Senecio
     SENECIO

Direttore
Emilio Piccolo


Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'illuminismo

Rivisitazioni, traduzioni, manipolazioni



Redazione
Sergio Audano, Gianni Caccia, Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola, Lorenzo Fort, Letizia Lanza


Paolo Puppa
Scheda biobibliografica

Fedra 2003
Salomè
Crono e Ganimede
Rivisitazioni sofoclee
Nuove figure femminili
Donna-uomo-donna 

Fedra 2003

Fedra è seduta davanti ad un tavolino col computer acceso. 

Tutto il giorno davanti all’email. Mi ha insegnato lui, a usarlo. ‘Così potremo comunicare, anche da lontano’, gli ho proposto. Riuscivo anche a sorridergli senza fatica, l’anno scorso. A guardarlo negli occhi. Lui ha fatto finta di niente e mi ha mostrato i tasti, colla solita faccia severa. Mi ha pure lasciato le spiegazioni necessarie. Come accendere il modem, ad esempio. Cosa vuol dire modem, poi? Mah. Come tenerlo caldo, senza spegnerlo, perché altrimenti il cervello rischia di scoppiare. Ma è il cuore che mi scoppia a me, altro che il modem. Altro che storie. Questo è il foglietto, colla sua scrittura. Non si capisce molto. Ha scritto in fretta. Pensava ad altro. Non sa che per me questa è una vera reliquia. Perché i tasti, questi tasti, sono stati sfiorati dalle sue piccole dita, rami nascosti nell’ombra. Sto diventando pazza. Mi salvo ormai solo se lo  ricordo bambino, quando era niente per me, uno sgorbio che piangeva di notte e mi toglieva sonno e marito. Teseo era sempre agitato per colpa sua. Quasi si vergognava di dormire con me, lasciandolo al buio.  E io ero persino gelosa! Si cambia nel tempo, già! A volte si trascinava verso la porta della nostra camera da letto, e batteva con un tocco leggero. Univa a quel rumore una specie di nenia, un pianto sempre identico, ehehehehehe heheheeheheheheheheheh, voleva manifestarci il suo dolore. Pareva un cane fedele. Voleva stare tra noi, nel letto Ma non doveva scambiarmi con sua madre. Ero imbarazzata, all’inizio. C’era l’odore di quella donna, negli armadi. Dappertutto. Di Antiope, la padrona delle palestre più ‘in’ di Udine. E suoi ritratti dappertutto. Lo spazio mi ricordava che io non ero nessuno. Lo odiavo, nei primi mesi, quel fagotto scalzo di stracci, sempre sporco. C’era la mia tata, c’era Enone, per pensarci. Io ero giovane e inquieta. E mi  domandavo perché ero entrata in questa casa troppo grande per due, troppo angusta per tre, se il terzo non apparteneva a me. Volevo avere un figlio, o una figlia, da Teseo. Un figlio avrebbe risolto tutto. Ma Teseo non mi ha donato carne sua, a me, non mi ha allargato la vita, a distrarmi. ‘Non puoi star tutto il giorno davanti alla De Filippi’, m’ha detto l’anno scorso, illuminato da progetti, gravido di futuro. ‘Un po’ di volontariato, piuttosto, se non sai cosa fare’. Ma fare cosa? Giocare a bridge? Le cene al Rotary? In mezzo ai nuovi ricchi? Gli industrialetti e le loro amichette? La società che conta? Volontariato negli ospedali? Questo, m’ha sussurrato. Si prende cura di me, in fondo. Alla fine, mi ha insegnato a usare l’email. Ma non ho nessuno con cui comunicare. Ho paura, anche, di conoscere gente strana nello schermo. Strana come me. Così, ho cominciato a scrivergli in caserma, quand’era militare. A raccontargli la mia orribile esistenza. E di mio fratello folle, il Minotauro. Tutta. Lui non ha mai risposto, ovvio. A un tratto, quand’ero rassegnata, messaggi brevi e disimpegnati. ‘Come sta la mia matrigna preferita?’, e i miei occhi si arrossavano subito. All’alba, accendevo il modem, affamata di cenni, di frasi sue, come una mendicante. Poi mi gettavo sui tasti e creavo di getto lettere su lettere, per ore, che poi cancellavo. Dopo tanti abbozzi, gli mandavo solo un breve saluto, raffreddato. Ma le prime frasi erano sempre imbrattate d’amore. Se avesse letto le prime stesure, avrebbe capito. Anche se forse aveva intuito tutto, lo stesso, Ippolito. Ogni mattina, lo accendo, e aspetto. Così passo la mia giornata. Buffo, no? 

2)

Fedra è a letto. Al suo fianco dorme Teseo. Lei sussurra sogghignando le battute che seguono, per non svegliarlo. 

Teseo bueo. Teseo bueo. Teseo bueoeoeoeoeoeoeoeoeoeo. Ta morti cani. Ostia vacaaaaaaaaaaaaa. Con mia sorella Arianna, già, questo cantavamo sottovoce, dopo il suo ingresso nella nostra vita. Era la tata Enone che ci insegnava le parolacce. Perché le signorine per bene dovevano conoscerle. Dovevano conoscere tutto della vita per difendersi meglio dai giovanotti. E quando il giovanotto è entrato a casa nostra, ci nascondevamo sotto il tavolo a dire queste preghiere: Teseobueo, Teseobueoeoeoeoeoeoeoeoeoeoeoeoeo. Le ripetevamo, travestite da serve, per far ridere il  fratello, l’handicappato. Minotauro.  Brutta fine, già, ha fatto quello là. Che fa pure rima. Teseo non ha voluto darmi un figlio. Temeva  che fosse ereditaria, la testa da idrocefalo. Povero fesso. Se era colpa di un gatto! Tanto Teseo non sa, non sa niente, mai niente sa, quello là. Lui non sa, lui non sa nemmeno a cosa penso da un po’, quando mi viene sopra. S’è solo meravigliato che da qualche tempo muovo anch’io il corpo, da sotto. Tutto il corpo. Ma lui non sa. Lui non si rende mai conto. Idiota. Quand’ero una ragazzina, credevo di amarlo. Se penso, se penso. Come ho fatto? Guardalo là, soddisfatto, pasciuto, al caldo. Chissà a cosa sta sognando? Rivede magari quella troia di Antiope? La regina degli steps e delle cyclettes. S’è beccata un ictus, poverina, mentre dava una bella dimostrazione ai clienti su come si sollevano gli attrezzi per irrobustire l’addome. Op, op, op, e tracchete. Eh, eh, eh, eheheheheheheheheheheh. Ben le sta, a quella gran troia. Quella vacca. Lui non sa cosa immagina la sua piccola Fedra mentre la sbatte in tre minuti, minuti tre, o forse anche meno. ‘La mia ragazzza, mi torna fanciulla per caso?’ Oppure ‘Ti piace ancora il mio grande uccello?’ Adesso è tutto fiero di sé. Ci trova gusto, di nuovo. E spande subito, il porco. Così, io non riesco  a mettere a posto la figura, come voglio. E resto come un’ebete, dopo. Ebete e piena di freddo, dopo. Vorrei che, vorrei che, vorrei che. Se morisse? Se facesse anche lui il suo bell’ictus, mentre si allena per ‘bloccare la pancia sul nascere’. ‘Questi sono muscoli, tasta qua, tasta qua, senti che roba, a cinquantotto anni!’ Si sente un ragazzino, e si tinge i capelli, col lucido da scarpe, e si lava troppo. Il buchino pieno di borotalco. Deve avere una nuova ganza da qualche parte. Altre troie. Sono tutte troie, le donne che conosce. Ma proprio tutte. Teseo bueo, Teseo bueo. Teseobueoteseobueoteseobueoeoeoeoeoeoeoeo. Ormai parlo come un facchino. Colpa sua. Delle sue grandi mani rosse, rosse come il mestruo. Sangue dappertutto. Le mutande sempre sporche, invece, come la sua anima. Come il suo cuore. Inzacchera tutto, lui. Quello che tocca, diventa merda. Si lava sempre, e lascia intorno biancheria lurida. I pigiami, poi. I pigiami.  Odore di cacca. Il suo buco che non tace mai, di notte. Sequestrata dalla sua puzza, dai suoi fiati. Ippo, invece, è fresco, e la sua pelle sa di limone. Una bouganville, mi pare, quando mi passa accanto silenzioso. Una bouganville persa nell’azzurro del cielo. Magari col mare vicino.  Il mio fiore silenzioso. Ha dita sottili, bianchi fili di ragno. Farmi accarezzare da questi fili. Una volta almeno nella vita. Lui è qua, ora, vicino a me, e mi prega di star buona, di dormire. Perché quando mi accuccio, quando mi stringo le cosce e lo invoco, lui mi parla nel buio, e mi porta pace e gioia. E io gli succhio a lungo l’affare, il mio succo degli dei, me lo succhio cogli occhi dilatati nel buio, la bocca chiusa, ma sento, sento che mi entra dentro questo succo, la mia rugiada, la mia primavera, e i nervi si distendono, alla fine. Anche se non c’è, non mi importa niente. Succhio lo stesso, e poi non capisco più se ho sognato o ho succhiato davvero. Già. Così, torno una signora elegante, dolce, che non dice parolacce, che non fa brutti gesti o sconcezze per umiliarsi, come una volta, quando avevamo le posate firmate, a casa mia, e chenzie dappertutto, e tappeti sulle scale. Quando ancora non conoscevo  il bestione, che m’ha rovinato la vita. Teseobueo. Teseobueoteseobueoeoeoeoeoeoeoeoeo. 

