Senecio
     SENECIO
Fondatore
Emilio Piccolo

Direttore
Andrea Piccolo e Lorenzo Fort



Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'illuminismo

Rivisitazioni, traduzioni, manipolazioni



Redazione
Gianni Caccia, Maria Grazia Caenaro, Claudio Cazzola
Letizia Lanza, Vincenzo Ruggiero Perrino, Andrea Scotto



Alessandro Cabianca
Scheda biobibliografica

Medea Medea

Medea (circe)

Eri proprio fuori strada, Ulisse,
a credere che potesse darti ascolto
e impegnare sentimento e cuore;
il suo mondo era il sortilegio, la deformazione.

(Nel gioco a guardie e ladri della vita,
più spesso si è ladri e la guardia si trova
circondata senza vie di scampo).

Circe compie il suo rito,
aiutata dall’erba dell’oblio,
operando ogni incantamento
(chissà se erano allucinazioni),

ma, quando se ne parte Ulisse, gracida
il suo corpo un vento avaro sulla marina,
stese le braccia come d’albatro ferito.

Miracolato dal rogo, mirandolino,
CABALAdipendente e picchiatello
il Pico/picchio, che picchietta,
quel gran testone, in odore di eresia,
con l’erba moli, cura delle trasformazioni
e del cimurro, e la pietra filosofale,
cura dell’enfasi e della stupidità.

I semi di melagrana
sono le ombre di Persefone dentro l’Ade.


Medea (fedra)

Anche oggi puoi credere all’innocenza,
pensare normalmente ai figli o al marito:

occasionalmente è tutto così normale!

“Portatemi il re, portatemi il vento,
portatemi la danzatrice!

Fate avvicinare Ippolito; quale turbamento
questi sguardi appagati!”

Se svela
i desideri della matrigna, chi le può
evitare la vendetta?

“Tenete lontano il re, fate scempio
di Ippolito, legatelo ai suoi cavalli,
ai miei voleri ha creduto di sottrarsi,
non è giusto che viva.”

Le Arpie rimangano dove gli accadimenti
si ignorano e le vendette giungono
in estesissimi ritardi (a colpo morto!):

nessuno pensi che Medea sia (sfrenata,
nuda, invasata) l’ultima delle Menadi.


Medea (della complicità)

Un complice era essenziale ai suoi progetti,
fosse pur anche amore di rapina. Dalla parte
dell’animo più oscura ogni legge era violata,
ma dalla parte dell’animo più chiara ogni legge
di necessità incontrava il suo confine.

Come se non avesse abbandonato il padre
e tradito la sua gente, come se l’andare estranea
tra altra gente avesse aggiunto colpa a colpa,
torto a torto, come se ogni idea esacerbasse,
ancor prima d’esser chiara, la mente;

ed altri infinitamente ridondanti come se.
Per dignità o paura, per odio e per passione,
per colpa ed innocenza di certo le nuvole
erano complici, e preparavano terribili
uragani; di certo si disponeva il vento

a spazzare la campagna e radere le deboli
capanne (suolo contro suolo); di certo il gelo
negava ai rari uccelli un solo approdo.
E come di brusio, non di parole, come di terribile
segreto: anche se tu le somigliassi.


Medea (medea)

Per quale rebus servisse ammazzare il fratello,
prediligere l’eroe d’oltremare che minava
il regno del padre, per quale insospettato
segreto servisse tradire la stirpe e cedere
agli occhi incantanti di un rozzo straniero;

per quale strada aggiungere abiezione e paura,
indicare a Giasone i segreti del tempio e del vello,
per quale efferata crudezza fare a pezzi il fratello
e disperderne il corpo, per ritardare la corsa del padre,
disperato per rabbia e dolore, a inseguire i fuggiaschi;

per che irragionevole scelta convincesse le figlie
di Pelia a credere al ringiovanimento del padre
per bollitura sul fuoco (è pur vero che aveva
tentato, Pelia, di togliere Giasone di torno,
spedendolo in Colchide), per che strana bugia

intendesse dimenticare Giasone quei doni
(quanto crudeli, e inimmaginabili!), ritenerli
cosa da poco, e credere che avrebbe ceduto,
lei, Medea, così straordinaria guerriera,
così strenua, così straniera ai suoi occhi!

Per quale scandalosa legge dovesse rinunciare
a quell’uomo per il quale aggiungeva delitto a delitto
e per la città parata a festa, lei a perpetuare
un delirio di distruzione, con ogni dono.

