Non
si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno,
Dialettica
dell'illuminismo
Rivisitazioni,
traduzioni, manipolazioni
Redazione
Sergio Audano,
Gianni Caccia,
Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola,
Lorenzo Fort, Letizia Lanza
Gianmario
Lucini
Scheda
biobibliografica
|
1.
Piccola salmodia sull'epica antica
2.
Prologo
3. Epos
4. Canto d'amore di J. Alfred Prufrock
5. Tentando il silenzio
6. Vadam ad portas Inferi - Preghiera dubitosa
7. Tradimenti (storpiature da frammenti dei lirici greci) - 1
1.
Piccola salmodia sull'epica antica
Ah i cavalieri, gli antichi cavalieri
che si
scannavano sulle rive
di Scamandro
truci
nell'ira e nel fragore
dell'armi
percosse, nell'invettive,
guardavano il
nemico dritto negli
occhi
lo sfidavano
con parole alte
e oneste
– poi
l'infilzavano o si facevano
infilzare.
E cadendo l'ultima prece al rivale
per
pietà del vecchio
padre, del figlio, della sposa
le spoglie
rendesse intatte a
loro
dopo il colpo
fatale. Commosso
annuiva il
vincitore insanguinato
faceva
giuramento consolava
e si lasciava
in balia del cuore
vagare su
qual mare suggestivo
del destino
dove s'accomuna e
si ritrova
l'uguale
sentire degli uomini
che cercano
vita sotto
l'immensa cupola del
cielo...
Così parole a noi tramandarono
solenni
nei versi
degli antichi e una
pietà
che non
sappiamo più interrogare,
ahi cavalieri, antichi cavalieri
noi non
abbiamo più occhi
da vedere
noi non
abbiamo più occhi
per vedere
abbiamo conquistato questo cielo
siamo
più alti degli dèi,
li bombardiamo,
vediamo
friggere l'Olimpo, piegarsi
l'acciaio dei
ponti, levarsi
in alte
colonne l'acqua del mare
alle nubi,
ma non
vediamo più occhi,
più volti,
neppure il
sangue – le nostre
mani pulite
accarezzano capelli
e corpi
amati dopo
ogni macello;
non siamo feroci, non siamo turbati,
siamo come
macchine impassibili
strumenti
nelle mani degli onnipotenti
di questo
nuovo improvvisato
Olimpo
che nessuno
sa dove sia.
Anche noi
siamo
strumenti d'un dio.
****
2. Prologo
Perché
sia dato capire è necessario il segno,
che
riconduca al sogno. Nessuna trama,
nessun
costrutto, eventi soltanto, res
nella
scarna sequenza: un prete,
un delirio
nel Sancta Sanctorum.
Qui ha
inizio il racconto,
e nel
ventre,
con il segno
nel ventre d’una sterile.
Fu
necessaria la follia
e la strana
visione di Maria,
quel viaggio
dentro il sogno, quel sussulto.
Fu
necessaria l’innocenza dei folli
la
verità del delirio incontestabile
per generare
il segno senza logica; lo scandalo
degli occhi
profondi di Maria
fu
necessario e la follia di testimoni senza credito
per cambiare
il segno della storia. Maria
spirito,
materia, passato e futuro nel presente
camminava
passo dopo passo assorta
nel suo
turbamento. Maria in silenzio
cerbiatta
dei boschi di Nazareth
celebrava la
sua eucaristia e la follia
di Dio
vinceva ogni logica
materializzava
il sogno ai sensi.
A quel tempo
la fanciulla Maria poteva solo un canto
capace di
unire il passato al futuro – il tempo
dei miti e
dei Profeti col tempo della storia
ormai nata
nel suo grembo – la parola
antica e il
Verbo nuovo
che si
faceva nuovo simbolo
imbevuto
della sua saggezza.
Maria, la
prima sacerdotessa portava
in sé
l’eucaristia, gravida di segni e di sogni
andava alla
casa della vecchia ingravidata
perché
soltanto una folle poteva comprendere
il
fondamento di ogni ragione
che nessuna
logica ci ha mai mostrato.
La follia
crea col cuore e il cuore
ha bisogno di spiriti liberi,
azzardi,
assurdi, utopie.
Giunse
infine il pensiero a ordinare in parate
in sequenze
ordinate l’intuito del cuore
si
svegliarono i sensi a cogliere il racconto
ad esperire
gioia e dolore
i salti nel
buio del cuore. E nell’incontro
sussulta
Elisabetta: il bimbo scalcia nel ventre.
Anche questo
è un segno. Elisabetta benedice.
