Medea Medea
Medea
(circe)
Eri proprio fuori
strada, Ulisse,
a credere che
potesse
darti ascolto
e impegnare
sentimento e
cuore;
il suo mondo
era il
sortilegio,
la deformazione.
(Nel gioco a guardie e
ladri della
vita,
più
spesso si
è
ladri e la guardia si trova
circondata
senza vie di
scampo).
Circe compie il suo
rito,
aiutata
dall’erba
dell’oblio,
operando ogni
incantamento
(chissà
se erano
allucinazioni),
ma, quando se ne parte
Ulisse,
gracida
il suo corpo
un vento
avaro sulla
marina,
stese le
braccia come
d’albatro
ferito.
Miracolato dal rogo,
mirandolino,
CABALAdipendente
e
picchiatello
il
Pico/picchio, che
picchietta,
quel gran
testone, in
odore di
eresia,
con l’erba
moli, cura
delle trasformazioni
e del
cimurro, e la
pietra filosofale,
cura
dell’enfasi e della
stupidità.
I semi di melagrana
sono le ombre di
Persefone dentro
l’Ade.
Medea
(fedra)
Anche oggi puoi
credere all’innocenza,
pensare
normalmente ai
figli
o al marito:
occasionalmente
è tutto
così normale!
“Portatemi il re,
portatemi il
vento,
portatemi la
danzatrice!
Fate avvicinare
Ippolito; quale
turbamento
questi
sguardi appagati!”
Se svela
i desideri
della
matrigna, chi
le può
evitare la
vendetta?
“Tenete lontano il re,
fate scempio
di Ippolito,
legatelo ai
suoi
cavalli,
ai miei
voleri ha creduto
di
sottrarsi,
non è
giusto che
viva.”
Le Arpie rimangano
dove gli accadimenti
si ignorano e
le vendette
giungono
in
estesissimi ritardi (a
colpo
morto!):
nessuno pensi che
Medea sia (sfrenata,
nuda, invasata) l’ultima
delle
Menadi.
Medea
(della complicità)
Un complice era
essenziale ai
suoi progetti,
fosse pur
anche amore di
rapina.
Dalla parte
dell’animo
più
oscura
ogni legge era violata,
ma dalla
parte dell’animo
più
chiara ogni legge
di
necessità
incontrava
il suo confine.
Come se non avesse
abbandonato
il padre
e tradito la
sua gente,
come
se l’andare estranea
tra altra
gente avesse
aggiunto
colpa a colpa,
torto a
torto, come se
ogni idea
esacerbasse,
ancor prima
d’esser
chiara, la
mente;
ed altri infinitamente
ridondanti
come se.
Per
dignità o
paura, per
odio e per passione,
per colpa ed
innocenza di
certo
le nuvole
erano
complici, e
preparavano
terribili
uragani; di
certo si
disponeva
il vento
a spazzare la campagna
e radere
le deboli
capanne (suolo contro
suolo);
di certo il gelo
negava ai rari uccelli un
solo
approdo.
E come di brusio, non di
parole,
come di terribile
segreto: anche se tu le
somigliassi.
Medea
(medea)
Per quale rebus
servisse ammazzare
il fratello,
prediligere
l’eroe
d’oltremare
che minava
il regno del
padre, per
quale
insospettato
segreto
servisse tradire
la stirpe
e cedere
agli occhi
incantanti di
un rozzo
straniero;
per quale strada
aggiungere abiezione
e paura,
indicare a
Giasone i
segreti
del tempio e del vello,
per quale
efferata
crudezza fare
a pezzi il fratello
e disperderne
il corpo,
per ritardare
la corsa del padre,
disperato per
rabbia e
dolore,
a inseguire i fuggiaschi;
per che irragionevole
scelta convincesse
le figlie
di Pelia a
credere al
ringiovanimento
del padre
per bollitura
sul fuoco
(è
pur vero che aveva
tentato,
Pelia, di
togliere Giasone
di torno,
spedendolo in
Colchide),
per
che strana bugia
intendesse dimenticare
Giasone
quei doni
(quanto
crudeli, e
inimmaginabili!),
ritenerli
cosa da poco,
e credere
che avrebbe
ceduto,
lei, Medea,
così
straordinaria
guerriera,
così
strenua,
così
straniera ai suoi occhi!