3)

Fedra si dà lo smalto sulle unghie. 

Pensare a quando non lo conoscevo. Oppure, a quando lo conoscevo e mi stava antipatico. Non appena mi vien da piangere e da gridare, guardo le sue foto da piccolo. Così penso al tempo che lavora come un medico. Almeno così dicono. C’erano mattine che mi levavo e mi arrabbiavo a vederlo saltellare nelle braghette azzurre, coi calzini bianchi. C’è stato un momento, nella mia vita, che aspettavo con ansia il giorno che sarebbe cresciuto e avrebbe finito di rovinarmi l’esistenza. Allora, mi ripetevo, se questo è stato alle mie spalle, può darsi che verrà un futuro che mi passa tutto, che mi passa sto mattesso. Magari raddoppiando il Tavor di notte, magari facendo scorta di fragolino. Col fragolino, fragolin, eheheheheheheheheh, mi vien da ridere, sempre. Enone mi serve il bicchiere pieno, complice e golosa, perché così beve anche lei. Lei sa tutto, lei che l’ha tirato su e l’ha protetto dai miei nervi, all’inizio. Ma ci sono foto che mi fan girar la testa. Meglio evitarle, di giorno. Quella in spiaggia, coll’ombra di peluria sulle guance pallide, e il costume blu e tutte le leggere sporgenze, l’ombra del ventre, e le braccia non muscolose come quelle del padre, ma disarmate e indifese. Anche col costume bianco. O quella di profilo, la camicia a scacchi e il gilet in cima alla montagna. Sempre solo, in queste foto. Senza amici, senza ragazze. Sta con tutti, sta con nessuno. Aspetta qualcosa. Ma cosa? E’ questa attesa che mi fa paura. Quando mi guarda cogli occhi severi, le rughe sulla fronte, cosa vede in me? Spero solo che odi suo padre come l’odio io. Che si renda conto di tante cose. Che abbia perdonato. Perché io avrei dovuto essere sua, non di suo padre. Potrebbe essermi figlio? Non esageriamo, adesso. In Africa, potrebbe essere, o colle mulatte e i pigmei. O al massimo in qualche paese di mafia. Ma da noi, sedici anni non bastano. Sedici anni sono pochi. E poi lui crede che siano quattordici gli anni di distanza. Me ne tolgo due, da un po’ di tempo. Gli preparo un bel minestrone. Se per caso viene, mangia qualcosa che gli fa bene, non la solita pizza dei militari. La preparo, e la nascondo col celophane nel freezer. Se no il  porco, quando si sveglia, la trova. Lui il frigo lo passa in rassegna reparto per reparto, ma il freezer no. Quello non lo controlla. Ha paura del freezer, il porco. Guai se mangia il minestrone. Con lui, tutto si riduce a merda. Subito. Neanche il tempo di buttarlo giù.

4)

Fedra spia alla finestra, dietro una tenda.

Guardali là, che trafficano col portabagagli. Appena arrivato, solo una notte, e già riparte. E il padre che non lo trattiene. Ma come? Viene tuo figlio e manco insisti per. Questa casa gli scotta, mah. Ho aspettato quasi due mesi, senza mai un segnale. Una telefonata, una mail, una cartolina. Macché. Ma scherziamo? Poi eccolo qua, finito il servizio militare, ieri sera suona alla porta, la tata vien dentro tutta rossa e mi stringe il braccio e allora capisco e mi precipito verso la sala d’ingresso e vorrei saltargli in groppa, ma non si può. Mi controllo e gli dico: ’Era ora, beato chi non muore’, e lui nemmeno risponde e chiede di suo padre. E poi si ritirano in salotto, e fanno capire che vogliono restare soli. Una confidenza, e voci basse. Cosa non dovevo sapere, io? Cosa sono questi segreti? Ho pregato la tata, quella ruffiana di Enone, di provare a informarsi. Macché. Niente da fare. Si può sapere cosa sta succedendo? C’è qualcuno che vuole dirmi cosa cazzo succede in questa casa? Entra, non saluta, cerca il babbino, e quello che sta pensando alle sue ganze, e non ha nessuna voglia di parlare col figlio, quello si mette a recitare la commedia del pappino in salotto, etcetera. ‘Portaci un caffè decafeinato’. E io gliene ho preparato uno fortissimo, invece, così impara. Almeno non dorme subito e scoreggia di meno, se non sogna. Io non devo sapere niente. Mai. Come se non ci fossi. L’estranea. Sempre stata un’estranea. La veneziana. La donna della laguna. Fedra che vien da Venezia. Allevata in collegio, col fratello idrocefalo e la sorella un po’ isterica. Lui prima le seduce e poi va in giro a dire che son matte. Così le lascia prima. Arianna, guarda che fine ha fatto anche lei. Anche con me vorrebbe fare lo stesso. Ma con me non ce la fa. Io sto zitta, io mi controllo col Tavor e il fragolino, ma guardo e cerco di capire. ‘Quel puttanone di vostra madre’, così mi fa un giorno. E io zitta. No, non reagisco subito, io. Ma non dimentico. Non è giusto, però. Io che lo aspetto come Gesù salvatore, il ragazzo, e lui non mi degna neanche d’un ciao. Almeno ‘Come va, vecchia mia? Invece niente, invece ‘Dov’è mio padre?’ Roba da matti. E adesso il pappino sta caricando l’auto con tutte le provviste, così non deve tornare. Guarda guarda, anche il salame ungherese che gli piace tanto, al panzone. Così se ne sta fuori dalle palle per qualche mese, no, il ragazzo? Furbo lui. E io, e io allora? Cosa ci sto a fare a questo mondo? 

