Non
si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno,
Dialettica
dell'illuminismo
Rivisitazioni,
traduzioni, manipolazioni
Redazione
Sergio Audano,
Gianni Caccia,
Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola,
Lorenzo Fort, Letizia Lanza
Ciro Vitiello
Scheda
biobibliografica
|
da Orazio
da Catullo
da Orazio
I, 9
Vedi il
Soratte come svetti bianco
di neve
e le affaticate selve
non
più sostengano il peso, e i fiumi
si
arrestino per l’acuto gelo.
Allontana
il freddo ponendo legna
abbondante
sul fuoco, e versa
generoso,
Taliarco, dall’anfora
sabina
il vino di quattro anni.
Lascia
il resto agli dei, che, appena
hanno
placato i venti in lotta
sul
tempestoso mare, non scuotono
i vecchi
orni né i cipressi.
Che cosa
serbi il futuro, non chiedere
e ogni
giorno che ti conceda il caso
l’abbia
a guadagno, non disprezzare
i dolci
amori né le danze,
finché
è lontana da te nel fiore degli anni
la greve
vecchiaia. Ora il Campo Marzio
e le
piazze e i lievi mormorii si ripetano
all’ora
fissata al calare della notte;
ed ora
sono graditi i sorrisi ingannatori
della
nascosta ragazza dall’angolo
intimo e
il pegno strappato dal braccio
o dal
dito che non resiste.
I, 11
Non
chiedere – è illecito saperlo – quale termine a me
quale a
te abbiano dato gli dei, o Leuconoe, né tentare
i
calcoli babilonesi. Come meglio è tollerare ciò che
sarà
se Giove
ti concede o molti inverni o l’ultimo,
che
sugli opposti scogli il Mar Tirreno ora schianta:
sia tu
saggia, filtra il vino, e sul breve tempo misura
la lunga
speranza. Mentre parliamo, fugge l’inviso tempo:
carpe
diem, e credi il meno possibile al futuro.
I, 30
O
Venere, regina di Cnido e di Pafo,
lascia
la cara Cipro e trasferisciti
nel
grazioso tempietto di cera che
con
molto incenso ti invoca.
Con te
s’affrettino l’ardente fanciullo,
e le
Grazie dalle sciolte cinture, e
le
Ninfe, e Gioventù, poco amabile
senza di
te, e Mercurio.
I, 38
Odio –
valletto – i fastosi banchetti,
mi
dispiacciono le corone intrecciate
di
tigli, non ricercare in qual luogo
indugi
la rosa tardiva.
Non mi
curo che diligente tu altro aggiunga
al mirto
schietto: che non conviene
né
a te coppiere né a me
che bevo
sotto una folta vite.
III, 13
O fonte
Bandusia, più limpida del vetro,
degna
del dolce vino infiorettato,
domani ti sarà donato un
capretto
la cui la
fronte turgida
di
incipienti corna è destinata a amorose
battaglie.
Invano, infatti ti colorerà di rosso sangue
i gelidi
ruscelli la prole
del
lascivo gregge.
La
terribile stagione dell’ardente Canicola
non sa
toccarti; tu offri l’amabile fresco ai tori
stanchi
dell’aratro e al gregge
errante.
E diventerai
famosa
anche tu, dopo aver cantato i lecci
che
sovrastano la grotta,
donde le
tue acque
discendono
loquaci.
III, 30
Eressi
un monumento più duraturo del bronzo
e
più grande delle piramidi regali,
che non
la corrosiva pioggia, non l’impetuoso
aquilone
possa abbattere – o l’interminabile serie
degli
anni e il passare delle stagioni. Non tutto
morirò,
e gran parte di me eviterà
la
Morte: sempre io risorgerò di nuova gloria:
finché
il pontefice salga
con la
taciturna vestale sul Campidoglio,
si dica,
dove il violento Ofanto strepita
e dove
in terre povere di acque regnò
su
popoli agresti, Danao, da umile grande,
per
primo tradusse nei ritmi italici
il carme
eolico. Prendi orgoglio che ben meriti
e cingi
la mia chioma, Melpomene,
propizia,
con il delfico alloro.
IV, 7
Si
sciolsero le nevi, e già ritornano i fili d’erba sui campi
e sugli
alberi le foglie;
muta
aspetto la terra e decrescendo tra le rive
scorrono
i fiumi;
Grazia
con le Ninfe e le sorelle gemelle osa condurre
nuda le
danze;
non
sperare immortali le cose, ammonisce l’anno,
e belli i giorni che
rapisce l’ora.
I venti
raddolciscono i freddi, la transeunte estate
scaccia
la primavera,
così
il fruttuoso autunno produrrà messi, e subito
verrà
l’inverno inerte.
E il
veloce susseguirsi delle lune salva dall’inclemenza:
Noi, una
volta caduti
dove
è il padre Enea, il ricco Tullio ed Anco,
siamo polvere e ombra.