Per quale scandalosa
legge dovesse
rinunciare
a quell’uomo
per il quale
aggiungeva
delitto a delitto
e per la
città
parata
a festa, lei a perpetuare
un delirio di
distruzione, con
ogni dono.
(Se aggiungeva delitto
a delitto,
nessun volere,
seppure
divino, poteva
negarle
il suo uomo).
Per sua mano trafitti,
stupefatti,
ma ignari,
cadevano i figli,
piangendo di
poco spavento.
Né paga, né
vinta.
Per una stessa mano...
Via
delle maschere
Finzione n. 1 –
Figura
Finzione n. 2 –
Canzone
Finzione n. 3 –
Frisia
Finzione n. 4 – Di
lontano
Figura n. 1 – Che
ti manda è il vento
Figura n. 2 –
Quello che narri del tuo viaggio
Figura n. 3 –
Seguendo le molte tracce
Figura n. 4 – Dal
tramonto all’alba
Via delle sorgenti
Via delle
Maschere
Cerca negli
specchi
le sue forme
quel
pagliaccio,
ormai vecchio,
in mano
l’ultima
maschera:
non gli
riesce di
sovrapporla al viso.
?Verso che
cosa e
dove,
nel gioco
delle
sostituzioni,
verso che
successivi strati d’alba,
finché
infaticabile
la vita?
Meglio
sia un
arlecchino a condurti
per le
strade di
Morgantina,
sgomberata
da
Augusto:
una congiura
a ogni
vicolo.
Come
una donna,
folle della
sua
voce
……………….
d’oro,
funeraria,
se fosse
Priamo.
Finzione n.
1 –
Figura
Mentre fugge
il
cinghiale
e la muta,
aizzata
e feroce,
intende il
suono
acre del corno,
io che non ho
una guerra
da
raccontare
guardo
chiatte
bianche risalire la corrente
spinte da
uomini
forti e mesti,
che bevono
birra e
masticano tabacco.
Passato
è maggio,
i coleotteri
hanno
già preso il volo,
mentre in
Aulide,
men che appassionatamente,
di ombra in
ombra,
Ifigenia, recede,
e nel suo
viaggio
(obbligato) al cielo
fa qualche
tappa a
caso.
Non
può essere
quaggiù il futuro del sole!
In quieto
volgere
d’alberi e di mani,
figli di
inganni e
desideri,
non solo i
grandi
fiumi
scendono a
placarsi
qui,
ove la
primavera
non arriva,
davanti a un
uomo
già vecchio,
che intona a
fil di
voce nenie ossessionate.
Gli anni non
smettono mai di passare
e le canzoni
hanno
le stesse rime di sempre,
dentro le
satrapie
del cuore.
Sulla mia
strada,
di sera, lungo viali illuminati appena,
non
s’incontra che
qualche lucciola,
intrigante
più o
meno,
in figura
d’alberi
e di lune.
Finzione n.
2 –
Canzone
Nessuno che
ti dica
dove tu possa esistere,
se in verde
scorrere di prati
o in rosso
fuoco di
papaveri, o se dall’alto
dei suoi
millenni
ti scuota dentro il mare,
ora che la
calma
lascia il passo a nuvole gonfie
(non sai se
d’acqua
o grandine
o siano
nuvole
gonfie di qualche uragano),
mentre il
bicchiere
si svuota, come si svuota il tino.
L’occhio
accarezza
il bicchiere,
immagina il
volatile dell’affanno,
inchioda al
fondo
della bottiglia
il diafano
della
pena e della noia,
davanti a un
mazzo
di carte,
prima di
giocarsi
una briscola.