5)

Fedra è in camicia da notte, sprofondata in una frau nel salotto. Penombra.

Giuro, giuro. E’ stata l’ultima volta. Non lo farò più. Tanto lui. Tanto lui, nemmeno si accorge di me. La luce arriva prima, adesso. Ricomincia la primavera. Ogni anno. Torna questa pazzia delle foglie e dei frutti. Fuori il giardino ricomincia a fremere, e in giro queste ragazze colla pancia. Io niente. Io niente. Io niente. Meglio così. Teseo in questo almeno è stato lucido. Niente gonfiori per me. Ogni mese questo sangue mi vien giù, inutile. Tutto questo sangue per il niente che è la mia vita. E intanto mi tocco. Se lui è lontano, posso pensare all’altro. In pace. Mi resta almeno questo. Ma non lo farò più. E’ una cosa ridicola. Una cosa da collegio di suore. E qui siamo in terra pagana, nella terra del danè. Solo gente ricca. Guai ai poveri, per Teseobueo. Qui non ha senso aver rimorsi, neanche con se stessi. Fuori sta uscendo la luce, tanto ormai non dormo più. Questa volta l’ho baciato tutto, a partire dall’ombelico. Sono venuta, pensando ai suoi occhi sottili, e alle mani  magre e pallide. Lui mi stringeva colle dita come rami, e io ero il suo albero. Sono venuta quando ho visto così chiaro e così bene i suoi occhi chiudersi durante il piacere. Ho anche sentito la sua voce farsi piccina, da bambina quasi. Il padre, invece, quando mi viene sopra, tic tac, mi gira come un salame. Un tempo non riuscivo a, un tempo non riuscivo a. Perché anch’io gridavo.  Questo è l’orrore, questa la vera colpa. Non quando mi tocco, ma quando urlavo tra le sue braccia. Quando gridavo davvero, sotto il porco. E magari Ippo m’ha sentito. Sì, magari m’ha sentito. Ecco, ecco perché mi evita. Chiaro. Ecco perché non mi scrive. Ecco perché non mi manda messaggi colla mail. Cosa gli costerebbe? Perché mi ha insegnato a usarla? Perché me l’ha insegnato, se no? Se non voleva comunicare con me? Perché? Lui ha sentito i miei ululati. Già, ululavo una volta. Suoni tremendi. Piacere tremendo. Volevo anche fargli dimenticare la palestrata, al maiale. Donna Antiope, la signora del gym. Una volta, mentre si avvoltolava su di me, gli è scappato il suo nome dalla bocca, e io mi sono messa a ridere. Già. Ma la natura. E’ naturale, la natura, no? Come al cesso. Natura tremenda. L’odore del corpo. Natura oscena. Mangi e poi diventi cacca. Provi una bella emozione e poi gridi come una matta. Ma adesso non grido più. Mi tengo tutto dentro. Quando mi vien sopra, il maiale, ho imparato a tacere. Sono tornata una signora. ‘Quella troia di tua madre’, ha continuato a sparlare di mia madre, ‘quella gran troia’. Già. ‘E allora tua madre? Quella gran troia’. Se mio padre era diventato impotente, cosa poteva fare, lei? La povera signora Pasifae. E poi lei ha avuto un solo uomo, dopo, non tutte le ganze come il maiale. Ma quando mi tocco, e penso a Ippo, mi ficco in bocca il fazzoletto, così non grido. Tanto non lo farò più. Ma a chi parlo, io? A chi prometto questo più più più. Vecchia scema. Menopausa bigotta, fra poco questo sangue inutile si asciugherà tutto. Dio non esiste. Non esiste niente oltre a questo corpo. Solo cacca, c’è. E sangue inutile, ancora per un po’. 

6)

Fedra in salotto, davanti al televisore. Armeggia col telecomando. 

Non può essere suo figlio. Ippo non è, non è. Chiaro. Troppo diverso. Antiope non l’ha fatto con lui. Anche lei una troia, allora. Anche lei una troia, allora? Già. Siamo tutte troie, per lui. Basta ficcarcelo dentro, e cominciamo a gridare. Ma io non grido più, tanto. No, caro mio, io non grido più. Te, le mie urla, non le sentirai più. Piuttosto mi stacco le corde. E mi ci impicco. Appesa alle due corde, eh, eh. Come a piazza Loreto. Che ti ci impiccherei io, là, coi fascisti come te. Maledetto fascista. Ma se è tuo figlio, perché ha le mani sottili, le dita piccole? Come rami pallidi. Fanciullo insonne. Bimbo di luna. Bambino mio, vieni qua, cosa aspetti? Perché non mi scrivi mai? ‘Non startene là come una scema. E’ quello che vuole lui. Reagisci’. Questo m’ha detto, un giorno. Una delle poche volte che m’ha parlato. E non mi guardava in faccia. Anch’io non osavo guardarlo in faccia, ormai, per non saltargli addosso. Anche lui non mi guardava in faccia, mai. Che buffi. Si parlava del più e del meno. Meno, meno, meno, figliolo. E mai guardarsi negli occhi. ‘Fa del volontariato, piuttosto’. Ma volontariato con chi? Andare negli ospedali a pulire il culo alle vecchie? Ma se sarò anch’io, una vecchia, fra poco. A imparare quale sarà il mio futuro prossimo? Ma non può essere suo figlio. Quanta pubblicità! Quanto pubblicità fanno, queste canaglie. Tanto non compro niente, io. Anzi, dirò alla tata, a Enone, di cancellare i prodotti Mediaset. Teseobueo frequenta il partito. Tanto per non restare escluso. Può essere suo figlio, se è di sinistra? Se vota a sinistra? Se non frequenta gli industriali? Se non entra mai in azienda? Se se ne frega dei soldi? Se odia Berlusconi. Vota mica Berlusconi, lui, come il porco. Se non gli piacciono le donne. No, caro mio, questa Aricia non esiste. Cos’è sta storia di Aricia? Mi fa ‘Adesso che s’è innamorato, mi diventa normale, il frocio’. Questo dice il padre, di lui. Ma non è frocio, Ippo. Non è frocio, quello. Lo capisco bene, io. Una donna se ne accorge, lo sente a pelle. No, caro, non è frocio. Ma questa Aricia non esiste, non può esistere. Se avrà una donna, quella sono solo io. Ippo, Ippo, se gridavo quelle volte che piangevi dietro la porta, era perché il tuo babbo, diciamo pure babbo per ora, mi faceva male, mi bastonava. Non erano urla di piacere, ma urla di dolore. Mi faceva male, il porco. Che poi era anche vero, all’inizio. Che male, la prima volta. Perché Ippo non salta addosso alle donne, come il padre. Il presunto padre, diciamo pure padre. La madre l’avrà fatto con qualche cliente della palestra. Qualche intellettuale. Magari un inglese sottile come un asparago. Mai detta una parolaccia, lui. E nessun odore, nessun odore nella sua stanza. Non è suo padre, il maiale. Ecco perché quando lo vede arrivare in casa, non vede l’ora che se ne vada. Quant’è falso, colla sua gentilezza! Tutte vinte, gliele dà. Pur di farlo ripartire subito. Fuori dalle palle. A casa mia, non voglio rompicoglioni. Dunque, non è tuo figlio, e tu lo sai. Lo sai, lo sai, lo sai, vecchio maiale. Teseobueo, Teseobueo, Teseobueoeoeoeoeoeoeo. Ma se non è suo figlio, non è più incesto allora. Saremmo io e lui una bella coppia. Signora ancor piacente, che fa volontariato e non guarda più la De Filippi, che non si tocca più, ama riamata un giovane elegante, aitante e magro, bastardo di qualche lord inglese (io, che son nobile, li riconosco a naso i nobili inglesi), di qualche anno più giovane. Potremmo andarcene a vivere in qualche isola irlandese. E mi studio anch’io la lingua, allora. Te lo giuro, Ippo. Ippo o Aippo? Quante coppie a teatro o al cinema hanno una differenza d’età. Potrei essere una star, e un marito giovane sarebbe normale, no? 