Maria
esulta: se mai un’ombra
l’abbia
sfiorata dopo l’annuncio di Gabriele,
ora
quell’ombra è dissipata. Non poteva
dare quel
figlio se non
con impeto e
piena di gioia.
Il prete
Zaccaria sciolse il suo inno, e poi Giuseppe
che non
disse una parola ma di colpo
sciolse ogni
dubbio, spianò le rughe,
tornò
a guardarla negli occhi
con quella
luce piena di mitezza. Giuseppe,
gran
conoscitore del Libro e della Legge,
si
comportò da grande saggio – senza Giuseppe
non si
può scrivere racconto:
egli
è il grande silenzioso ed esce dal libro
dopo una
scena o due recitate nel silenzio
per cui fu
necessario un talento d’eccezione.
Giuseppe e
il sogno, Maria e il sogno, e Zaccaria,
ed
Elisabetta. E sempre il sogno, l’angelos
– non facile
distinguerlo
dal desiderio di pienezza della storia:
solo una
mente integra e un’intelligenza del cuore
lo
può fare, la mente del giusto, di chi
consacra la
sua vita ai significati più semplici
che nascono
nel ventre e vagiscono
dalla
profondità del Nulla.
Le
intelligenze dei sapienti che prosciugano gli abissi
annaspano
nel buio da loro stesse generato:
troppi sogni
in questo racconto, troppa follia
divina li
destabilizza e chiedono
al Divino a
gran voce di capovolgere ogni segno
di
contraddizione, raddrizzare ciò che devia dall’ordine
forgiato
dalla civiltà greco-romana e nell’oro dalle Enneadi,
nell’argento
di millenni di sapienza. Scandalo
vedranno in
questo feto
neppure un
briciolo di logica in questo Dio,
non un
brandello di tesi e di antitesi,
non una moda
letteraria da seguire: il Nulla
che viene
all’essere e si fa storia attraverso il ventre d’una povera
è un
affronto imperdonabile
all’arroganza
d’una sapienza covata
nei palazzi
dei potenti e imposta dagli eserciti.
E il
racconto procede quasi claudicando nella casuale
raccolta di
ricordi senza nesso,
come i
racconti di un bambino, di un folle,
di un
visionario che insegue le sue fole.
Non cercarvi
scienza, logica, filosofia,
ma solo
follia, una poetica stupenda follia
che nelle
sue prime parole è più folle che mai:
in principio
era il Verbo
e il Verbo era presso Dio
e Dio era il Verbo.
Così era all’inizio.
Giovanni
riscrive la mitologia e insieme slancia
l’intelletto
alle vette filosofiche più alte.
Non è
filosofo: Giovanni è un visionario e parla col cuore.
Il libro non
viene dunque dalla sapienza:
chi lo
scrive e chi lo abita è gente semplice, ordinaria,
folle come
tutti noi ma vigile
a non
asservire libertà alla ragione.
Ah,
i cavalieri, gli antichi cavalieri
che
si scannavano sulle rive di Scamandro,
truci
nell'ira e nel fragore
d'armi
percosse, invettive.
Dritto
negli occhi scrutavano il nemico
e
lo sfidavano con onesta retorica
–
poi s'ammazzavano o si facevano ammazzare.
E
cadendo l'ultima prece:
pietà
del vecchio padre, del figlio, della sposa,
le
spoglie rendesse intatte a loro
dopo
il colpo ferale. Commosso,
annuiva
il vincitore insanguinato
e
faceva giuramento, consolava.
A
noi, solenne, tramandarono
nei
versi, gli antichi, una pietà
che
più non sappiamo interrogare.
Ahi
cavalieri, antichi cavalieri,
noi
non abbiamo più occhi da vedere,
noi
non abbiamo più occhi per vedere,
siamo
soltanto grandi mani che accarezzano
i
nostri amori, dopo ogni macello.
Anche
noi, miticamente,
strumenti
d'un dio.
4. Canto d'amore di J. Alfred Prufrock*
In memoria di Emilio Piccolo,
ispiratore di questa ripresa eliotiana
S’i’ credesse che mia risposta fosse
A persona che mai tornasse al mondo,
Questa fiamma staria sanza più scosse;
Ma però che gia mai di questo fondo
Non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
Sanza tema d’infamia ti rispondo.
(Dante, Inferno XXVII, 61-66)
Allora andiamo, tu ed io,
quando un sentimento ci chiama a raccolta
in qualche luogo morto di questo sclerotico Paese; andiamo, percorrendo strade e autostrade,
popolate solitudini
di notti senza riposo e giorni roventi di noia
e pisciatoi orrendi dove decenza costringe;
strade che salgono e scendono come un tedioso argomento con l’insidioso proposito
di condurti a domande che opprimono ...