Chi sa
se gli dei del cielo aggiungano tempi futuri
alla somma dei giorni
presenti?
Tutte le
cose fuggiranno dalle mani avide dell’erede
Che ti concederai con
animo amico.
Quando
tu cadrai, e Minosse su te avrà emesso
lo
splendido giudizio,
non ti
porterà in vita – o Torquato – né la nobiltà,
né l’eloquenza né la
pietà;
né
dunque Diana dalle tenebre dell’inferno libera
il casto Ippolito,
né
può Teseo rompere per il caro Piritoo
i
vincoli dell’oblio.
da
Catullo
II
Passero,
delizia della mia fanciulla,
con
cui suole giocare, e che suole tenere
in
grembo, e offrirgli la punta del dito
e
provocare morsi pungenti,
quando
al mio amore splendido piace
divertirsi,
come è conforto del suo dolore,
per
attenuare, credo, il greve
ardore,
con te potessi giocare
come
lei e alleviare le tristi
pene
dell’animo!
III
Piangete,
Veneri e Amorini
e
quanti sono gli uomini più graziosi,
il
passero della mia fanciulla è morto,
il
passero, delizia della mia fanciulla,
che
lei amava più dei suoi occhi:
ed
era dolce, e la conosceva bene
quanto
una fanciulla sua madre
né
si muoveva dal suo grembo
ma
saltellando di qua e di là
pigolava
solo verso la padrona:
ora
va per un sentiero di tenebre
là,
donde nessuno si dice torni.
Mal
vi colga, maledette tenebre dell’Orco,
che
divorate tutte le cose splendenti:
mi
portaste via il passero così grazioso.
Passero
miserello! Per causa tua
ora
gli occhi turgidi della mia fanciulla
piangendo
rosseggiano!
XXVI
La
vostra villetta, Furio, non è opposta
ai
venti del mezzodì, né di ponente,
né
di boreale impetuoso, né di levante,
bensì
a miglia quindici e duecento.
O
vento terribile e pestilente!
XXXII
Ti
amerò, mia dolce Ipsitilla,
mia
delizia, mia grazia,
ordina
che venga da te a mezzodì.
E
se lo vorrai, consenti che
nessuno
chiuda i battenti,
né
ti piaccia andar fuori,
ma
resta a casa e apprestati
a
nove continui amplessi.
E
se vuoi, comandalo subito:
io,
dopo pranzo, sto disteso
e,
sazio, sfondo
tunica
e mantello.
LXX
Con
nessuno, dice la mia donna, preferirebbe accoppiarsi
all’infuori
di me, neppure se lo chieda Giove in persona.
Dice:
ma, ciò che una donna desiderosa dice all’amante,
bisogna
scriverlo sul vento e sulla rapida acqua.
V
Viviamo,
mia Lesbia, e amiamo,
e
i mormorii di vecchi troppo severi
riteniamoli
tutti di poco conto.
I
soli possono tramontare e ritornare:
noi,
quando si spegne la breve luce,
dovremo
dormire una perpetua notte.
Dammi
mille baci, poi cento,
poi
mille ancora, poi cento,
poi
fino ad altri mille, poi cento.
Poi,
quando avremo toccato
molte
migliaia, mescoliamoli,
per
non saperlo, o perché qualche
malvagio
non possa essere invidioso
quando
venga a conoscenza
di
tanti baci
XIII
Cenerai
bene, Fasullo mio, presso di me,
tra
pochi giorni, con il favore degli dei,
se
porterai con te una buona e ricca
cena,
e una bella fanciulla, e vino,
e
sale, e ogni genere di risate. Se, dico,
queste
cose porterai, grazioso amico,
cenerai
bene: ormai la borsa del tuo
Catullo
è piena di ragnatele. Ma
di
contro riceverai schietti amori
e
quanto vi è di più dolce e squisito:
e
darò un unguento, che Veneri
e
Cupidi donarono alla mia fanciulla,
e,
quando l’odorerai, pregherai
gli
dei che ti facciano tutto naso,
Fabullo.
XLI
Ammiana,
fottuta fanciulla,
mi
chiese dieci mila sesterzi,
codesta
fanciulla dal naso bruttino,
amica
del dissipatore di Formia.
Parenti,
cui la fanciulla è cara,
convocate
amici e medici:
non
è sana la fanciulla, né suole
allo
specchio vedersi com’è.
LII
Che
c’è, Catullo? Perché indugi a morire?
Sulla
sedia curiale siede Nonio scrofoloso,
per
il consolato spergiura Vatinio:
Che
c’è, Catullo? Perché indugi a morire?
LVIII
Celio,
la nostra Lesbia, quella Lesbia,
proprio
quella che Catullo sola amò
più
di sé e dei suoi tutti, ora in
quadrivi
e angiporti smunge i nipoti
del
magnanimo Remo.