7)

Fedra, a tavola, servita dalla cameriera, parla al marito Teseo.

Cos’è questa storia della ragazza? Come si chiama, poi? Ah sì, Aricia. Che nomi vanno a tirar fuori. No, non ho voglia di insalata, grazie. Insista piuttosto con mio marito. E dove l’avrebbe conosciuta? Ah, quella che. L’anno scorso, già. Dove faceva il militare. Sì, sì, me la ricordo bene. Mangiaaaa l’insalata che ti fa bene. Ti ingozzi col pane bianco. Sai che ti fa male, il pane bianco. Non pensare a me, che sono in peso forma. Se ti fa male il pane bianco. Sei arrivato a ordinarlo in cucina. Cosa ti ha detto il medico? ‘Pane integrale, sopratutto, pane integrale’. Non ti ricordi cosa ti ha detto il medico?  Cosa? No, non stasera. Tutto, ma non stasera. Non mi diverto. Lo sai che non mi diverto alle cene. Vacci tu. E’ te che vogliono. Cosa vengo a fare? Non gioco a bridge, non gioco a canasta.  Non sono amici miei, poi. Va bene, non ho amici, io. Va bene, va bene. E’ tutto o.k., non importa. Tanto, è tutto lo stesso. Amici, non amici. Amici, non amici. Siamo soli lo stesso, no? Ci vai da solo, colle tue donne, no? Sì, per favore, ma per favore. Ma non è un problema. Non parliamo di stupidaggini, se possibile. Ti ho fatto preparare il dolce senza zucchero. Te l’ho preparato io, formaggio colle pere e il miele. Una ricetta sarda. AH, questo ha detto l’ingegnere? Ma dai? Ha detto questo? E l’avvocato? Bella gente frequenti! Sì, proprio che gente! E poi ci vai alle loro cene. E ti ingozzi e ti viene la pancia. Una pancia così chiama l’infarto, lo sai vero? Questo non ti fa male, ti assicuro. Puoi prendere anche due fette, se vuoi. Io perdo la giornata a farti un cibo leggero, e poi vai alle cene e ti ingozzi. E bevi anche. Guarda che bevi tanto, da un po’ di tempo. Lo sai che bevi tanto, te? Ah, te l’ha detto lui che vuol sposarla, la ragazzina? Cosa ci troverà, poi? Mah. Una che si chiama Aricia, cosa può dargli? E’ ricca? Ah, almeno questo. Tu poi, purché stia fuori dalle palle, dalle tue palle, vero? Io? Sei pazzo? No che non lo odio? Per me, che si sposi, che non si sposi, che venga a trovarci, che stia fuori dalle palle, è tutto lo stesso. Questa vita fa schifo, no? E allora? Non sono mica malata, io. No, caro, non sono via di testa. No, niente analisti con me. Vai tu a farti strizzare il cervello se vuoi, che stai dietro alle ragazzine, colla pancia da infarto che ti ritrovi. E lascia stare la mia famiglia, per favore. Non è anda, oggi.

8)

Fedra è di nuovo davanti al computer acceso.

Mi ha scritto qualcosa, alla fine. Capirai, che sforzo. Due righe, proprio due righe. Apro questo schermo ogni mattina, ogni notte, e aspetto. Neanche fosse un morto. Una seduta spiritica mi pare questa carcassa. Aspetto una frase un rigo appena. E invece mai niente. Adesso che si fidanza, adesso che ha trovato il grande amore, il signorino si scioglie, e mi manda i suoi saluti dalla Liguria. Il sentiero dell’amore, mano in mano colla modella, Aricia la modella. Dalle gambe flessuose di modella. E io cosa sono ai suoi occhi? Una merda, vero? Avevo scritto, l’altra notte, dopo due Tavor inutili e un pacchetto di sigarette Club leggera che nuoce gravemente alla salute, una lettera patetica. Il pigiamino azzurro da adolescente, di lana azzurra, e l’odore della sua cameretta quando se ne era andato a scuola, e io entravo come una ladra a bermi quell’odore di vita piccola, e mi afferravo quel pigiama ancora sudato del suo corpo solo, senza madre, senza donna, col padre impegnato nei consigli di amministrazione e colle ganze, e mi mettevo a piangere. Confessavo la mia tenerezza di mamma mancata, stretta al pigiamino, che lo sognavo ogni notte, che sapevo i suoi drammi, che tutto passava, che il tempo era un gran dottore, e che presto si sarebbe ritrovato. E che io ero là, sempre disponibile, ad aiutarlo a trovarsi. Avevo cancellato tutto, naturalmente. Ed era partito solo un “Spero tutto bene in questa vacanza”. Ho cancellato anche il postscritto: “Trovati una brava ragazza davvero, e vedrai che tutto si risolve, prima o poi. Una brava ragazza, non una modella ricca”.  ‘Così impari anche un po’ di inglese e stai meno davanti alla De Filippi’. Ma là, caro mio, io piango quando quella gente finta si mette a piangere. Piangono per finta, lo so, è tutto finto là dentro. Ma sono finta anch’io, no? Io che non piango mai, che mi controllo sempre, che vorrei piangere e gridare, e morire un po’ tra le sue braccia. Che darei la vita per un suo sorriso. Se mi guardasse negli occhi per una volta sola, se avessi il coraggio di costringerlo a rispondere al mio sguardo malato di lui. E invece “Buone vacanze”. E così adesso mi informa, il ragazzo, che sta facendo surf sulle coste liguri.  Avevo giurato un minuto fa che avrei ignorato questo messaggio stitico. E invece gli rispondo subito, come una cagna affamata. Magari lo pregherò di stare attento alle onde. Perché è pericoloso. Cos’è questa mania del surf? Che magari va a schiantarsi sulle rocce, che gli starebbe anche bene. Una modella! Lui che non amava le ragazze! Lui che cercava la sua strada. E un anno la crisi religiosa, e l’anno dopo gli ambientalisti, e poi medicina senza frontiere, che io sognavo, sognavo. La mia vendetta doveva essere il ragazzo.  Teseobueoeoeoeoeoeo mi fa l’altra sera, che volevo morire:  ‘Cosa avevo detto? Erano tutte cazzate’. Vedere suo padre contento, è troppo per me. Perché potrà sorridere al circolo, sì sorriderà fiero, e alle cene mostrerà le foto della modella. Un figlio tutto normale, finalmente. Già, io speravo che mi vendicasse in qualche modo. Ora il padre è tutto fiero del figlio. Comunque, ecco qua: ‘Caro Ippo, mi fa molto piacere saperti finalmente realizzato sul piano affettivo. Ora non resta che finire gli studi, e poi il tuo papà sarà…’.

