Non
si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno,
Dialettica
dell'illuminismo
Rivisitazioni,
traduzioni, manipolazioni
Redazione
Sergio Audano,
Gianni Caccia,
Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola,
Lorenzo Fort, Letizia Lanza
Paolo
Puppa
Scheda
biobibliografica
|
Fedra
2003
Salomè
Crono
e Ganimede
Rivisitazioni
sofoclee
Nuove
figure femminili
Donna-uomo-donna
Fedra
2003
Fedra
è seduta davanti ad un tavolino col computer acceso.
Tutto
il giorno davanti all’email. Mi ha insegnato lui, a usarlo.
‘Così
potremo comunicare, anche da lontano’, gli ho proposto. Riuscivo anche
a sorridergli senza fatica, l’anno scorso. A guardarlo negli occhi. Lui
ha fatto finta di niente e mi ha mostrato i tasti, colla solita faccia
severa. Mi ha pure lasciato le spiegazioni necessarie. Come accendere
il
modem, ad esempio. Cosa vuol dire modem, poi? Mah. Come tenerlo caldo,
senza spegnerlo, perché altrimenti il cervello rischia di
scoppiare.
Ma è il cuore che mi scoppia a me, altro che il modem. Altro che
storie. Questo è il foglietto, colla sua scrittura. Non si
capisce
molto. Ha scritto in fretta. Pensava ad altro. Non sa che per me questa
è una vera reliquia. Perché i tasti, questi tasti, sono
stati
sfiorati dalle sue piccole dita, rami nascosti nell’ombra. Sto
diventando
pazza. Mi salvo ormai solo se lo ricordo bambino, quando era
niente
per me, uno sgorbio che piangeva di notte e mi toglieva sonno e marito.
Teseo era sempre agitato per colpa sua. Quasi si vergognava di dormire
con me, lasciandolo al buio. E io ero persino gelosa! Si cambia
nel
tempo, già! A volte si trascinava verso la porta della nostra
camera
da letto, e batteva con un tocco leggero. Univa a quel rumore una
specie
di nenia, un pianto sempre identico, ehehehehehe
heheheeheheheheheheheh,
voleva manifestarci il suo dolore. Pareva un cane fedele. Voleva stare
tra noi, nel letto Ma non doveva scambiarmi con sua madre. Ero
imbarazzata,
all’inizio. C’era l’odore di quella donna, negli armadi. Dappertutto.
Di
Antiope, la padrona delle palestre più ‘in’ di Udine. E suoi
ritratti
dappertutto. Lo spazio mi ricordava che io non ero nessuno. Lo odiavo,
nei primi mesi, quel fagotto scalzo di stracci, sempre sporco. C’era la
mia tata, c’era Enone, per pensarci. Io ero giovane e inquieta. E
mi
domandavo perché ero entrata in questa casa troppo grande per
due,
troppo angusta per tre, se il terzo non apparteneva a me. Volevo avere
un figlio, o una figlia, da Teseo. Un figlio avrebbe risolto tutto. Ma
Teseo non mi ha donato carne sua, a me, non mi ha allargato la vita, a
distrarmi. ‘Non puoi star tutto il giorno davanti alla De Filippi’,
m’ha
detto l’anno scorso, illuminato da progetti, gravido di futuro. ‘Un po’
di volontariato, piuttosto, se non sai cosa fare’. Ma fare cosa?
Giocare
a bridge? Le cene al Rotary? In mezzo ai nuovi ricchi? Gli
industrialetti
e le loro amichette? La società che conta? Volontariato negli
ospedali?
Questo, m’ha sussurrato. Si prende cura di me, in fondo. Alla fine, mi
ha insegnato a usare l’email. Ma non ho nessuno con cui comunicare. Ho
paura, anche, di conoscere gente strana nello schermo. Strana come me.
Così, ho cominciato a scrivergli in caserma, quand’era militare.
A raccontargli la mia orribile esistenza. E di mio fratello folle, il
Minotauro.