L’uomo che
gioca e
ride la vita
Rimescola
con
infinita gioia il falso e il vero:
ogni
trasceso
segreto o ossessivo rimorso
diventa
bianco o
rosso a seconda del vino.
Ora il luogo
che
cerco è una canzone
scucita e
ricomposta dai millenni:
l’inutile
sublime
delle cicale.
(Ho fatto il
possibile per Massenzio
ma il cielo era per
Costantino;
ho fatto l’impossibile
per Avignone,
ci stavano papi,
principi, cortigiane).
Finzione n.
3 –
Frisia
Nelle acque
del
Nilo
bagnano i
panni le
donne d’Egitto:
un forte
tremore le
scuote
se compare
da lungi
la polvere degli eserciti.
Nelle acque
del
Tigri
sono scesi a
migliaia gli schiavi.
Le donne
d’Assiria
hanno grandi le mani:
allevano
animali e
bambini,
ma di figli,
a
decine, li mandano in guerra,
con orgoglio
e
infinito dolore.
Hanno vesti
di
seta, le donne d’Assiria
– per questo
la
propaganda giudea
le vuole
dissolute
e discinte –
ma sono
già vecchie
a trent’anni.
Hanno creato
Babilonia la grande
le schiave
d’Assiria: l’occhio di Chagall
vecchio e
stanco,
sulle torri geometriche
di
Babilonia,
carica d’astri.
Una ragione
per
quello che si dice,
una ragione
per
quello che si tace
(Maat, la
giusta,
una bilancia e una piuma).
Per l’ultima
schiava d’Assiria
a forza dal fiume
strappata,
FRISIA,
nome dolcissimo.
(Chissà
perché ti
neghi in questo groviglio
di corpi,
quando
l’io,
saltuariamente
vivo, saltuariamente innocente,
è
appena la media
dei molti).
Finzione n.
4 – Di
lontano
Altri
giungono più
tardi, di soppiatto,
accostano
piano le
porte e non fanno rumore,
tu, invece …
solo il
vento
cancella le tracce che lasci.
Le storie
che narri
sono infinitamente meno vere
di quelle
che
accadono a ognuno.
Gli addii
non sono
il mio forte
e non tento
di
cambiare parole,
né
c’è bisogno di
spiegare le fiabe, per crescere:
la vita
resta
altrettanto brutale.
Ma se di
lontano
comparissero
le scure
colline di
Samotracia,
più
scure e più
brulle se passano i figli dei Traci
in falange e
li
guida Alessandro, il Macedone
………………………………………………
resta
qualche preda
di guerra a memoria dei vinti.
La tua
storia non è
di queste parti,
porta
sul volto la
solitudine dei deserti
e i solchi
di mille
arature.
Dov’è
più fresca la
vita,
dove muore
il
Clitumno o dove sgorgano
magiche e
meste le
acque della Dora Riparia?
(Ogni
barbaro sa
dissetare i cavalli).
Figura n. 1
– Che
ti manda è il Vento
L’erica
cresce,
copre l’arca,
fecondata
da Osiride.
I tuoi
calzari
hanno raccolto,
all’altro
capo
delle stagioni,
umida
arenaria,
d’alghe e di sale:
quando
sprigiona o
perde i suoi profumi?
Ogni notte
ritorno
ad alloggi depredati,
affannosa
ricerca
delle donne e dei bimbi;
la lotta la
battaglia la conquista la morte
qualunque
fosse il
vento che ti manda.
E non erano
gli
occhi delle sabine prima del ratto,
né di
troiane prima
che la città patisse l’ira,
ma gli occhi
delle
contadine di oggi scese al mercato
per comprare
i bei
cesti d’uva che si vendono.
Nei paesi dove
rigogliosa cresce l’erica,
Iside regna,
nell’ora del sole
rasente sulla sabbia,
che acceca.
Occhi di
donna,
a fuggire i destini
degli incompiuti.
Figura n. 2
–
Quello che narri del tuo Viaggio
Credo non
sia un
sentiero tra le magnolie
e nemmeno il
concreto delle stagioni
quello che
narri
del tuo viaggio.
