Reminiscor
Memoria
di Atlantide
Isole
che nei millenni nascono e
sprofondano,
al
respiro
ritmico
che solleva e
abbassa
il mare,
come se dalle
sue bocche
e
dall’intatta
adolescenza
del suo
sangue, avesse
ogni istante origine
il mondo.
In queste acque dove un
re
si
annegò per la
nostalgia del figlio,
splendeva
Creta: la
città dei cigni
era detta,
per le sue
bianche regge
sontuose,
e per gli
altari, le terrazze
aperte e
abbaglianti
di sole, e per le nozze
ridenti
che ogni
giorno si tenevano
sulle
più alte
acropoli, i banchetti …
Poi
onde alte
come mura la
strapparono
al sogno
del suo opolo
canoro.
Riposa il
suo segreto
oggi
chiuso
nella feroce,
eterna quiete
e nel
silenzio del suo
mare, tomba
di reami e
di vele.
Solo i naufraghi
sanno
ormai dove Creta
sia risorta.
Estasi
marina
Che fine
hanno fatto,
delfini,
le figlie
bambine del
mare, le Nereidi che cavalcavano
le onde,
sui cocchi
trainati dalle vostre pinne?
Affogate
tra buste di
plastica e detersivi,
forse solo
voi ne
riconoscete
nelle
spume il sorriso,
i capelli nelle alghe;
e voi,
gabbiani e
pesci volanti, messaggeri dei miti alisei,
dei venti
placidi
spiranti dalla terraferma vicina,
ricordate
ancora
quanti giorni
di
burrasche e bonacce
occorrano a fare approdo
alle
spiagge dei “pomi
d’oro”, al paese delle Esperidi?
E quale
regina
scontò
un lutto segreto, o pagò il vanto
della
propria
bellezza, mutandosi in stella marina,
in fiore
d’anemone? E
che delitto
ancestrale
inabissò
giù nei pozzi
dell’oceano
gli dei
ribelli, in forme
di priovre
giganti, di
Scilla squamosa ed ingorda?
Stupendo
popolo delle
acque e dei gorghi, morendo
vorrei
risvegliarmi in
una qualunque
delle
tantissime
creature tue figlie:
nuotare
insieme ai
banchi, che sanno a memoria le rotte
delle
correnti,
esplorare gli antri e le gole
dei
fondali silenti,
il nascosto
regno
delle meduse e
degli ippocampi.
Quando
era un dio a
regnare sulle acque
Mutato in
toro o in
cavallo, vagava
un dio, un
tempo,
lungo gli sgranati
versanti
di questo
mare, predando
fanciulle.
E mentre ignare adolescenti
dal fianco
snello, dai
capelli
gocciolanti
sopra le
spalle nude
scherzavano
l’un
l’altra, a riva, lucide
d’acqua e
di sole,
emergendo dal bagno,
Tritone,
immobile a
fiore dell’onda,
attendeva
per
prenderle: coperto
da una
canuta
ghirlanda di spume
o da un
banco di
pesci, o in sembianza
d’anemone,
ne rapiva
una a caso
per
sparire con lei, e
condurla in dorso
fino ai
palazzi dalle
porte d’oro
che furono
suoi, al
largo, sui fondali.
È
il suo latrato
che
rimbomba ancora
degli
antri cavi
violati dal vento,
dalle
spelonche buie
che si aprono
nel seno
delle baie,
delle coste rocciose;
è
il suo lamento
che
narra alle onde
il ricordo
di quegli
amori
che,
intatto dai
secoli, echeggia
nell’incostante
volgere delle acque.
Fummo noi a sfidare per primi
i bastioni di Atlante, a immaginare
rotte sull’immensità burrascosa
a perdersi tra venti enormi, nebbie
sconosciute alle nostre coste, in cerca
di nuovi e inusitati sbocchi
al traffico della porpora, dell’ambra.
Calammo i cedri dalle prore arcuate
sopra acque che sembravano di ferro,
quindi puntammo verso nord. Al largo
vortici si levavano roteando
in delirio, serpi dalle viscere
buie del mare, le spire gonfie, ebbre
di lampi e spume, avviluppate intorno
all’occhio del sole fino a inghiottirlo
entro il loro amplesso; e spesso un boato
disumano, un lamento come di anime
di annegati, portate dalle onde,
ci tenne insonni la notte, mostrandoci
in sogno un viso amato, ci ammonì
di tornare indietro: ma più deciso allora
dettava il tempo battendo il tamburo
e dava forza ai rematori, a bordo.