Tutta. Lui non ha mai risposto, ovvio. A un tratto, quand’ero
rassegnata,
messaggi brevi e disimpegnati. ‘Come sta la mia matrigna preferita?’, e
i miei occhi si arrossavano subito. All’alba, accendevo il modem,
affamata
di cenni, di frasi sue, come una mendicante. Poi mi gettavo sui tasti e
creavo di getto lettere su lettere, per ore, che poi cancellavo. Dopo
tanti
abbozzi, gli mandavo solo un breve saluto, raffreddato. Ma le prime
frasi
erano sempre imbrattate d’amore. Se avesse letto le prime stesure,
avrebbe
capito. Anche se forse aveva intuito tutto, lo stesso, Ippolito. Ogni
mattina,
lo accendo, e aspetto. Così passo la mia giornata. Buffo,
no?
2)
Fedra
è a letto. Al suo fianco dorme Teseo. Lei sussurra sogghignando
le battute che seguono, per non svegliarlo.
Teseo
bueo. Teseo bueo. Teseo bueoeoeoeoeoeoeoeoeoeo. Ta morti cani. Ostia
vacaaaaaaaaaaaaa.
Con mia sorella Arianna, già, questo cantavamo sottovoce, dopo
il
suo ingresso nella nostra vita. Era la tata Enone che ci insegnava le
parolacce.
Perché le signorine per bene dovevano conoscerle. Dovevano
conoscere
tutto della vita per difendersi meglio dai giovanotti. E quando il
giovanotto
è entrato a casa nostra, ci nascondevamo sotto il tavolo a dire
queste preghiere: Teseobueo, Teseobueoeoeoeoeoeoeoeoeoeoeoeoeo. Le
ripetevamo,
travestite da serve, per far ridere il fratello, l’handicappato.
Minotauro. Brutta fine, già, ha fatto quello là.
Che
fa pure rima. Teseo non ha voluto darmi un figlio. Temeva che
fosse
ereditaria, la testa da idrocefalo. Povero fesso. Se era colpa di un
gatto!
Tanto Teseo non sa, non sa niente, mai niente sa, quello là. Lui
non sa, lui non sa nemmeno a cosa penso da un po’, quando mi viene
sopra.
S’è solo meravigliato che da qualche tempo muovo anch’io il
corpo,
da sotto. Tutto il corpo. Ma lui non sa. Lui non si rende mai conto.
Idiota.
Quand’ero una ragazzina, credevo di amarlo. Se penso, se penso. Come ho
fatto? Guardalo là, soddisfatto, pasciuto, al caldo.
Chissà
a cosa sta sognando? Rivede magari quella troia di Antiope? La regina
degli
steps e delle cyclettes. S’è beccata un ictus, poverina, mentre
dava una bella dimostrazione ai clienti su come si sollevano gli
attrezzi
per irrobustire l’addome. Op, op, op, e tracchete. Eh, eh, eh,
eheheheheheheheheheheh.
Ben le sta, a quella gran troia. Quella vacca. Lui non sa cosa immagina
la sua piccola Fedra mentre la sbatte in tre minuti, minuti tre, o
forse
anche meno. ‘La mia ragazzza, mi torna fanciulla per caso?’ Oppure ‘Ti
piace ancora il mio grande uccello?’ Adesso è tutto fiero di
sé.
Ci trova gusto, di nuovo. E spande subito, il porco. Così, io
non
riesco a mettere a posto la figura, come voglio. E resto come
un’ebete,
dopo. Ebete e piena di freddo, dopo. Vorrei che, vorrei che, vorrei
che.
Se morisse? Se facesse anche lui il suo bell’ictus, mentre si allena
per
‘bloccare la pancia sul nascere’. ‘Questi sono muscoli, tasta qua,
tasta
qua, senti che roba, a cinquantotto anni!’ Si sente un ragazzino, e si
tinge i capelli, col lucido da scarpe, e si lava troppo. Il buchino
pieno
di borotalco. Deve avere una nuova ganza da qualche parte. Altre troie.
Sono tutte troie, le donne che conosce. Ma proprio tutte. Teseo bueo,
Teseo
bueo. Teseobueoteseobueoteseobueoeoeoeoeoeoeoeo. Ormai parlo come un
facchino.
Colpa sua. Delle sue grandi mani rosse, rosse come il mestruo. Sangue
dappertutto.
Le mutande sempre sporche, invece, come la sua anima. Come il suo
cuore.
Inzacchera tutto, lui. Quello che tocca, diventa merda. Si lava sempre,
e lascia intorno biancheria lurida. I pigiami, poi. I pigiami.