Oh, non chiedere “Che cosa?”
andiamo a manifestare per i diritti civili.
Nella piazza combriccole vanno e vengono parlando di sport e di politica.
La nebbia sporca dalle ciminiere sempre accese,
il fumo giallo che strofina il suo muso contro il viso lambì con la sua lingua la nostra gola,
vi indugiò a lungo in un bacio pestifero,
vi depositò un poco di miasmi di cancro e di fuliggine,
scivolò sulla folla, spiccò un balzo improvviso,
e vedendo che c’era carne per la sua invisibile mattanza
s’arricciolò sopra la piazza, e si assopì.
E di sicuro ci sarà tempo
per il fumo giallo che ci entra nei polmoni
strofinando la sua lingua contro la nostra;
ci sarà tempo, ci sarà tempo
per prepararti un alibi per incontrare gli alibi che incontri;
ci sarà tempo per vivere e credere di vivere,
e tempo per avanzare e tempo per ritirarsi
davanti ad argomenti che insinuano un dubbio sul tuo desco;
tempo per te e tempo per me,
e tempo anche per cento indecisioni,
e per cento visioni e revisioni,
prima di concludere di essere un niente fra i niente.
Nella piazza combriccole vanno e vengono
parlando di sport e di politica.
E di sicuro ci sarà tempo
di chiedere “Posso bere Coca Cola?” e, “Posso vestire Adidas o Nike?”
tempo di volgere il capo e scendere la scala,
con un portamento spigliato e democratico –
(Diranno: “Che mente aperta: perché non fa politica?”)
con il mio abito sobrio ma pregevole, con una polo di marca ma senza cravatta e d’inverno
[una sciarpa arcobaleno –
(diranno: “Com’è ascetica la sua figura!”)
Oserò
scompigliare le connivenze?
In un attimo solo c'è tempo
Per decisioni e revisioni che un attimo solo invertirà.
Perché già tutte le ho conosciute, conosciute tutte –
ho conosciuto le finanze, le politiche, la mafie,
ho misurato la mia vita con riunioni e aggiornamenti;
conosco le voci dei massacrati nei Paesi più lontani
al suono delle chitarre e delle feste d’Occidente
così, come potrei rischiare?
E ho conosciuto tutti gli occhi, conosciuti tutti –
gli occhi che ti fissano inchiodandoti a una logica,
e quando sono decriptato, appuntato a uno spillo,
quando sono trafitto da un ricatto e mi dibatto sul muro
come potrei allora cominciare
a sputar fuori tutti i mozziconi dei miei giorni e delle mie false amnesie?
Come potrei rischiare?
E ho già conosciuto le braccia, conosciute tutte –
le braccia che si levano allo scoppio delle bombe
(ma sul monitor non appare che uno sbuffetto di polvere!)
È il profumo che viene dal benessere
che mi fa pencolare a questo modo?
Braccia sollevate nella resa, o avvinghiate alla mitraglia.
Potrei rischiare, allora? –
Come potrei cominciare?
.............................
Direi, ho studiato la faccenda con impegno e mi sono documentato
ed ho osservato il fumo che sale dalle foreste
solitarie incendiate dal napalm e dal fosforo confitto fra le carni? ...
Avrei potuto essere un dardo fra le costole
di questo sistema perverso che mi intrappola.
............................
E i movimenti, le chiese, dormono così tranquillamente!
comprati dalle sirene dei falsi giusti,
addormentati ... stanchi ... o giocano a fare i malati,
sdraiati sul pavimento, qui fra te e me.
Potrei, dopo i blog, le news, le teleconferenze,
aver la forza di troncare ogni connivenza?
Ma sebbene abbia pianto e digiunato, pianto e pregato,
sebbene abbia visto il futuro segnato dall’orrore
servito sul vassoio dell’accidia,
io non sono un profeta – e non ha molta importanza;
ho visto vacillare ogni mia sicurezza,
e ho visto gli eterni padroni ghignare e dar di gomito,
e a farla breve, mi sono sentito fuorigioco.
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,
dopo i blog, le news, le teleconferenze,
e fra una battuta di Benigni e qualche chiacchiera
fra te e me, ne sarebbe valsa la pena
d’affrontare il nostro fallimento sorridendo,
di comprimere l’universo tutto in una palla
e di farlo rotolare verso una domanda che opprime,
di dire: “lo sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti,
torno per dirvi tutto, vi dirò tutto” –
se la tivù, con uno speciale in prima serata,
dicesse: “Non è per niente questo che volevo dire.
Non è questo, per niente”.
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto.