VIII
Infelice
Catullo, cessa di vaneggiare,
e
considera perduto quanto perì.
Splendettero
soli fulgidi per te
quando
venivi dove ti attirava la fanciulla
amata
quanto nessuna da noi sarà amata.
Lì,
molti giochi d’amore si facevano
che
tu volevi né la fanciulla disvoleva
Splendettero
davvero soli fulgidi per te.
Ora
lei più non vuole: anche tu, dissennato,
non
volere, né inseguire chi fugge,
e
non vivere misero, ma con ostinazione
tollera,
persisti. Fanciulla, addio.
Ormai
Catullo persiste, non ti cercherà
né
ti richiederà contro il tuo volere:
ma
ti affliggerai, quando non sarai richiesta.
Guai
a te, scellerata! Che vita ti resta?
Chi ti
corteggerà? A chi
sembrerai bella?
Chi
ora amerai? Di chi dirai essere?
Chi
bacerai? A chi morderai le labbra?
Ma
tu, Catullo, risoluto persisti.
XLI
Ammiana,
fottuta fanciulla,
mi
chiese dieci mila sesterzi,
codesta
fanciulla dal naso bruttino,
amica
del dissipatore di Formia.
Parenti,
cui la fanciulla è cara,
convocate
amici e medici:
non
è sana la fanciulla, né suole
allo
specchio vedersi com’è.
LXXII
Una
volta dicevi che amavi solo Catullo,
Lesbia,
né volevi avere al mio posto Giove.
Ti
amai allora tanto non come il volgo l’amante
ma
come il padre ama figli e generi.
Ora
ti conosco: e, benché molto più ardo,
mi
sei molto più vile e più spregevole.
Come
può essere, chiedi? Un tale tradimento
costringe
l’amante ad amare di più
ma
a voler bene di meno.
LXXXV
Odio
et amo. Come ciò accade, forse mi chiedi?
Non
so, però sento che avviene e mi tormento.
CI
Per
molte genti e molti mari portato
vengo
a questi miseri funerali, fratello,
per
darti l’estremo saluto
e
parlare invano con le tue mute ceneri,
poiché
la fortuna ti ha strappato da me,
o
infelice fratello indegnamente toltomi.
Ora
queste offerte, che per antico costume
dei
padri sono tramandate in triste dono,
accogli
grondanti di tanto fraterno
pianto,
e per sempre, fratello, addio.
VII
Mi
chiedi, quanti baci tuoi, Lesbia,
mi
soddisfino e mi sazino.
Quanta
sabbia libica giace
nella
Cirene produttrice di laserpizio
tra
l’oracolo di Giove ardente
e
la sacra tomba del vecchio Batto;
o
quante stelle, in tacita notte,
vedono
gli amori furtivi
degli
uomini: così soddisfa e sazia
l’insano
Catullo coprirti di tanti baci,
che
curiosi non possano contare
né
incantare le male lingue.
XXXVII
Lascivo
bordello e voi frequentatori,
al
nono pilastro dal tempio dei Dioscuri,
credete
che voi solo avete il membro,
che
a voi solo sia lecito accoppiarsi
con
le donne e ritenere gli altri caproni?
Forse,
perché stupidi sedete in fila cento
o
duecento, non credete che io non osi
all’unisono
imbrattare duecento spettatori?
Eppure,
credetelo: io disegnerò i peni
Sulle
facciate del bordello. E la mia
fanciulla,
che fugge dal mio grembo,
amata
quanto nessuna sarà amata,
per
cui ho sostenuto grandi
battaglie,
siede qui. Tutti, buoni
e
beati, l’amate, eppure, è indegno,
tutti
meschini e triviali adulteri: tu,
davanti
a tutti, il solo dalla testa chiomata,
figlio
della Spagna, ricca di conigli, Egnazio,
che
fa bello la barca scura e il dente
sfregato
con urina iberica.
XXXVIII
Sta
male, Cornificio, il tuo Catullo,
sta
male, per Ercole, ed è in pena,
e
sempre più, di giorno in giorno
e
di ora in ora. E tu, poiché è minimo
e
facilissimo, con quale conforto lo animi?
Mi
adiro con te. Così i miei amici?
Mi
giova un poco di conforto, più mesto
delle
lacrime di Simonide.
LXXXVII
Nessuna
donna in verità può dirsi amata
quanto
da me la mia Lesbia è stata amata.
Nessuna
fedeltà mai in un patto fu tanta
quanta
da parte mia nel tuo amore è stata.
XCII
Lesbia
di me dice sempre male e mai tace
di
me: che io muoia se Lesbia non mi ama.
Come?
Perché io faccio altrettanto:
di
continuo la detesto, ma
che
io muoia se non l’amo.
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