Odore
di cacca. Il suo buco che non tace mai, di notte. Sequestrata dalla sua
puzza, dai suoi fiati. Ippo, invece, è fresco, e la sua pelle sa
di limone. Una bouganville, mi pare, quando mi passa accanto
silenzioso.
Una bouganville persa nell’azzurro del cielo. Magari col mare
vicino.
Il mio fiore silenzioso. Ha dita sottili, bianchi fili di ragno. Farmi
accarezzare da questi fili. Una volta almeno nella vita. Lui è
qua,
ora, vicino a me, e mi prega di star buona, di dormire. Perché
quando
mi accuccio, quando mi stringo le cosce e lo invoco, lui mi parla nel
buio,
e mi porta pace e gioia. E io gli succhio a lungo l’affare, il mio
succo
degli dei, me lo succhio cogli occhi dilatati nel buio, la bocca
chiusa,
ma sento, sento che mi entra dentro questo succo, la mia rugiada, la
mia
primavera, e i nervi si distendono, alla fine. Anche se non c’è,
non mi importa niente. Succhio lo stesso, e poi non capisco più
se ho sognato o ho succhiato davvero. Già. Così, torno
una
signora elegante, dolce, che non dice parolacce, che non fa brutti
gesti
o sconcezze per umiliarsi, come una volta, quando avevamo le posate
firmate,
a casa mia, e chenzie dappertutto, e tappeti sulle scale. Quando ancora
non conoscevo il bestione, che m’ha rovinato la vita. Teseobueo.
Teseobueoteseobueoeoeoeoeoeoeoeoeo.
3)
Fedra
si dà lo smalto sulle unghie.
Pensare
a quando non lo conoscevo. Oppure, a quando lo conoscevo e mi stava
antipatico.
Non appena mi vien da piangere e da gridare, guardo le sue foto da
piccolo.
Così penso al tempo che lavora come un medico. Almeno
così
dicono. C’erano mattine che mi levavo e mi arrabbiavo a vederlo
saltellare
nelle braghette azzurre, coi calzini bianchi. C’è stato un
momento,
nella mia vita, che aspettavo con ansia il giorno che sarebbe cresciuto
e avrebbe finito di rovinarmi l’esistenza. Allora, mi ripetevo, se
questo
è stato alle mie spalle, può darsi che verrà un
futuro
che mi passa tutto, che mi passa sto mattesso. Magari raddoppiando il
Tavor
di notte, magari facendo scorta di fragolino. Col fragolino, fragolin,
eheheheheheheheheh, mi vien da ridere, sempre. Enone mi serve il
bicchiere
pieno, complice e golosa, perché così beve anche lei. Lei
sa tutto, lei che l’ha tirato su e l’ha protetto dai miei nervi,
all’inizio.
Ma ci sono foto che mi fan girar la testa. Meglio evitarle, di giorno.
Quella in spiaggia, coll’ombra di peluria sulle guance pallide, e il
costume
blu e tutte le leggere sporgenze, l’ombra del ventre, e le braccia non
muscolose come quelle del padre, ma disarmate e indifese. Anche col
costume
bianco. O quella di profilo, la camicia a scacchi e il gilet in cima
alla
montagna. Sempre solo, in queste foto. Senza amici, senza ragazze. Sta
con tutti, sta con nessuno. Aspetta qualcosa. Ma cosa? E’ questa attesa
che mi fa paura. Quando mi guarda cogli occhi severi, le rughe sulla
fronte,
cosa vede in me? Spero solo che odi suo padre come l’odio io. Che si
renda
conto di tante cose. Che abbia perdonato. Perché io avrei dovuto
essere sua, non di suo padre. Potrebbe essermi figlio? Non esageriamo,
adesso. In Africa, potrebbe essere, o colle mulatte e i pigmei. O al
massimo
in qualche paese di mafia. Ma da noi, sedici anni non bastano. Sedici
anni
sono pochi. E poi lui crede che siano quattordici gli anni di distanza.