(Se aggiungeva delitto a delitto, nessun volere,
seppure divino, poteva negarle il suo uomo).

Per sua mano trafitti, stupefatti, ma ignari,
cadevano i figli, piangendo di poco spavento.
Né paga, né vinta. Per una stessa mano...


 


 

Figura

Via delle maschere
Finzione n. 1 – Figura
Finzione n. 2 – Canzone
Finzione n. 3 – Frisia
Finzione n. 4 – Di lontano
Figura n. 1 – Che ti manda è il vento
Figura n. 2 – Quello che narri del tuo viaggio
Figura n. 3 – Seguendo le molte tracce
Figura n. 4 – Dal tramonto all’alba
Via delle sorgenti
 


Via delle Maschere
 

Cerca negli specchi le sue forme
quel pagliaccio, ormai vecchio,
in mano l’ultima maschera:
non gli riesce di sovrapporla al viso.
 

?Verso che cosa e dove,
nel gioco delle sostituzioni,
verso che successivi strati d’alba,
finché infaticabile la vita?

Meglio sia un arlecchino a condurti
per le strade di Morgantina,
sgomberata da Augusto:
una congiura a ogni vicolo.

Come una donna,
folle della sua voce
……………….
d’oro, funeraria,
se fosse Priamo.
 

Finzione n. 1 – Figura
 

Mentre fugge il cinghiale
e la muta, aizzata e feroce,
intende il suono acre del corno,
io che non ho
una guerra da raccontare
guardo chiatte bianche risalire la corrente
spinte da uomini forti e mesti,
che bevono birra e masticano tabacco.
 

Passato è maggio,
i coleotteri hanno già preso il volo,
mentre in Aulide, men che appassionatamente,
di ombra in ombra, Ifigenia, recede,
e nel suo viaggio (obbligato) al cielo
fa qualche tappa a caso.
Non può essere quaggiù il futuro del sole!
 

In quieto volgere d’alberi e di mani,
figli di inganni e desideri,
non solo i grandi fiumi
scendono a placarsi qui,
ove la primavera non arriva,
davanti a un uomo già vecchio,
che intona a fil di voce nenie ossessionate.
 

Gli anni non smettono mai di passare
e le canzoni hanno le stesse rime di sempre,
dentro le satrapie del cuore.
Sulla mia strada, di sera, lungo viali illuminati appena,
non s’incontra che qualche lucciola,
intrigante più o meno,
 

in figura d’alberi e di lune.
 

Finzione n. 2 – Canzone
 

Nessuno che ti dica dove tu possa esistere,
se in verde scorrere di prati
o in rosso fuoco di papaveri, o se dall’alto
dei suoi millenni ti scuota dentro il mare,
ora che la calma lascia il passo a nuvole gonfie
(non sai se d’acqua o grandine
o siano nuvole gonfie di qualche uragano),
mentre il bicchiere si svuota, come si svuota il tino.
 

L’occhio accarezza il bicchiere,
immagina il volatile dell’affanno,
inchioda al fondo della bottiglia
il diafano della pena e della noia,
davanti a un mazzo di carte,
 

prima di giocarsi una briscola.
 

L’uomo che gioca e ride la vita
Rimescola con infinita gioia il falso e il vero:
ogni trasceso segreto o ossessivo rimorso
diventa bianco o rosso a seconda del vino.
 

Ora il luogo che cerco è una canzone
scucita e ricomposta dai millenni:
l’inutile sublime delle cicale.
 

(Ho fatto il possibile per Massenzio
                        ma il cielo era per Costantino;
                        ho fatto l’impossibile per Avignone,
                        ci stavano papi, principi, cortigiane).
 

Finzione n. 3 – Frisia
 

Nelle acque del Nilo
bagnano i panni le donne d’Egitto:
un forte tremore le scuote
se compare da lungi la polvere degli eserciti.
 

Nelle acque del Tigri
sono scesi a migliaia gli schiavi.
 

Le donne d’Assiria hanno grandi le mani:
allevano animali e bambini,
ma di figli, a decine, li mandano in guerra,
con orgoglio e infinito dolore.
 

Hanno vesti di seta, le donne d’Assiria
– per questo la propaganda giudea
le vuole dissolute e discinte  –
ma sono già vecchie a trent’anni.
 