I cocci della statua di un dio, sparsi
qua e là sulle spiagge spoglie oggi
di tante isole celtiche, testimoniano
quanto oltre i confini noti avessimo
spinto il sogno, prima di far naufragio.
*Cfr. G. Aprile,
Il dio che vaga col vento, Novi Ligure (AL) 2008.
Sembianze umane aveste un tempo, ma empi
un dio vi punì convertendovi
in macigni? O l’ira di un gigante
beffato e offeso da una ciurma in fuga
vi scaraventò contro il mare? Scogli,
segnate voi il confine
tra la terraferma sicura e l’abisso, come
ad ammonire di un pericolo
oltre i vostri presidi turriti, e vigili
fissando il largo difendete
la costa dalla minaccia
delle ondate, dalla lusinga
della risacca, dalla sfida dei venti.
Ginocchia e nuche dei tritoni
o dorsi scuri di creature
minerali che dormono, o rovine
di montagne crollate, di fortezze abbattute
da ancestrali burrasche e maremoti:
scogli, di quali eventi immani
testimoni, sepolti nel buio del tempo,
fate da sentinelle? E che significa
la geometria assurda, il mosaico caotico
che vi dissemina sull’acqua?
*Cfr. G. Aprile,
Il dio che vaga col vento, Novi Ligure (AL) 2008.
Nei secoli*
Labirinto
Ci raccomandarono state alla larga
dai cunicoli, dal bordo dei pozzi,
ci si perde spesso
dove gli animali senza occhi
fanno le tane, nessuno li ha mai misurati
i sotterranei, una razza diversa
che ha in orrore i fiori di Cnosso
coltiva insani, violenti appetiti.
Il cielo dalle mascelle di ferro
reclama ogni giorno
il suo tributo di cappellini da baseball,
in numero non inferiore a sette.
Viaggiatori
L’orizzonte è una promessa,
e l’oggi un profugo cieco.
Chimera delle Cicladi, quante isole
si nascondono dietro un foglio bianco,
quanti orologi da ragazzi
manomessi per gioco o inavvertitamente
sfilatisi dal polso
nuotando e ingoiati dal fiume;
lunghissimi pomeriggi in collegio,
le mani sotto la nuca, a dipingere
sul libro di algebra le sopracciglia
di una visitatrice misteriosa;
e ogni finestra aperta era un aedo
di climi più congeniali,
di hawaiane dalle gonne di ibisco
dalla parlata musicale e incomprensibile.
Poi le stive degli anni
hanno svelato il loro reale carico,
il diramarsi sotto i nostri occhi
delle strade innumerevoli
che piegano dietro la schiena scura
della montagna;
e l’orizzonte resta colmo di spighe,
ma l’oggi ha le mani mozze.
*Cfr. G. Aprile, Elleboro, Terra d’ulivi edizioni, Lecce 2019.
Casa di specchi*
1. Fanno ottimi affari i megastore
di bigiotteria falsa,
ma se il senegalese ha denti così bianchi
è solo per contrasto con la sua pelle.
È una vita da pesce pulitore,
diverse interpretazioni sprigionano
dalla pietra focaia
dei pensieri persi tra l’erba alta,
il numero di sampietrini
da qui a casa impossibile da conteggiare,
nell’outlet i manichini si beffano
delle nostre facce incollate alla vetrina –
è un fake ogni diceria intorno a Lazzaro.
2. Aveva torto Talete, lo prova
la rapidità con cui
le uova si spellano nel bollitore;
giurano il falso gli alberi ad agosto,
l’allegria è solo danza di licaoni.
Tra il barattolo degli integratori
e la luna
c’è una strada interrotta,
occhiali dalle asticelle spezzate, una mela di ferro
che non ho il coraggio di ammettere.
*Cfr. G. Aprile, Elleboro, Terra d’ulivi edizioni, Lecce 2019.
Segnali*
Si moltiplicano, nel crepitio intermittente delle farmacie di turno,
i segnali. Voli bassi di uccelli
sui piatti apparecchiati, un’improvvisa bonaccia ammutolisce i capelli.
La Chera in tuta da jogging
fa un solo giro
ma percorre l’intero isolato, le strade si infilano in fretta
nelle tasche dei passanti, “Fate presto, fate presto!”, urla qualcuno
da uno sportello che sbadiglia. Cercatevi una tana,
l’anziana con il cane alle sette in punto raggiunge il punto convenuto,
alza la mano sinistra
in direzione della riva più scura
del lago e fa cenno
di via libera.
*Cfr. G. Aprile, Il Giardiniere Cieco, Transeuropa 2019. (ndr)