9)

Fedra si sta struccando davanti alla specchierina della toiletta in camera da letto. 

Un’altra giornata andata. Senza amore. Fra poco a nanna. Coperte di ghiaccio. Lui rientrerà di notte, stanco di consigli di amministrazione, di ragionieri e di grafici e di scopate. Lo sentirò ronfare e tutto il resto, e starò immobile pensando ad un altro giorno perso, un altro giorno che muore, e un altro che arriva, inutile. E il figlio è anche passato oggi, di corsa, a prendere abiti puliti e biancheria, tanta biancheria. Ora viaggia con molti bagagli. Un tempo gli bastava uno zainetto. E le sue utopie. Ma adesso c’è la fanciulla ereditiera. La modella. E’ venuta in salotto Enone, il viso di fuoco. Lei sa e tace. Mi ha guardato, ha sorriso, ha scosso la testa. E io ho detto che volevo guardarmi il film in pace. Cosa dovevo dirgli, al ragazzo. “Quando me la fai conoscere?”. No, impossibile. Ho sibilato “Va via, va via. Non voglio vedere nessuno”, e lei ha bestemmiato ed è tornata in cucina. Per carità. Cosa vogliono da me quei due là? Padre e figlio, uniti nel rovinarmi la vita. Prima il vecchio che mi prende che ero quasi una bambina, e mi porta via dalla mia Venezia, dal mio campiello. Le fondamente piene di luce stanca, verso la primavera.  E quando scende l’estate, la malinconia che mi prendeva dappertutto. E me ne stavo nel mio letto, le lenzuola di lino, a sognare l’amore, sentendo i vaporetti di sotto. Che attese? E poi finire sotto il vecchio porco. Poi, mi accorgo dell’altro, il pigiama di flanella, e divento pazza in silenzio. Perché ogni giorno mi trucco la faccia, e ogni sera mi tolgo tutto dal viso? Per chi, poi? Bella per chi, poi? Così sogno le mie vendette. Ora che sono alleati di nuovo tra loro, ci vorrebbe una grande balla, una bugia grande come una casa, per dividerli, perché tornino a odiarsi. “Teseo, tuo figlio m’ha toccatò”, e quello magari si sveglia e lo ammazza così in due secondi. E io sono salva. Meglio, meglio aspettarlo davanti a un email spento che saperlo in giro colla ballerina, no è una modella, cosa dico ballerina? E poi il padre che si congratula, e mette su le rughe dalla contentezza. Corna, corna, devo fagli un po’ di corna, al vecchio porco. Ma con chi? Ippo mi ignora. Solo che ha bussato alla porta del salotto, e io avrei voluto che la buttasse giù a calci. Invece niente, un leggero, educato tocco. E ha subito rinunciato. Ma farlo entrare, perché? Perché mi vedesse in una vestaglia sudata, i primi fili di bianco sulla nuca, il telecomando in mano, i calmanti sul tavolo. Per fargli pietà, al moccioso? Ma insieme no, quei due no. Devo inventare qualcosa, sì, inventerò qualcosa. Bisogna proprio che uno dei due ammazzi l’altro. 

10)

Fedra a letto, nel dormiveglia, imbottita da plaids e da golf, mentre fuori impazza la tempesta.

Sì, mi ha toccato. Eh sì, eh sì. Basta bugie. Basta fingere. Devi sapere tutto. All’improvviso mi è venuto addosso. Io gli davo le spalle. Non me l’aspettavo. Ha suonato alla porta, credevo fosse la posta. L’ho sentito entrare in cucina. La tata era fuori. Non me l’aspettavo, non me l’aspettavo proprio. Neanche il tempo di salutarlo. Ma devi sapere. Devi sapere tutto. M’ha rovesciato sulla tavola di marmo. E mi fissava in silenzio, con uno sguardo disperato. Non ho potuto fermarlo. Mi ripeteva che non amava quell’altra. Che era tutta colpa tua, che volevi solo si sposasse una cretina qualsiasi, una stronza, tanto per essere tranquillo. Colpa tua, colpa tua. Lui non l’ama. Me l’ha confessato mentre mi spogliava. E io non ho potuto farci niente. Era troppo forte, era troppo deciso. Era come te, quand’eri giovane, e non c’era modo di fermarti, non c’era modo di fermarlo. Adesso vedi tu. Ma è stato bello. Non sono mai stata bene come con lui. Ha dovuto forzarmi solo all’inizio, poi l’ho assecondato. E non ci siamo fermati mai. Tutto il pomeriggio. Siamo rotolati per terra, sul linoleum, e poi ci siamo trascinati in salotto, sul divano. Aveva il sacco da ginnastica colla tuta e la biancheria sporca. Una volta mi son trovata sopra il sacco, e sentivo l’odore della biancheria sudata, del costume da surf. E c’era l’odore del mare. Mi dispiace, ma devi saperlo. Ora fa tu, fa tu, quello che vuoi. Cacciami via, cacciami via, che fai bene. Oppure ammazzami. O ammazzalo. O ammazzaci. Ma io appartengo a lui, sono sua. Io sono ancora giovane. E l’ho amato sempre, in silenzio, e lui l’ha capito da un pezzo che con te ero infelice, e che sarei impazzita in questo silenzio. E sapeva i tuoi tradimenti, sapeva le tue crudeltà, conosceva le tue ganze. Mi sento pulita, finalmente pulita. Non ho più il tuo odore sulla pelle. Ma il mare ligure. Il sentiero degli amanti nella mia bocca. E la spuma del mare, e il freddo delle onde nei miei occhi. Non dimenticherò mai il suo sguardo, e la sua felicità. La mia felicità. Questo è il suo pigiama di flanella. Ogni notte me lo porto con me, non lo lavo mai. Me lo ficco nel naso, la flanella azzurra. E’ il mio paradiso. Fallo pure a pezzi. Mandagli le tue guardie del corpo. Fallo sparare. No, anzi. La macchina contro le rocce. Non mi importa più. Tanto muoio anch’io con lui, dopo. Ma devi sapere. Abbiamo fatto l’amore come due bestie. Due conigli. Pomeriggio, sera e notte. E’ diventato uomo con me. E io donna con lui. Troppo bello. Non hai nemmeno un’idea. Cosa ho provato. Cosa. Nemmeno un’idea. 

11)

Fedra alla finestra. Guarda il sole invernale. Tra le mani il Radiocorriere tv. 