Ne sarebbe valsa la pena,
dopo gli incontri e le piazze e la folla appiccicata nel fumo,
dopo i discorsi, dopo i meeting, dopo l’illusione dei movimenti
e questo, e tante altre cose? –
È impossibile dire ciò che intendo!
Ma come se il cielo riflettesse il nulla di cui sono fatto:
ne sarebbe valsa la pena
se la tivù, fra un lazzo e un ballo scosciato in prima serata,
e volgendosi verso il futuro, dicesse:
“Non è per niente questo,
non è per niente questo che volevo dire”.
............................
No! lo non sono un profeta, né ero destinato ad esserlo;
io tengo solo il posto, sono uno
utile forse a ingrossare un corteo, a dar l’avvio a un comizio o due,
ad avvisare i contatti via mail; uno strumento facile, di certo,
deferente, felice di mostrarsi utile,
prudente, cauto, sfumato nei giudizi;
pieno di nobili sentenze, ma un po’ ottuso;
talvolta, in verità, quasi ridicolo –
e quasi, a volte, un po’ stronzo.
Divento arido ... divento usato ...
Porterò il mio niente in trionfo sulle piazze.
Mi metterò sul capo un Kefiah? Avrò il coraggio di mangiare il Kebab?
Porterò un simbolo appuntato alla giacca, e camminerò come se nulla fosse.
Ho udito le sirene del potere cantare l’una all’altra.
Non credo che canteranno per me.
Le ho viste al largo cavalcare arte e poesia
pettinare i marosi d’ogni rivolta col tinnìo di monete d’oro
quando il vento della collera rigonfia le gole dei poveri.
Ci siamo troppo attardati nelle logiche del potere
con troie del potere, finanza, ’ndràngheta e mafie
finché tutti gli oppressi esploderanno, e ci faranno a pezzi.
*Cfr. T.S. Eliot: The Love Song of J. Alfred Prufrock (1917).
5. Tentando il silenzio*
Guanciali di gioia sulla pietra
dove il crinale accarezza il sorriso del cielo
nel silenzio passiamo i giorni dell’estate;
acceso il viola che trema nel vento
a rammentare che la vita è soltanto un frammento
di tenace poesia,
che la Storia è anche questa lontananza
che non conosce storia,
di magnifici poemi
che non conoscono parole
*
Lasciano segni le dita dell’Immenso
sulla tenera scorza della terra,
lasciano riflessi le sue lacrime,
colori d’indaco e d’arancio
e crepe e ferite
che il crepuscolo farà sanguinare;
ma la notte tutto assorbe
nel grande abisso del Nulla:
spalanchiamo dunque gli occhi nella notte
come fa la civetta,
risaliamo l’abisso della notte
con la tenacia della formica ...
*Cfr. G. Lucini, Per il bosco. Prefazione di I. Fedeli, Edizioni CFR, Piateda (SO) 2013.
6. Vadam ad portas inferi*
- Preghiera dubitosa
In memoria di Emilio Piccolo
Per quattro monconi, ancora, di giorni,
lasciami, Signore, su questa breccia,
prima che s’imbotri la parola nei profondi
dove Angeli bianchi allargano le braccia
nel maestoso silenzio della luce
e poeti senza nome riscrivono quei versi
suicidi nel torrente della vita.
Ho rovistato come un cane nei suburbi
dell’umano per cavarne il mio viatico;
ho riso come il cielo ride e pianto
come l’assiolo canta nell’inverno.
Non so se il viaggio mi porti all’eterno
o al niente o al miraggio dell’incanto;
per qualche giorno ancora in questo inferno
lascia allora, Signore, che io stanzi.
*Cfr. G. Lucini, Hybris. Prefazione di S. Guglielmin, Edizioni CFR, Piateda (SO) 2014.
7. Tradimenti (storpiature da frammenti dei lirici greci) - 1*
(Archiloco, D. 7)
Silvio, i tristi detti commentando, nessun cittadino
feste godrà e simposi, in alcuna città:
tutti lasciò interdetti le sparate del senatur.
E gonfi di stupore ora sono i nostri cuori.
Ma il buon Dio, amico, per gli irrimediabili affanni
solo un rimedio ha dato, la virile pazienza.
Oggi è lui, domani sei tu a sparare cazzate: noi
un po’ ci si sganascia e un po’ si finge d’indignarci.
Un’altra volta sparale più grosse, tanto noi sopportiamo
stoicamente a mezzo fra il riso e il pianto.
(Alceo, D. 63)
O voce macha,
nasone viola,
melodia di vinaccia.
*Cfr. G. Lucini, Memorie del sottobosco. Poesie giocose, satiriche e ciniche. Prefazione di I. Fedeli, Edizioni CFR, Piateda (SO) 2013, pp. 37; 38
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