Me ne tolgo due, da un po’ di tempo. Gli preparo un bel minestrone. Se
per caso viene, mangia qualcosa che gli fa bene, non la solita pizza
dei
militari. La preparo, e la nascondo col celophane nel freezer. Se no
il
porco, quando si sveglia, la trova. Lui il frigo lo passa in rassegna
reparto
per reparto, ma il freezer no. Quello non lo controlla. Ha paura del
freezer,
il porco. Guai se mangia il minestrone. Con lui, tutto si riduce a
merda.
Subito. Neanche il tempo di buttarlo giù.
4)
Fedra
spia alla finestra, dietro una tenda.
Guardali
là, che trafficano col portabagagli. Appena arrivato, solo una
notte,
e già riparte. E il padre che non lo trattiene. Ma come? Viene
tuo
figlio e manco insisti per. Questa casa gli scotta, mah. Ho aspettato
quasi
due mesi, senza mai un segnale. Una telefonata, una mail, una
cartolina.
Macché. Ma scherziamo? Poi eccolo qua, finito il servizio
militare,
ieri sera suona alla porta, la tata vien dentro tutta rossa e mi
stringe
il braccio e allora capisco e mi precipito verso la sala d’ingresso e
vorrei
saltargli in groppa, ma non si può. Mi controllo e gli dico:
’Era
ora, beato chi non muore’, e lui nemmeno risponde e chiede di suo
padre.
E poi si ritirano in salotto, e fanno capire che vogliono restare soli.
Una confidenza, e voci basse. Cosa non dovevo sapere, io? Cosa sono
questi
segreti? Ho pregato la tata, quella ruffiana di Enone, di provare a
informarsi.
Macché. Niente da fare. Si può sapere cosa sta
succedendo?
C’è qualcuno che vuole dirmi cosa cazzo succede in questa casa?
Entra, non saluta, cerca il babbino, e quello che sta pensando alle sue
ganze, e non ha nessuna voglia di parlare col figlio, quello si mette a
recitare la commedia del pappino in salotto, etcetera. ‘Portaci un
caffè
decafeinato’. E io gliene ho preparato uno fortissimo, invece,
così
impara. Almeno non dorme subito e scoreggia di meno, se non sogna. Io
non
devo sapere niente. Mai. Come se non ci fossi. L’estranea. Sempre stata
un’estranea. La veneziana. La donna della laguna. Fedra che vien da
Venezia.
Allevata in collegio, col fratello idrocefalo e la sorella un po’
isterica.
Lui prima le seduce e poi va in giro a dire che son matte. Così
le lascia prima. Arianna, guarda che fine ha fatto anche lei. Anche con
me vorrebbe fare lo stesso. Ma con me non ce la fa. Io sto zitta, io mi
controllo col Tavor e il fragolino, ma guardo e cerco di capire. ‘Quel
puttanone di vostra madre’, così mi fa un giorno. E io zitta.
No,
non reagisco subito, io. Ma non dimentico. Non è giusto,
però.
Io che lo aspetto come Gesù salvatore, il ragazzo, e lui non mi
degna neanche d’un ciao. Almeno ‘Come va, vecchia mia? Invece niente,
invece
‘Dov’è mio padre?’ Roba da matti. E adesso il pappino sta
caricando
l’auto con tutte le provviste, così non deve tornare. Guarda
guarda,
anche il salame ungherese che gli piace tanto, al panzone. Così
se ne sta fuori dalle palle per qualche mese, no, il ragazzo? Furbo
lui.
E io, e io allora? Cosa ci sto a fare a questo mondo?
5)
Fedra
è in camicia da notte, sprofondata in una frau nel salotto.
Penombra.
Giuro,
giuro. E’ stata l’ultima volta. Non lo farò più. Tanto
lui.
Tanto lui, nemmeno si accorge di me. La luce arriva prima, adesso.
Ricomincia
la primavera. Ogni anno. Torna questa pazzia delle foglie e dei frutti.
Fuori il giardino ricomincia a fremere, e in giro queste ragazze colla
pancia. Io niente. Io niente. Io niente. Meglio così. Teseo in
questo
almeno è stato lucido. Niente gonfiori per me. Ogni mese questo
sangue mi vien giù, inutile. Tutto questo sangue per il niente
che
è la mia vita. E intanto mi tocco. Se lui è lontano,
posso
pensare all’altro. In pace. Mi resta almeno questo. Ma non lo
farò
più. E’ una cosa ridicola. Una cosa da collegio di suore. E qui
siamo in terra pagana, nella terra del danè. Solo gente ricca.