‘Saranno famosi’ o il film, stasera? Film già visto, no. Questi ragazzini vogliono sfondare. Eh, eh. Le ragazze le manderei tutte dove dico io. Magari i marocchini. La fine della ciociara. O dai talebani rimasti senza donne da mesi e mesi. O in un carcere maschile, come nel film con Eastwood. Ma i ragazzini sono freschi e disposti a tutto pur. Eh, eh. Loro mi piacciono. Mi ricordano Ippo. Avrà avuto si e no nove anni. Ho smesso di odiarlo, all’improvviso. Quando s’è ferito cadendo dalla magnolia nel giardino d’estate. Giocava sempre da solo, senza compagni. Mai un amico, anche da bambino. Era come svenuto, e la tata gridava. Voleva far chiamare il bueo. Ma il padre era all’estero, come sempre. Allora l’ho portato nella mia camera da letto. Pareva morto. Ho cominciato a spogliarlo. E lui mi aiutava, in qualche modo. Buffo, no? Pareva morto, ma mi aiutava a spogliarlo. Gli strappavo quasi di dosso gli indumenti, colla voglia improvvisa di sentirmi sotto le mani il suo corpo nudo e intatto, le spalle tanto esili. Era morbido e caldo come un gatto. Così piccolo, così piccolo. E io ero nel mio fulgore. Mi son vista allo specchio. Gli occhi da matta, quelli di mio fratello, il Minotauro. E ho capito che stava succedendo qualcosa. Sì. Ho desiderato di essergli madre. Ho provato uno struggimento allo stomaco, una fame di maternità improvvisa, insulsa. Una voglia di dolore, di mancanza, di sentirmelo dentro, di sentirlo uscire a poco a poco da me. E covavo i dolori d’una genitrice idiota e ansiosa, mi sarei goduta anch’io le sue prime malattie, le ansie ai primi rientri in ritardo. Ero come le altre, anch’io, allora. L’avevo appena partorito, in fondo. Era una cosa mia. E l’odore dei suoi piedini, della sua cacca, del latte. Sì, tanto latte, dappertutto, in me, sulla sua boccuccia, sui suoi occhi, il suono minuscolo del suo pianto. Gemiti che mi penetravano le ossa, a darmi carne e latte e vita. Intorno, c’era una strana attesa. Ho fatto uscire dalla stanza la tata che continuava a piangere.  Invece, stringendo nella mia la sua piccola mano ruvida e calda, coll’altra ho cominciato ad accarezzarlo, là nel ventre. A lungo. Già. Finché l’affare gli si è allungato, come una lucertola al sole. Il suo piccolo affare, un affarino innocente e paziente, senza pretese. Non aggressivo. Un piccolo pennello. Senza pelo. Niente pelo. Tutto bianco. Da quella volta, abbiamo imparato a frequentarci, a parlarci, nei miei sogni. Poi, un giorno, è tornato dall’anno in America, scambio di scuola, per imparare l’inglese che suo padre finge di sapere. Ed era cambiato. Era cresciuto, gli occhi più sottili e cupi, il passo nervoso, la voce rauca e dura. E non mi guardava più in faccia. La mattina dopo, la mattina dopo che ero sola in cucina, sono stata presa d'improvviso da una gioia intensa che mi saliva dentro, come una vampa. Mai prima di allora avevo provato un senso di gioia così calmo e così pieno. Ero scossa da brividi di felicità. Perché ormai confondevo i tempi. Mi dicevo che ero contenta, contenta di tutto, che niente mancava alla mia vita. Era uno di quei momenti di silenzio dorato. Stendevo il miele sulle fette biscottate, il caffè stava bollendo, e ho tremato all’idea di abbracciarlo con calma, quando si fosse alzato. Ho aspettato, aspettato tanto, quella mattina. Era inevitabile che quella pace, quel senso di benessere scivolassero via.  Ho provato nausea, nausea, poi. E ho capito che era tutto finito. Quasi gridavo tra me che mentre io dovevo restare qua per sempre, lui ormai voleva andar via. 

12)

Fedra in luce. E’ sospesa sul davanzale della finestra. Incerta se gettarsi giù.

Quelle coppie si lanciavano dalle finestre, mano nella mano. L’ho visto nel telegiornale. Hanno trovato sul cemento mani intrecciate, di corpi diversi. Avrei potuto essere io nelle torri, con Ippo. Fuggiti insieme, dopo la confessione. E l’aereo che ci entra nella testa. Una gran vampa. Il boato dei motori. Magari dal piano più alto, io e lui, occhi negli occhi, mano nella mano, a volar giù, abbracciati. Altro che Aricia. Altro che Teseobueoeoeoeoeoeo. Ma al suo matrimonio colla modella, no, non posso andarci. E non posso vederlo in doppio petto, il Sole ventiquattro ore in tasca, il listino di borsa davanti, sul tavolo da lavoro. E l’iscrizione al Rotary dei giovani, magari. Non si occupa più del mio modem. Non mi manda più messaggi. Il mistero tra noi s’è dissolto. Ha dimenticato i suoni che venivano dalla camera da letto, e il suo stare rannicchiato fuori dalla porta. Ora è normale, ora comincia ad ingrassare, anche, e farsi più robusto. Lo vedrò maturare, assomigliare al padre, tradire la modella, puzzare di anni e di rassegnazione. Il mio piccolo fiore non è più un fiore selvaggio. Non andrò alle nozze, no. E non s’è sfracellato sulle rocce liguri. E io non ho osato inventarmi abbracci. Non ho potuto confondere il padre, trascinarlo a gesti senza ritorno. Tutto così quieto, così inutile. Avevo una finestra sul Canal Grande, da bambina. Dormivo d’estate, che parevo Sant’Orsola. Le tende di lino, e la luce azzurra. E Ippo non esisteva ancora. Davanti a me, solo Radiocorriere tv e Tavor adesso. La tata piangerebbe, dicendo che aveva previsto tutto, che così non poteva durare. Fedra non può durare, senza un prete, senza un medico, senza un amante almeno. Senza Ippo. Invece, fra poco, mi lancerò giù, ma solo nella stanza. Basterà sentire la chiave che gira, il suono delle scarpe, e mi preparerò a dirgli il menu dietetico della cena. ‘Cosa fai là su che pari una matta?’ E gli sussurrerò che è niente, che c’era un vetro opaco. Perché non amo le macchie, io. E lui lo sa. Mi preparerò alla notte, e al gelo, chiedendogli della giornata. E a questo silenzio del mondo. Ho distrutto il computer, l’ho lanciato dalla soffitta nel giardino, s’è incastrato tra i rami del pioppo. Adesso scendo. Lui sta tornando. Teseobueobueoeoeoeoeoeoeo. Sì, arrivo, arrivo. Un momentooooooooooo.