Mi lasci
credere di
frequenti battaglie
che
traversano
paesi d’incenso e di canzoni:
vedo solo
frequenti
botteghe
e il
concreto
andare per osterie.
Mi vuoi far
credere
di canzoni come cavalli, come fiumi,
credo che le
informazioni su questo punto
siano
scadenti e
sempre di seconda mano:
credo che un
uomo,
quando nasce, faccia morire un dio.
Certo, i
mosaici
d’oro delle cattedrali
nascondono
stille
rosso fuoco
e quando una
società va a morire
usa
ammantarsi di
gemme e di ballate,
ma
traversano boschi
e giorni
fili
visibili e
tracce esili
che ognuno
cancella
appena alticcio.
Come portano
lenti
i passi
le vecchie e
i
vecchi,
terre
d’ottobre arate,
dune di
sabbia
arse,
casseruole
nemmeno
appese alle pareti
in questi
autunni
tristi del patriarca!
Figura n. 3
–
Seguendo le molte Tracce
Ogni traccia
del
tuo passaggio
va letta in
ogni
sua parte:
è
nell’istante
esatto
del passo
compiuto,
di quello da compiere.
Il meno
è cogliere
la direzione;
non
v’è mano che
sfiori,
riso che
rassicuri,
nel silenzio
tremante
dei congedi.
Senza
incertezza
portavano all’acqua
i passi di Narciso:
che fosse gesto d’amore
lo si seppe per caso, troppo più
tardi.
È rimasto il grido che spaura,
il gioco che increspa acqua e passi
e cancella specchio e desiderio;
resta la disumanità del cuore.
Le tracce
non
portano tutte al fiume:
quella
decifrata
della volpe sul pollaio,
quella da
decifrare
del lupo alla tagliola
si
frantumano
nell’eco delle fucilate.
È
l’acre odore dei
camini
che porta
l’ubriaco
a passo incerto
su sentieri
di
more,
altrove da
ogni
aperta collina.
Sono labili
tracce
di CocaCola
quelle che
consegniamo ai figli;
dio non
voglia le
prosciughi il sole.
Figura
n. 4 – Dal Tramonto all’Alba
Non sono da
noi le
terre degli ungulati;
qui le curve
colline schiacciano
il trotto
delle
cavalcate.
I dormitori
delle
grida
non si
stendono
oltre l’alba:
resta da
calzare la
maschera,
gioco e
festa ad
ogni futuro sole.
Ogni volto
mette un
brivido
che si
propaga
a questa
novembrina
pazza
festa di
spoliazione del ginkgo,
dal tramonto
all’alba.
Sulla piazza
del
borgo
spicca
l’albero di
cuccagna;
è
iniziato il rito
della saponata,
che nessuno
s’impadronisca della cima.
Fanno
già
tutt’intorno un crocchio
i
ragazzotti,
gettano trame di alleanze,
sbeffeggiano
l’avversario e intanto misurano
l’effetto
primario
degli stratagemmi:
sublimano
lotte di
contrade
intorno al
girarrosto sul focolare.
Quindi
giochi e
amori da tramonti ad albe.
Via delle
Sorgenti
Viene da un
paese
assai lontano,
stringe in
pugno un
po’ di terra,
teme una
qualunque
perdita,
seppure i
nostri
alberi sono in fiore.
Verso quale
infanzia e quale maturità,
se la terra
che
porta in mano
non ha
sementi che
tramandino
immagini
già note e
sguardi e visi?
Avrebbe
dovuto
portarsi anche l’acqua
fertile del
pozzo
delle sue terre:
quello
scavato ogni
giorno
per godere
l’acqua
fresca dei mattini
e quello
scavato
ogni notte
per
dissetare
greggi e bimbi,
arsi dal
vento
sabbioso dei deserti
(a precedere
l’alba
è una fitta brinata
che un pallido sole discioglie adagio
e ogni goccia una luna colorata
sulle foglie,
luna di maggio grande luccicante ai
tuoi piedi).