Hanno creato Babilonia la grande
le schiave d’Assiria: l’occhio di Chagall
vecchio e stanco, sulle torri geometriche
di Babilonia, carica d’astri.
 

Una ragione per quello che si dice,
una ragione per quello che si tace
(Maat, la giusta, una bilancia e una piuma).
 

Per l’ultima schiava d’Assiria
                        a forza dal fiume strappata,
                        FRISIA,
                                    nome dolcissimo.
 

(Chissà perché ti neghi in questo groviglio
di corpi, quando l’io,
saltuariamente vivo, saltuariamente innocente,
è appena la media dei molti).
 

Finzione n. 4 – Di lontano
 

Altri giungono più tardi, di soppiatto,
accostano piano le porte e non fanno rumore,
tu, invece …
solo il vento cancella le tracce che lasci.
 

Le storie che narri sono infinitamente meno vere
di quelle che accadono a ognuno.
 

Gli addii non sono il mio forte
e non tento di cambiare parole,
né c’è bisogno di spiegare le fiabe, per crescere:
 

la vita resta altrettanto brutale.
 

Ma se di lontano comparissero
le scure colline di Samotracia,
più scure e più brulle se passano i figli dei Traci
in falange e li guida Alessandro, il Macedone
………………………………………………
resta qualche preda di guerra a memoria dei vinti.
 

La tua storia non è di queste parti,

porta sul volto la solitudine dei deserti
e i solchi di mille arature.
 

Dov’è più fresca la vita,
dove muore il Clitumno o dove sgorgano
magiche e meste le acque della Dora Riparia?
 

(Ogni barbaro sa dissetare i cavalli).
 

Figura n. 1 – Che ti manda è il Vento
 

L’erica cresce, copre l’arca,
                                        fecondata da Osiride.
 

I tuoi calzari hanno raccolto,
all’altro capo delle stagioni,
umida arenaria, d’alghe e di sale:
quando sprigiona o perde i suoi profumi?
 

Ogni notte ritorno ad alloggi depredati,
affannosa ricerca delle donne e dei bimbi;
la lotta la battaglia la conquista la morte
qualunque fosse il vento che ti manda.
 

E non erano gli occhi delle sabine prima del ratto,
né di troiane prima che  la città patisse l’ira,
ma gli occhi delle contadine di oggi scese al mercato
per comprare i bei cesti d’uva che si vendono.
 

                        Nei paesi dove rigogliosa cresce l’erica,
                        Iside regna,
                        nell’ora del sole rasente sulla sabbia,
che acceca.
 

Occhi di donna,
                        a fuggire i destini degli incompiuti.
 

Figura n. 2 – Quello che narri del tuo Viaggio
 

Credo non sia un sentiero tra le magnolie
e nemmeno il concreto delle stagioni
quello che narri del tuo viaggio.
 

Mi lasci credere di frequenti battaglie
che traversano paesi d’incenso e di canzoni:
vedo solo frequenti botteghe
e il concreto andare per osterie.
 

Mi vuoi far credere di canzoni come cavalli, come fiumi,
credo che le informazioni su questo punto
siano scadenti e sempre di seconda mano:
credo che un uomo, quando nasce, faccia morire un dio.
 

Certo, i mosaici d’oro delle cattedrali
nascondono stille rosso fuoco
e quando una società va a morire
usa ammantarsi di gemme e di ballate,
ma traversano boschi e giorni
fili visibili e tracce esili
che ognuno cancella appena alticcio.
 

Come portano lenti i passi
le vecchie e i vecchi,
terre d’ottobre arate,
dune di sabbia arse,
casseruole nemmeno appese alle pareti
 

in questi autunni tristi del patriarca!
 

Figura n. 3 – Seguendo le molte Tracce
 

Ogni traccia del tuo passaggio
va letta in ogni sua parte:
è nell’istante esatto
del passo compiuto, di quello da compiere.
 

Il meno è cogliere la direzione;
non v’è mano che sfiori,
riso che rassicuri,
nel silenzio tremante dei congedi.
 

Senza incertezza portavano all’acqua
            i passi di Narciso:
            che fosse gesto d’amore
            lo si seppe per caso, troppo più tardi.
 

            È rimasto il grido che spaura,
            il gioco che increspa acqua e passi
            e cancella specchio e desiderio;
            resta la disumanità del cuore.
 

Le tracce non portano tutte al fiume:
quella decifrata della volpe sul pollaio,
quella da decifrare del lupo alla tagliola
si frantumano nell’eco delle fucilate.
 