Salomè
 

Lavargli i capelli. Lavargli i capelli, innanzitutto. Non è facile andare avanti con quest’odore, per me. Tutta la  grande taverna  invasa. Anche se tengo le finestre spalancate verso il lago e le stelle, è tutto inutile, anche se apro le porte che immettono sulle lavanderie vicine. Da un po’ di giorni, il tanfo arriva anche nel salone d’ingresso e mi sa che arriverà fra poco alle camere da letto, persino alla sala rettangolare delle feste, al tavolo grande di Ceroli, quello di legno e di vetro, che riflette meglio la luna! Enormi topi, nutriti da sacchi di immondizie, sacchi pieni di  carne putrefatte. Ecco, i suoi capelli sono come topi su carni morte. E’ stato un regalo del mio padrino, per alzare l’atmosfera un po’ depressa degli ultimi mesi. In compenso, ho perso l’appetito. Io come gli altri. Mia madre svuota intere boccette di lavanda intorno, ma dalla botola, oltre agli urli disumani di lui, salgono a ondate continue i fumi del suo corpo. Dei suoi escrementi, anche. Dai capelli soprattutto. Come se i capelli filtrassero e moltiplicassero tutti i fetori. Eppure non mi pare il caso di chiuderla, la botola. Ho fatto perfino togliere il coperchio. Il coperchio non c’è più. Sissignore, voglio sentire bene tutti i suoni che il suo corpo, scuro di sangue e di ferite, questo viluppo di stracci e di sterco, manda a offendere le nostre feste. Ogni tanto, passano a vederlo i nostri vicini. La moglie dell’architetto, quello che ha avuto già tre avvisi di garanzia, ne vuole uno anche lei. Tanto per non restare indietro nell’ “up to date”. Mia madre, che pretende sempre tutto   inamidato e in ordine, è un po’ in difficoltà con questo “dono” del generale. Da mia madre ho ereditato  i suoi strani impulsi a migliorare lo stato fisico dei  servi. Ma lui, lo vorrei pulito per altri motivi. Intanto, mi odia e mi disprezza. Si chiama Amman, credo, almeno così c’era scritto sulle carte sequestrate, assieme a disegni e mappe misteriose. Si preparava, assieme ad altri, a fare qualche nuova strage. Magari da noi. Ma lui, comunque, non mi desidera  affatto. Se anche lo trascinassi tra i miei cuscini, tra i copertoni di lana coi colori di Mondrian, tra le pellicce di leopardo stese a terra ai piedi del letto, se mi mostrassi senza la mia biancheria, sciogliendo le trecce e distendendomi nelle pose più febbrili e morbide, lo vedrei immobile, accigliato contro la villa, contro il mio mondo. Sempre a imprecare, a maledire, a parlare di questo folle Dio che non ama  le donne e il lusso. Su di lui, certo, a quest’ora,  stanno ormai vermi e scarafaggi. La sua testa pare quella della Medusa. Ma gli occhi sono neri come la notte, lo vedo da qua, appena lo illumino colle torce e lui allora impreca e grida “Allah akbah!”. Ogni parola inizia colla a, come il suo nome. Le sue braccia, intanto, muscolose, ancora tanto giovani, nonostante le piaghe e le ferite, guizzano nell’ombra, e si sporgono verso la botola. Vorrebbe, certo, afferrarmi, tagliarmi la gola, oppure costringermi a coprire il capo coi loro orribili cenci, col burka come lo chiamano.  Non hanno mai abbracciato una donna, quelle braccia,  non sanno l’amore e le carezze. Con me, con me dovrebbe imparare tutto. “Ma non lo puoi fare con me, caro mio”, questo gli sussurro mentre  urla, appena mi sente sopra di lui, senza guardarmi. Togliermi la faccia, impedirmi di vedere il mio riflesso negli specchi e nelle fontane? Non lo potrei permettere. Questo proprio no. La mia bocca morbida, rafforzata solo da poche punture, a rendere più sinuoso e a forma di bocciolo il  movimento delle labbra quando si incontrano. Il collo dalla pelle di latte grazie a creme continue, e il petto alto e sodo, sostenuto dal silicone, a provocare lo sguardo dei maschi, a renderlo ancor ancor più disarmato e devastato davanti alla sua  pienezza. L’altra sera, mi sono legata, con una doppia corda, alla colonna vicina alla botola. Un  cameriere albanese mi reggeva le caviglie altrimenti potevo cadere giù. Con tutto il busto sono penetrata dentro il buio e l’odore spaventoso che sale dal fondo, per sillabargli  brevi e inutili frasi d’amore. Il fatto è che non voglio nessun altro che non sia lui. Ero tutta eccitata, perché avevo bevuto parecchi bicchieri di fragolino bianco, pensando alle sue braccia. Mi ero persino toccata un po’, mentre la carne grassa e repellente del mio padrino, del generale dico, mi sfiorava coi suoi occhi molli e diabetici. Stavo china sull’abisso della botola, l’albanese mi tratteneva le caviglie. Quello sì che mi desiderava. L’albanese sì che mi invocava. Sentivo le sue  mani forti, che quasi mi supplicavano di dargli qualcosa di mio.  Finirò, prima o poi, col concedergli qualcosa di me, ma sì, magari pensando al mio bel talebano. Intanto il mio padrino, dall’altra parte della sala, mi supplicava di danzare, di fare almeno qualche movimento in  onore del prigioniero, ma venendogli  vicino. Era il suo regalo per me, in fondo, il talebano. Mia madre, alle spalle del vecchio, la faccia sempre congestionata dall’ansia e dai mille pensieri che la attraversano, scuoteva il capo. Ma io volevo star sola con Amman, senza che nessuno mi distraesse. Sì, anche a costo di cascargli sulla testa. Purché i capelli glieli avessero lavati prima. E bene, anche. Ma se quello non accetta di amarmi, se quello non mi sta nemmeno ad ascoltare? Dove se n’è andata  la mia celebra collera? Che ne è del mio orgoglio? Sì, lo so bene che si tratta di un puntiglio, di un puntiglio di ragazza viziata, so bene che non otterrò nulla da questa storia. Ma lui deve, prima o dopo, alzare la testa verso la luce della sala, e così mi scorgerà in tutta la mia freschezza, godrà da di sotto la mia pelle bianca, le mie labbra dischiuse a fender l’aria con baci, la mia voglia di lui a trascinarlo nella mia stanza. Se no, se no, non so ancora, ma qualcosa  farò per quegli occhi neri come la notte. Anche quella volta, lui non mi degnava di uno sguardo, ma continuava a urlare, a sbattere contro le pareti, a invocare Allah, perché mi incinerisse. “Allah non esiste”, ripetevo divertita e esasperata allo stesso tempo, “Allah non esiste, caro il mio bel morettino”. Non è un morettino, però, per essere precisi. Ha la pelle araba, abbronzata dal deserto, e livida ormai per i digiuni e il sudiciume. Ma quando  hanno svestito il suo corpo alto e magro, quando gli hanno strappato tuniche e copricapo, e le tante sciarpe, e cinture, e calzari, quando l’ho visto nudo e inerme, coi riccioli che gli pendevano sul petto, a ricongiungersi colla barba interminabile, ho provato subito l’impulso a lavarlo, come fosse un bambino malato. A raderlo tutto. E’ il regalo del mio padrino americano, di Irod. Mia madre, Erodiade, prima se la faceva con un russo, un funzionario dell’ambasciata a Roma, che passava tutti i week-end qua, a Pordenone. Poi, ha incontrato questo generale texano che stazionava ad