Il dolce nome
di una bruna
assira
copre del
suo
rumore
la preghiera
sommessa dei mattini.
INCANTO
(disincanto)
Nei
paesi dove principi e gnomi
vivono
porta a porta
e
ancora i campi di frumento
paiono
di un giallo lucente,
e
sferzato da gelida tramontana
piega
appena il capo
il
sempreverde ulivo,
dove
ancora fugge la lepre
in
preda allo spavento
e
non a causa del nibbio cacciatore
o
del falco di palude,
e
i bambini crescono castelli,
appassionatamente,
fino a quando
la
marea li spiana.
O
nei passi dove meno si riconoscono
gli
astri del desiderio,
gli
astri del pentimento,
presi
dalla fatica, altri soldati,
sistemati
i fuochi, raccontano
della
battaglia, del coraggio del re,
dei
compagni morti; urlano e cantano.
Così
aumentano la complicità, mentre
i
castelli tornano ad essere pietra o sabbia.
Un
labirinto, disseminati qua e là
scarsi
segni di riconoscimento,
è
di facile ideazione, più che
gli
intricati sistemi di credibilità
che
ognuno mette in cantiere, più
delle
vie maestre che conducono alle torri
di
guardia, dove cavalli ammaestrati
portano
cavalieri alticci e addormentati.
Hanno
moschetti e spade, i cavalieri,
quelli
stessi di ieri sulla sabbia;
così
l'amore accresce il turbamento,
quanto
riprende vita dal tradimento:
quanto
quel birbone di Ulisse
ogni
cosa distrae e conduce altrove
da
Itaca montuosa, da Penelope fedele.
IL
PIANTO DI DEIANIRA (inganno/disinganno)
Coperto
d'una sciarpa e d'un berretto
ridacchia
il vecchio fingendo d'ascoltare;
troppo
in alto vanno pensieri e suoni
dentro
un inverno che ghiaccia le grondaie:
s'addossano
alle pietre luccicanti
lucertoloni
immoti, come erbacce scure.
_
_ _
Così
accade che poeti vagabondi,
attoniti
ai movimenti delle proprie ombre,
s'incontrino
attorno a ben sistemati fuochi,
nuovamente
incatenati al canto delle loro voci,
così
il veleno dell'Idra di Lerna
compie
l'involontaria incommensurabile vendetta,
tra
le piantaggini e gli asfodeli,
dove
fischia il chiurlo,
quando
è un paradosso essere vivi.
_
_ _
Davanti
agli occhi un'aria da prigione, fetida,
dietro
le spalle ragazzotti che sbertucciano
e,
in un angolo stretto e buio quanto l'angelo della notte,
vecchie
che hanno lingue avide e maligne,
appoggiate
a muri e scalini d'una volta.
_
_ _
Vengono
da ogni parte, portano asce e catene,
portano
un trono di pietra per il re/sacerdote;
uno
stuolo di vergini in vesti di seta accompagna
la
più bella, vestita di lino, per il sacrificio:
giungono
dove gli sguardi che l'incatenarono,
ora
la deturpano.
I coccodrilli neri
avranno meno fame.
L'INFEDELTA'
Noi
non sappiamo dire se l'anno è cominciato bene
o
se ci aspetta la bufera,
se
un forte sole spezzerà le nubi
o
soprattutto il caso;
non
sappiamo se ancora lo sposo sarà raggiante
e
se noi due potremo riprendere
i
fili persi della discussione.
Eppure,
uomini obbligati alla vita,
non
così alla felicità, sempre siamo stati
fedeli,
perfino al sogno
(quando
il tuo corpo al mio s'avvicinava
sull'erba
umida, a dare e raccogliere umori).
(Memoria
di tutte le memorie, Pound, la scoperta
infinita,
il miele finissimo e l'arsenico:
ad
ogni incrocio uno strappo, e via per altra strada).