È l’acre odore dei camini
che porta l’ubriaco a passo incerto
su sentieri di more,
altrove da ogni aperta collina.
 

Sono labili tracce di CocaCola
quelle che consegniamo ai figli;
dio non voglia le prosciughi il sole.
 

Figura n. 4 – Dal Tramonto all’Alba

 

Non sono da noi le terre degli ungulati;
qui le curve colline schiacciano
il trotto delle cavalcate.
 

I dormitori delle grida
non si stendono oltre l’alba:
resta da calzare la maschera,
gioco e festa ad ogni futuro sole.
 

Ogni volto mette un brivido
che si propaga
a questa novembrina pazza
festa di spoliazione del ginkgo,
dal tramonto all’alba.
 

Sulla piazza del borgo
spicca l’albero di cuccagna;
è iniziato il rito della saponata,
che nessuno s’impadronisca della cima.
 

Fanno già tutt’intorno un crocchio
i ragazzotti, gettano trame di alleanze,
sbeffeggiano l’avversario e intanto misurano
l’effetto primario degli stratagemmi:
 

sublimano lotte di contrade
intorno al girarrosto sul focolare.
 

Quindi giochi e amori da tramonti ad albe.
 

Via delle Sorgenti
 

Viene da un paese assai lontano,
stringe in pugno un po’ di terra,
teme una qualunque perdita,
seppure i nostri alberi sono in fiore.
 

Verso quale infanzia e quale maturità,
se la terra che porta in mano
non ha sementi che tramandino
immagini già note e sguardi e visi?
 

Avrebbe dovuto portarsi anche l’acqua
fertile del pozzo delle sue terre:
quello scavato ogni giorno
per godere l’acqua fresca dei mattini
e quello scavato ogni notte
per dissetare greggi e bimbi,
arsi dal vento sabbioso dei deserti
 

(a precedere l’alba è una fitta brinata
            che un pallido sole discioglie adagio
            e ogni goccia una luna colorata sulle foglie,
            luna di maggio grande luccicante ai tuoi piedi).
 

Il dolce nome
di una bruna assira
copre del suo rumore
la preghiera sommessa dei mattini.

 


 

Mutamenti - 1

INCANTO (disincanto)
 
Nei paesi dove principi e gnomi
vivono porta a porta
e ancora i campi di frumento
paiono di un giallo lucente,
 
e sferzato da gelida tramontana
piega appena il capo
il sempreverde ulivo,
dove ancora fugge la lepre
in preda allo spavento
 
e non a causa del nibbio cacciatore
o del falco di palude,
e i bambini crescono castelli,
appassionatamente, fino a quando
la marea li spiana.
 
O nei passi dove meno si riconoscono
gli astri del desiderio,
gli astri del pentimento,
 
presi dalla fatica, altri soldati,
sistemati i fuochi, raccontano
della battaglia, del coraggio del re,
dei compagni morti; urlano e cantano.
 
Così aumentano la complicità, mentre
i castelli tornano ad essere pietra o sabbia.
 
Un labirinto, disseminati qua e là
scarsi segni di riconoscimento,
è di facile ideazione, più che
gli intricati sistemi di credibilità
che ognuno mette in cantiere, più
delle vie maestre che conducono alle torri
di guardia, dove cavalli ammaestrati
portano cavalieri alticci e addormentati.
 
Hanno moschetti e spade, i cavalieri,
quelli stessi di ieri sulla sabbia;
così l'amore accresce il turbamento,
quanto riprende vita dal tradimento:
 
quanto quel birbone di Ulisse
ogni cosa distrae e conduce altrove
da Itaca montuosa, da Penelope fedele.
 
 
IL PIANTO DI DEIANIRA (inganno/disinganno)
 
Coperto d'una sciarpa e d'un berretto
ridacchia il vecchio fingendo d'ascoltare;
troppo in alto vanno pensieri e suoni
dentro un inverno che ghiaccia le grondaie:
 
s'addossano alle pietre luccicanti
lucertoloni immoti, come erbacce scure.
_ _ _
 
Così accade che poeti vagabondi,
attoniti ai movimenti delle proprie ombre,
s'incontrino attorno a ben sistemati fuochi,
nuovamente incatenati al canto delle loro voci,
 
 
così il veleno dell'Idra di Lerna
compie l'involontaria incommensurabile vendetta,
tra le piantaggini e gli asfodeli,
dove fischia il chiurlo,
quando è un paradosso essere vivi.
_ _ _
 
