia con
stupore si accorse
di
essersi perso in una vita che non
era la sua.
La
coprì subito di desiderio e di
doni, le indicò il trono dell’eternità
e
il premio della semideità per i
figli che sarebbero nati da loro.
Ma
Cassandra ascoltando la voce del
cuore gli disse no.
Cassandra
però era una donna e non
poteva scampare
e
quindi lei pagò. E, così,
l’arroganza del dio le mise in bocca
il
gingillo della profezia inascoltata
di
modo che le orecchie intorno a lei
si chiusero e il fiato le usciva
come
un vagito, ossia inestricabile,
compreso
l’avviso del più insanabile
disastro.
Per
questo Troia bruciò e il suo
reticolo incenerito
fu
seppellito nella memoria
e
nel periscopio degli aedi che
intrufola la poesia
ovunque
sia scorso il sangue.
Cassandra,
perché ti agiti?
È
solo Aiace Oileo che chiede un po’
di piacere, non ti costa niente
e
là fuori aspetta Agamennone per
travolgerti nel suo lutto medesimo,
tanto
sei femmina e non vali la pena.
Quel
tale si sedette e, accendendosi
una sigaretta, apostrofò: Cassandra?
Vai
a capire le donne!
(monologo)
Cassandra
è maledetta. Erba strinata e livide occhiaie
abitano
il mio castigo. Nessuno mi intende.
L’inflessibile
corrente del fuoco
corrompe
i muri, dilaga fino alle sorgenti più pure,
nell’ebro
gorgo dei Teucri affonda il morso,
svilendo
l’occhio della luna.
Nella
casa accanto alle porte,
i
lanuginosi capelli di Tèreo, il fiore della bocca,
il
frugoletto, or son due mesi, della schiava Lèuttra
e
il piedino ondulato e tradito
come
incompiuto è l’orlo dei sogni,
latteo
come un corallo, il volto già leso da chiazze
emana
corrompendosi odore d’ incenso.
Dalla
croce della sua pena, Lèuttra si leva come pietra d’ardesia,
si
scuote i semi del fuoco, lo sguardo fisso come lancia.
Non
vede i lampi sui carrubi.
Vagola
come pazza sulla contigua tomba.
Con
la destra trae fasce, soffia al suo bimbo alito nel fiato
gli
passa gli unguenti, gli dona baci e baci
sotto
il fragore del rogo, baci di ciottoli,
che
bruciano le parole d’amore
nelle
pieghe della bocca.
Ma
tutta la mia città si arrende come Tèreo
sta
cedendo alla folgore i passi dei giovani,
i
grembi delle gestanti, le mani delle madri che sanano.
Accade
come alla fine dei tempi allora che il cielo si aprirà
nell’ultima
nube o in un boccio rovente
chiudendo
per sempre il mistero dell’uomo
gli
scarlatti d’America, i vermigli d’Asia
i
cremisi infuocati di Africa, i rossi di Europa e Oceania
e tutto il giro del Tempo intorno al
fuoco dell’Essere.