Amica,
così non ti sarò, come credi
o
come vuoi che sia;
e
le spose infelici attendano fiduciose.
Giù
nella piena dello Scamandro,
dalla
torre, Andromaca segue la battaglia,
stringe
a sé il piccolo dio, che chiede
quali
siano le armi di Achille e quali del Telamonio;
risponde
di loro due bambini, di Ettore,
il
migliore nei giochi, il più veloce nella corsa,
e
lo sguardo scruta nella mischia più a lungo,
velato
da neri presagi.
I
monaci consumano da soli vitalità
e
innocenze, portano lente calibrate insanità,
a
contatto dell'estasi e del sogno:
bruciano
corpi e anima ad un passo dall'infinito.
Altri
hanno colorate sciarpe
e
cappelli a larghe tese
e
una fottuta paura della catastrofe improvvisa,
come
del raffreddore:
tracciano
continui, improbabili percorsi.
PERCORSI
DELLA
MEMORIA
Seguirono
le tracce
troppo a lungo,
verso il
fiume,
fino alla sua foce,
verso
spirali di
fuoco perse in cenere,
lungo i
percorsi
delle sentinelle
(che un
cecchino
s'industria di far fuori
e la
storia
cecchina le finisce),
dove
cavalli
ammaestrati e muli riottosi
perdono
qualche
ferro e chiodi consumati.
Le
tracce sul palmo
della mano,
che una
zingara
bambina già conosce
o sulla
tela, che
un pittore rivisita
a
memoria col
pennello a mezz'aria,
sul
marmo, sulla
creta, sulla sabbia,
sul tuo
viso
disteso o stralunato,
sul
negativo, sul
pentagramma,
(punto
di
congiunzione con gli dei
questa
vita che
lascia tracce)
oppure
giornata che
l'ultima traccia
svanisce
via:
giornata di vento e strame,
giornata
di strame
e vento.
E le
tracce possono
farsi visi
(il tuo,
il mio
viso abbuiato)
o fiumi,
maschere e
vertigini,
luci
alte nel
giorno o nella notte
rumori
insostenibili o silenzi,
amori
pieni o mali
o spasimi.
Ecco,
posso dirti
di più,
del
tempo che
sigilla le visioni,
dell'edera
che orna
satiri e sileni,
ma
prediligo questo
vuoto d'anima
che
precede ogni
nuovo incantamento
e le
tracce
lasciate da un fanciullo
prima
che folletti
dispettosi le cancellino.
DI
VELOCITA' E DI
VENTO
La mano
protesa a
indovinare
il
cambio di
direzione,
non
l'occhio perso
nell'infinito
degli
specchi o nel
panico
definito
delle
paure;
nell'orto
vangato
con cura
un
frutto
direttamente calato dall'albero
un sorso
d'acqua
gelata di fonte,
qualche
lavoretto
ogni giorno:
questo
ai ragazzi
di velocità e di vento
rimanga
a ricordo
dei padri,
nel
punto che
l'Aurora piange
(alla
vista del
sangue di Astianatte)
e di
rugiada copre
foglie ed erbe
e
comanda che i
fiori si facciano
più
del fuoco rossi
papaveri.
MEMORIA
E OBLIO
(errori e altre cose)
La
compagnia dei
comici,
tra
lazzi e burle,
sta
lasciando la
città
sul
treno della
notte:
ognuno
dimentica,
ora che
lo
spettacolo è finito.
Ermes
invero valeva
un tradimento
all'eroe
(o erano
lingue malevoli,
invidiose
di
Ulisse,
a
mettere in giro
simili fandonie?);
e poi
quell'Ermes,
con tutti quei figli in giro,
gestendo
le
messaggerie degli Dei
(anche
se è bene,
questi Dei, tenerli
in una
qualche
migliore considerazione).
Di certo
so che
poco vi interessa
d'Orfeo,
d'Apollo,
di Mursia o d'Euridice
ed
anch'io, ora, ho
altro per la testa.
La
compagnia dei
comici
talvolta
sbaglia
treno,
talvolta sbaglia
città.