Davanti agli occhi un'aria da prigione, fetida,
dietro le spalle ragazzotti che sbertucciano
e, in un angolo stretto e buio quanto l'angelo della notte,
vecchie che hanno lingue avide e maligne,
appoggiate a muri e scalini d'una volta.
_ _ _

Vengono da ogni parte, portano asce e catene,
portano un trono di pietra per il re/sacerdote;
uno stuolo di vergini in vesti di seta accompagna
la più bella, vestita di lino, per il sacrificio:
 
giungono dove gli sguardi che l'incatenarono,
ora la deturpano.
 
                         I coccodrilli neri avranno meno fame.

L'INFEDELTA'
 
Noi non sappiamo dire se l'anno è cominciato bene
o se ci aspetta la bufera,
se un forte sole spezzerà le nubi
o soprattutto il caso;
non sappiamo se ancora lo sposo sarà raggiante
e se noi due potremo riprendere
i fili persi della discussione.
 
Eppure, uomini obbligati alla vita,
non così alla felicità, sempre siamo stati
fedeli, perfino al sogno
(quando il tuo corpo al mio s'avvicinava
sull'erba umida, a dare e raccogliere umori).
 
(Memoria di tutte le memorie, Pound, la scoperta
infinita, il miele finissimo e l'arsenico:
ad ogni incrocio uno strappo, e via per altra strada).
 
Amica, così non ti sarò, come credi
o come vuoi che sia;
e le spose infelici attendano fiduciose.
 
Giù nella piena dello Scamandro,
dalla torre, Andromaca segue la battaglia,
stringe a sé il piccolo dio, che chiede
quali siano le armi di Achille e quali del Telamonio;
 
risponde di loro due bambini, di Ettore,
il migliore nei giochi, il più veloce nella corsa,
e lo sguardo scruta nella mischia più a lungo,
velato da neri presagi.
 
I monaci consumano da soli vitalità
e innocenze, portano lente calibrate insanità,
a contatto dell'estasi e del sogno:
bruciano corpi e anima ad un passo dall'infinito.
 
Altri hanno colorate sciarpe
e cappelli a larghe tese
e una fottuta paura della catastrofe improvvisa,
come del raffreddore:
tracciano continui, improbabili percorsi.


 

Mutamenti - 2

PERCORSI DELLA MEMORIA
 
Seguirono le tracce troppo a lungo,
verso il fiume, fino alla sua foce,
verso spirali di fuoco perse in cenere,
 
lungo i percorsi delle sentinelle
(che un cecchino s'industria di far fuori
e la storia cecchina le finisce),
 
dove cavalli ammaestrati e muli riottosi
perdono qualche ferro e chiodi consumati.
 
 
Le tracce sul palmo della mano,
che una zingara bambina già conosce
o sulla tela, che un pittore rivisita
a memoria col pennello a mezz'aria,
 
sul marmo, sulla creta, sulla sabbia,
sul tuo viso disteso o stralunato,
sul negativo, sul pentagramma,
(punto di congiunzione con gli dei
questa vita che lascia tracce)
 
oppure giornata che l'ultima traccia
svanisce via: giornata di vento e strame,
giornata di strame e vento.
 
 
E le tracce possono farsi visi
(il tuo, il mio viso abbuiato)
o fiumi, maschere e vertigini,
luci alte nel giorno o nella notte
rumori insostenibili o silenzi,
amori pieni o mali o spasimi.
 
 
Ecco, posso dirti di più,
del tempo che sigilla le visioni,
dell'edera che orna satiri e sileni,
ma prediligo questo vuoto d'anima
che precede ogni nuovo incantamento
e le tracce lasciate da un fanciullo
prima che folletti dispettosi le cancellino.
 
 
DI VELOCITA' E DI VENTO
 
La mano protesa a indovinare
il cambio di direzione,
 
non l'occhio perso nell'infinito
degli specchi o nel panico
definito delle paure;
 
 
nell'orto vangato con cura
un frutto direttamente calato dall'albero
 
un sorso d'acqua gelata di fonte,
qualche lavoretto ogni giorno:
 
questo ai ragazzi di velocità e di vento
rimanga a ricordo dei padri,
 
 
nel punto che l'Aurora piange
(alla vista del sangue di Astianatte)
e di rugiada copre foglie ed erbe
 
e comanda che i fiori si facciano
più del fuoco rossi papaveri.
 