Aviano. Aviano è vicina alla nostra villa di Cordenons. Così è stato semplice per il vecchio traslocare da noi, e s’è sistemato ufficialmente in un loft, ossia la bella soffitta, con tanto di ascensore, da cui si vede il mare. Ma Irod ama me, ovviamente. E mi cerca collo sguardo tutte le mattine, mentre col cucchiaio toglie la polpa dal melone, che deve essere poco dolce, se no guai col diabete. Io sono  stanca, stanca degli amanti di mia madre, stanca di prolungare la loro sosta nella nostra villa, inseguendo il miraggio del mio corpo. Per fortuna, c’è stata la storia delle torri, e poi questa  guerra bizzarra. Almeno ci si distrae un po’. Adesso si dorme male, con tutti gli aerei che volano sfiorando quasi i nostri alberi. Ma per me, non cambia niente, tanto sono insonne. L’altra notte, mia madre, che s’è accorta forse della predilezione di Irod per le mie vestagliette aperte (lui pretende io porti sempre queste vestagliette, appena arriva), s’è messa a imprecare nel suo stentato inglese che è stanca di lui, e che la guerra è solo una questione di petrolio, “tutto per sto porco petrolio, this dirty oil”. Questo era il suo pensiero, e poi ha dichiarato, in preda alla gelosia, che era sicura che i veleni, quelle cose là, come l’antrace, ma sì insomma, erano loro, gli americani a spargerli nel mondo, per sostenere le case farmaceutiche in crisi. E Irod allora s’è messo a ridere come un matto, e di gusto. Ma Erodiade era arrabbiata, non scherzava per niente. L’ho capito perché a un certo punto s’è messa a piagnucolare col suo italiano intinto nel veneto acquoso di questa zona. Ma il regalo che m’ha fatto, il talebano prigioniero (qualcosa devono pure ottenere da questa guerra che combattono da mesi e mesi) ha scombussolato la mia vita. Prima c’erano le feste collo spinello, le corse colla mia Ferrari di notte senza tenere il volante, a sentire i morsi dei rami sulla mia faccia, il buio della corsa, prima c’erano le angosce e i pensieri strani di farla finita. Anche la guerra mi fa comodo, per certi versi. Se questo Bin, il padrone del mio Amman, riesce davvero a trovare la bombetta, zac, tutto finito e non se ne parla più. Basta, perché s’è vissuto anche troppo. No? Per ora c’è lui, come diversivo, il mio bel talibano. Pare che ormai molti americani se li portino a casa, prigionieri. Li danno per missing, e invece se li trascinano come trofei in famiglia. Cosa ne facciano, non è chiaro. Ma questo qua, era uno dei capi, credo. Dunque, ha più valore, è costato di più. Ho sfogliato foto di guerra. Quando loro sono a cavallo, su per le montagne, il fucile a tracolla, il mantello che vola in alto come una farfalla, il copricapo che li rende ancor più nobili, ebbene sì, è così diverso dai miei palestrati, dai miei aspiranti sposi, col loro cellulare e col p.c. portatile, la gazzetta sportiva o il Sole ventiquattro ore, nel migliore dei casi, sotto il braccio.  Ne ho ben tre di consulenti finanziari, che vestono allo stesso modo, e hanno la faccia vuota come un bidet ripulito, nutrita di vitamine e di integratori. La pelle rossa per lampade e carota, la cravatta quasi sul collo, tant’è grande, e le mani che faticano a star ferme, non appena li saluto. No, l’immagine del mio talebano, del mio Amman (chissà perché mi vien l’uzzola di chiamarlo Johannes), è tanto più austera e misteriosa. Abitava terre lontane, quattro vecchie mura sospese su deserti e valli con poca acqua, nessuna piscina da loro, nessuna serra con pompe irriganti  che mandano di continuo i loro miti zampilli. No, solo un’infinita, brutale, esaltante desolazione. Bambini luridi che piangono, e lui magari era così, solo qualche anno fa, e vecchie e giovani donne annullate ed eguagliate dal burka, mentre  sfiorano le porte cadenti delle case bombardate, a cercare qualcosa. Oh, essere anche se per poco, magari una settimana, una delle  schiave di costoro, del mio talebano, del mio Johannes, una del suo clan! Esaltarmi ad essere trattata come una lurida serva, assieme alle altre, essere scelta magari il lunedì. Il lunedì sarebbe il mio giorno. Tocca a me, di lunedì. Ovviamente, si accorgerà, tolte bende e stracci, della differenza della mia pelle, del mio odore, del mio sguardo di fuoco. Oh,  che sogno languido! Per una settimana abbruttirmi sotto di lui. Non averlo giù nella botola, tanto non so che farmene, tanto non sa che farsene della strana signorina che lo spia dall’alto. No, essere in groppa al suo cavallo, che pare Lawrence d’Arabia, e stargli dietro, stringerlo mentre mi porta tra le dune, come l’eroina del Tè nel deserto. “If you like, Salomè, I’ll kill him”, m’ha spiegato Irod, ieri sera mentre l’ho scorto nel parco che faceva gli esercizi addominali, per restare in forma. Ma ha poco da smagrire quello, coi cabernet e i pinot ghiacciati che Erodiade gli fa trovare pronti al suo arrivo, ad ogni tramonto. Quando s’alza la luna, Irod è già bello ubriaco. Mi ha spiegato, in ogni caso, che questi doni si possono benissimo far fuori, come si divertono a fare ogni tanto negli States, durante i rallys, tanto nessuno saprà mai niente. Ma questo talibano non è come l’operaio kosovaro che si é buttato giù dal ponteggio una settimana fa, di prima mattina, per amore dei miei occhi. Continuava a fissarmi con una voglia terribile, l’ho capito subito, e io allora ho risposto. Avevo bisogno di un diversivo. Lo guardavo, sorridevo, e ho visto quel ragazzo che se ne stava a torso nudo, impegnato a sostituire tegole del tetto senza cintura, perché Erodiade non vuole imprese edili "rompiballe". E l’operaietto che non aveva mai visto una donna nuda, sì, ero nuda in terrazza a prendere il sole, lanciava sguardi supplichevoli, quasi un lamento dai suoi occhi, usciva. Era divertente, era eccitante. Io pensavo al mio talibano di sotto, che si girava nella botola e ogni volta lanciava maledizioni al nostro mondo, e intanto lasciavo che il kosovaro colle mani piene di tegole mi divorasse da lontano. Poi, alla fine, com’era naturale, ha dovuto precipitare in basso. E’ morto all’istante. Peccato, perché aveva una bella faccia, col naso schiacciato da pugile. La religione di Amman e dell’operaio, paiono eguali. Solo questione di intensità d’odio. Stasera, però, qualcosa dovrò pure organizzare. Perché così non vado avanti. La noia ricomincia. E se mi annoio, io, sono capace di tutto. Altro che far cascare uno stupido muratore. Attento Johannes, che la mia pazienza non è eterna. Quando danzo, se fuori c’è la luna piena poi, quando danzo, non so davvero come finirà per te. Ma cos’ha questa gente oggi? Perché queste facce da funerale? Che brutte facce! Cosa avete voi? Qualcosa che non va? Eh? Faccio confusione tra arabi ed ebrei, per caso? Tanto, cosa cambia? A questo punto, poi. Ma che faccia avete, gente? Vi siete visti? Ma chi è morto oggi? Tanto, è tutto lo stesso. E io ho pure mal di testa.


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