CERTEZZA
(o dubbio)
Potenza
nei muscoli
delle gambe:
la
strada da
percorrere non è infinita;
dal
monte, in
basso, il vento,
dal
monte, in alto,
la neve:
che
spazza il
sudiciume, il vento,
che
splende e
purifica, la neve;
non
aprire le finestre,
il cielo
ti
sfigura.
Cerbero,
il
cagnetto, il cane di casa,
il
demonietto, il
demone d'Averno, il mostro;
Cerbero,
per nessun
dubbio.
Di
quello che ha
significato
si
vogliono
impossessare,
perchè
tutto il
resto muore;
il coro
degli
invidiosi è grande,
non
dartene
eccessiva cura,
getta a
terra una
manciata di fiammiferi
e
leggine i
disegni:
quindi
vola alto,
amico,
i grandi
spazi ti
appartengono.
IL
VAGABONDAGGIO
Ho preso
a nolo un
cammello ad Aleppo,
per
seguirti lungo
quell'antica carovaniera:
nulla
potevo
scordare delle tue promesse.
Di un
liquore
acidulo e potente
a
Damasco mi son
preso una sbronza solenne,
per i
tuoi ripetuti
dinieghi,
di
quelle che ti
lasciano sotto i tavolacci,
e posso
dirti che
non temo confronti
e reggo
i vini e le
misture più forti.
Quattro
forzuti mi
hanno gettato di fuori,
senza
troppe
attenzioni, da una bettola
sudicia
e scura, a
Tiro, perchè imprecavo
al tuo
nome e
disturbavo la corsa dei carri,
anche
lì, come
prima a Palmyra.
Ho
tentato, come il
dio Pan, le trasformazioni,
che mi
riescono, ma
ti danno o furore o spavento:
così,
agile nella
corsa, ho tentato di nascondermi
nei
cespugli, di
arrampicarmi sulle rocce.
A Beirut
mi sono
lasciato fare per tutti i casini
del
porto,
facendole piangere dal ridere
e ridere
dal
piangere.
Tranquilli, a
Beirut non ci sono mai stato.
LE
GIOSTRE (divagazioni)
Distratto
su quell'unica vocale
aperta,
sonora, che possa aver fondato
un
nome, o un suono , primariamente:
NO,
NO, NOTTE;
mi
permetterò di divagare anch'io,
su
quell'antica abitudine di rapire bambine
(filiazione
diretta dell'olimpio Zeus),
spose
all'altare, pegno degli dèi,
risalendo,
di vendetta in vendetta,
un
po' per convinzione, un po' costretto,
fino
a Urano.
Slitta
ogni buio alternandosi alla luce,
ogni
notte al giorno pieno,
ogni
tramonto a un sole scoppiato in cielo:
non
c'è colore che valga questa pace,
anche
se può trattarsi di nero pece o,
semplicemente,
di una notturna buia stanza.
Ognuno
ha un bel daffare tra giostre,
bordelli,
ninfe e fauni, sorelle,
madri
e bendisposte amiche, da lato a lato.
Da
ogni più cresciuto faggio avrò desolazioni
e
consonanze, ma attenderò che autunno
tolga
foglie e inverno copra i rami.
Oggi
gli altari portano vino e pane,
mensa,
gesto, rito e consolazione,
ma
il buio è anche più buio:
nulla
è cambiato dai tempi della clava.
Al
poeta sia concesso il divagare:
dèi
scialbi, da poco, inventerà,
implumi,
teneri e felici.
CURA/INCURIA
(gli infiniti sviluppi)
(ad
Andrea Zanzotto)
Guarda,
se non temi, gli stagni d'acque
basse,
dove il girino fionda in guizzi
lesti
la coda, o le pozzanghere ove,
in
caccia di moschini, la libellula
elicottera
una nevrosi azzurra.
Prendi
colori e tavolozza in mano
e
sulla tela fissa profili e segni;
come
il ragno beffa il critico guardone,
nascondendo
i segreti della caccia
con
mosse astute e un turbinio di forme
e
ogni volta cambia la scrittura.