 
MEMORIA E OBLIO (errori e altre cose)
 
La compagnia dei comici,
tra lazzi e burle,
sta lasciando la città
sul treno della notte:
 
ognuno dimentica,
ora che lo spettacolo è finito.
 
Ermes invero valeva un tradimento
all'eroe (o erano lingue malevoli,
invidiose di Ulisse,
a mettere in giro simili fandonie?);
 
e poi quell'Ermes, con tutti quei figli in giro,
gestendo le messaggerie degli Dei
 
(anche se è bene, questi Dei, tenerli
in una qualche migliore considerazione).
 
Di certo so che poco vi interessa
d'Orfeo, d'Apollo, di Mursia o d'Euridice
 
ed anch'io, ora, ho altro per la testa.
 
La compagnia dei comici
talvolta sbaglia treno,
talvolta sbaglia città.

 

 

Mutamenti - 3

CERTEZZA (o dubbio)
 
Potenza nei muscoli delle gambe:
la strada da percorrere non è infinita;
 
dal monte, in basso, il vento,
dal monte, in alto, la neve:
 
che spazza il sudiciume, il vento,
che splende e purifica, la neve;
 
non aprire le finestre,
il cielo ti sfigura.
 
Cerbero, il cagnetto, il cane di casa,
il demonietto, il demone d'Averno, il mostro;
 
Cerbero, per nessun dubbio.
 
Di quello che ha significato
si vogliono impossessare,
perchè tutto il resto muore;
 
il coro degli invidiosi è grande,
non dartene eccessiva cura,
 
getta a terra una manciata di fiammiferi
e leggine i disegni:
 
quindi vola alto, amico,
i grandi spazi ti appartengono.
 
 
IL VAGABONDAGGIO
 
Ho preso a nolo un cammello ad Aleppo,
per seguirti lungo quell'antica carovaniera:
nulla potevo scordare delle tue promesse.
 
Di un liquore acidulo e potente
a Damasco mi son preso una sbronza solenne,
per i tuoi ripetuti dinieghi,
di quelle che ti lasciano sotto i tavolacci,
e posso dirti che non temo confronti
e reggo i vini e le misture più forti.
 
Quattro forzuti mi hanno gettato di fuori,
senza troppe attenzioni, da una bettola
sudicia e scura, a Tiro, perchè imprecavo
al tuo nome e disturbavo la corsa dei carri,
anche lì, come prima a Palmyra.
 
Ho tentato, come il dio Pan, le trasformazioni,
che mi riescono, ma ti danno o furore o spavento:
così, agile nella corsa, ho tentato di nascondermi
nei cespugli, di arrampicarmi sulle rocce.
 
A Beirut mi sono lasciato fare per tutti i casini
del porto, facendole piangere dal ridere
e ridere dal piangere.
 
Tranquilli, a Beirut non ci sono mai stato.

Mutamenti - 4

LE GIOSTRE (divagazioni)
 
Distratto su quell'unica vocale
aperta, sonora, che possa aver fondato
un nome, o un suono , primariamente:
NO, NO, NOTTE;
 
mi permetterò di divagare anch'io,
su quell'antica abitudine di rapire bambine
(filiazione diretta dell'olimpio Zeus),
spose all'altare, pegno degli dèi,
 
risalendo, di vendetta in vendetta,
un po' per convinzione, un po' costretto,
fino a Urano.
 
Slitta ogni buio alternandosi alla luce,
ogni notte al giorno pieno,
ogni tramonto a un sole scoppiato in cielo:
 
non c'è colore che valga questa pace,
anche se può trattarsi di nero pece o,
semplicemente, di una notturna buia stanza.
 
Ognuno ha un bel daffare tra giostre,
bordelli, ninfe e fauni, sorelle,
madri e bendisposte amiche, da lato a lato.
 
Da ogni più cresciuto faggio avrò desolazioni
e consonanze, ma attenderò che autunno
tolga foglie e inverno copra i rami.
 
Oggi gli altari portano vino e pane,
mensa, gesto, rito e consolazione,
ma il buio è anche più buio:
nulla è cambiato dai tempi della clava.
 
Al poeta sia concesso il divagare:
dèi scialbi, da poco, inventerà,
implumi, teneri e felici.
 