Quante,
da poche minime parole,
storie,
Andrea, possono trovare inizio,
come
altrettanti Ulissidi dall'antro
polifemico:
di fughe, di beffe
astute,
di battaglie, di vittorie,
di
morte orribile, in qualunque giorno,
non
di giovedì: giorno di vita grama,
di
voli bassi, di corsa per il pane.
Cura
i particolari, le esclusioni,
fa
passare per idiozia o paura
un
piccolo o grande trasalimento,
il
corpo a corpo che struttura e sceglie;
tronco
di quercia, no albero di fico!
Antichità invisibile*
Muse
Sguardo incarnato e increata voce,
vagante dea nella tua stessa mente
eccoci congiunti allo stormir del giorno
nell’ora alta e l’alitar dei cieli.
Il mare e i volti come un grande
incendio.
L’ora d’ogni ora si compie nei viventi
e fresca giunge l’anca del tuo incedere.
In me e in te è viva l’eco d’altre Ore
sul dirupato ciglio della sera.
Se svuoto la mente ed il cuore
Se svuoto la mente e il cuore
rimango senza immagini né voce.
– Che resta di me?
Indugia una pianura edenica.
Chiara, distesa, senza tempo.
Dove tutti i contrasti s’involano.
Non più stridente danno.
Vince Amore, il più antico degli dèi.
Il più fidente.
Non è il tempo che divora ciò
Non è il tempo che divora ciò
che ha forma nel mondo,
come pensavano i saggi dell’antichità.
Il tempo è la dea Abbondanza
che porge ai viventi tutto ciò
che chiamiamo cose e realtà
del mondo.
Ed è la coscienza che le accoglie
per offrirle in dono alla mente.
Che le depone sugli altari della
dea Mnemosine,
che così le eterna.
Antichità per via*
Via delle estinzioni
(in via d'estinzione)
Alcmane di Sardi
ascoltava pernici
e il canto traduceva in parole;
noi, ora, possiamo appena
indovinare quel canto.
Via del'illusione
(via Stesicoro d'Imera)
Quel poeta che cantava gli eroi,
di ritorno da Troia, inneggiando alla pace,
e poi seppe di Clitemnestra e di Oreste:
s’illudeva a parlare di pace.
Antichità per via - 2*
Via dei poeti
(Via Euripide, come visto da Diceopoli
ne gli Acarnesi di Aristofane)
Questa non è una via come tutte,
guardate in alto, non cercate in basso,
stanno tutti lassù, chi più e chi meno,
ad acchiappare versi;
e fate piano, non gridate
che se si svegliano di soprassalto, e male,
cadono giù di testa, rovinosamente.
*Cfr. A. Cabianca,
Le vie della città invisibile, Editoria Universitaria, Venezia 1995.
Vicolo dell' odi et amo
(Vicolo Catullo)
Arrivano tutti lì,
i poeti dell’erba catulla,
delle resipiscenze d’amore,
alla pazzia d’Amleto,
al gioco del to be,
al sangue, al sangue.
Arrivano tutti dove,
nel gioco con l’ombra,
negli inganni degli scacchi,
nello scambio dei baiocchi,
nella lettura dei tarocchi,
nelle tante grafologie, tutte
uguali, nelle mille tautologie,
tutte differenti e incomprensibili:
e intanto l’usignolo stupidamente
ha smesso di cantare.
Via dell'insidia
(e di Dioniso)
Licambo, attento alle tue figlie,
Archiloco le insidia, sfrenato nella danza,
convinciti, caccialo lontano, è più pazzo,
ebbro e agitato che poeta.
Via del diavoletto nero
Nella mia mente c’è un diavoletto nero:
ha mani delicate, se accarezza,
bocca che inchioda e non ti scioglie,
cosce festanti, seni piccolissimi,
e un fruscio d’ali gemelle
prima di sparire nel fuoco
dove mi conduce.