 
CURA/INCURIA (gli infiniti sviluppi)
(ad Andrea Zanzotto)
 
Guarda, se non temi, gli stagni d'acque
basse, dove il girino fionda in guizzi
lesti la coda, o le pozzanghere ove,
in caccia di moschini, la libellula
elicottera una nevrosi azzurra.
 
Prendi colori e tavolozza in mano
e sulla tela fissa profili e segni;
come il ragno beffa il critico guardone,
nascondendo i segreti della caccia
 
con mosse astute e un turbinio di forme
e ogni volta cambia la scrittura.
 
Quante, da poche minime parole,
storie, Andrea, possono trovare inizio,
come altrettanti Ulissidi dall'antro
polifemico: di fughe, di beffe
astute, di battaglie, di vittorie,
di morte orribile, in qualunque giorno,
 
non di giovedì: giorno di vita grama,
di voli bassi, di corsa per il pane.
 
Cura i particolari, le esclusioni,
fa passare per idiozia o paura
un piccolo o grande trasalimento,
il corpo a corpo che struttura e sceglie;
 
tronco di quercia, no albero di fico!




Antichità invisibile*

Muse

Sguardo incarnato e increata voce,
vagante dea nella tua stessa mente
eccoci congiunti allo stormir del giorno
nell’ora alta e l’alitar dei cieli.
Il mare e i volti come un grande
incendio.

L’ora d’ogni ora si compie nei viventi
e fresca giunge l’anca del tuo incedere.

In me e in te è viva l’eco d’altre Ore
sul dirupato ciglio della sera.

 

Se svuoto la mente ed il cuore

Se svuoto la mente e il cuore
rimango senza immagini né voce.

– Che resta di me?

Indugia una pianura edenica.
Chiara, distesa, senza tempo.

Dove tutti i contrasti s’involano.
Non più stridente danno.

Vince Amore, il più antico degli dèi.
Il più fidente.

 

Non è il tempo che divora ciò

Non è il tempo che divora ciò
che ha forma nel mondo,
come pensavano i saggi dell’antichità.
Il tempo è la dea Abbondanza
che porge ai viventi tutto ciò
che chiamiamo cose e realtà
del mondo.
Ed è la coscienza che le accoglie
per offrirle in dono alla mente.
Che le depone sugli altari della
dea Mnemosine,
                        che così le eterna.
 

 

 

Antichità per via*

Via delle estinzioni
(in via d'estinzione)

Alcmane di Sardi
ascoltava pernici
e il canto traduceva in parole;

noi, ora, possiamo appena
indovinare quel canto.


Via del'illusione
(via Stesicoro d'Imera)

Quel poeta che cantava gli eroi,
di ritorno da Troia, inneggiando alla pace,

e poi seppe di Clitemnestra e di Oreste:
s’illudeva a parlare di pace.


Antichità per via - 2*


Via dei poeti
(Via Euripide, come visto da Diceopoli
ne
gli Acarnesi di Aristofane)


Questa non è una via come tutte,
guardate in alto, non cercate in basso,
stanno tutti lassù, chi più e chi meno,
ad acchiappare versi;
               e fate piano, non gridate
che se si svegliano di soprassalto, e male,

cadono giù di testa, rovinosamente.
 
*Cfr. A. Cabianca, Le vie della città invisibile, Editoria Universitaria, Venezia 1995.

 


Vicolo dell' odi et amo (Vicolo Catullo)


Arrivano tutti lì,
i poeti dell’erba catulla,
delle resipiscenze d’amore,
alla pazzia d’Amleto,
al gioco del to be,
al sangue, al sangue.

Arrivano tutti dove,
nel gioco con l’ombra,
negli inganni degli scacchi,
nello scambio dei baiocchi,
nella lettura dei tarocchi,
nelle tante grafologie, tutte
uguali, nelle mille tautologie,
tutte differenti e incomprensibili:

e intanto l’usignolo stupidamente

ha smesso di cantare.


 

Via dell'insidia (e di Dioniso)

Licambo, attento alle tue figlie,
Archiloco le insidia, sfrenato nella danza,

convinciti, caccialo lontano, è più pazzo,
ebbro e agitato che poeta.



Via del diavoletto nero

Nella mia mente c’è un diavoletto nero:

ha mani delicate, se accarezza,
bocca che inchioda e non ti scioglie,
cosce festanti, seni piccolissimi,

e un fruscio d’ali gemelle
prima di sparire nel fuoco
dove mi conduce.

 

 


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