Guai
ai poveri, per Teseobueo. Qui non ha senso aver rimorsi, neanche con se
stessi. Fuori sta uscendo la luce, tanto ormai non dormo più.
Questa
volta l’ho baciato tutto, a partire dall’ombelico. Sono venuta,
pensando
ai suoi occhi sottili, e alle mani magre e pallide. Lui mi
stringeva
colle dita come rami, e io ero il suo albero. Sono venuta quando ho
visto
così chiaro e così bene i suoi occhi chiudersi durante il
piacere. Ho anche sentito la sua voce farsi piccina, da bambina quasi.
Il padre, invece, quando mi viene sopra, tic tac, mi gira come un
salame.
Un tempo non riuscivo a, un tempo non riuscivo a. Perché anch’io
gridavo. Questo è l’orrore, questa la vera colpa. Non
quando
mi tocco, ma quando urlavo tra le sue braccia. Quando gridavo davvero,
sotto il porco. E magari Ippo m’ha sentito. Sì, magari m’ha
sentito.
Ecco, ecco perché mi evita. Chiaro. Ecco perché non mi
scrive.
Ecco perché non mi manda messaggi colla mail. Cosa gli
costerebbe?
Perché mi ha insegnato a usarla? Perché me l’ha
insegnato,
se no? Se non voleva comunicare con me? Perché? Lui ha sentito i
miei ululati. Già, ululavo una volta. Suoni tremendi. Piacere
tremendo.
Volevo anche fargli dimenticare la palestrata, al maiale. Donna
Antiope,
la signora del gym. Una volta, mentre si avvoltolava su di me, gli
è
scappato il suo nome dalla bocca, e io mi sono messa a ridere.
Già.
Ma la natura. E’ naturale, la natura, no? Come al cesso. Natura
tremenda.
L’odore del corpo. Natura oscena. Mangi e poi diventi cacca. Provi una
bella emozione e poi gridi come una matta. Ma adesso non grido
più.
Mi tengo tutto dentro. Quando mi vien sopra, il maiale, ho imparato a
tacere.
Sono tornata una signora. ‘Quella troia di tua madre’, ha continuato a
sparlare di mia madre, ‘quella gran troia’. Già. ‘E allora tua
madre?
Quella gran troia’. Se mio padre era diventato impotente, cosa poteva
fare,
lei? La povera signora Pasifae. E poi lei ha avuto un solo uomo, dopo,
non tutte le ganze come il maiale. Ma quando mi tocco, e penso a Ippo,
mi ficco in bocca il fazzoletto, così non grido. Tanto non lo
farò
più. Ma a chi parlo, io? A chi prometto questo più
più
più. Vecchia scema. Menopausa bigotta, fra poco questo sangue
inutile
si asciugherà tutto. Dio non esiste. Non esiste niente oltre a
questo
corpo. Solo cacca, c’è. E sangue inutile, ancora per un
po’.
6)
Fedra
in salotto, davanti al televisore. Armeggia col telecomando.
Non
può essere suo figlio. Ippo non è, non è. Chiaro.
Troppo diverso. Antiope non l’ha fatto con lui. Anche lei una troia,
allora.
Anche lei una troia, allora? Già. Siamo tutte troie, per lui.
Basta
ficcarcelo dentro, e cominciamo a gridare. Ma io non grido più,
tanto. No, caro mio, io non grido più. Te, le mie urla, non le
sentirai
più. Piuttosto mi stacco le corde. E mi ci impicco. Appesa alle
due corde, eh, eh. Come a piazza Loreto. Che ti ci impiccherei io,
là,
coi fascisti come te. Maledetto fascista. Ma se è tuo figlio,
perché
ha le mani sottili, le dita piccole? Come rami pallidi. Fanciullo
insonne.
Bimbo di luna. Bambino mio, vieni qua, cosa aspetti? Perché non
mi scrivi mai? ‘Non startene là come una scema. E’ quello che
vuole
lui. Reagisci’. Questo m’ha detto, un giorno. Una delle poche volte che
m’ha parlato. E non mi guardava in faccia. Anch’io non osavo guardarlo
in faccia, ormai, per non saltargli addosso. Anche lui non mi guardava
in faccia, mai. Che buffi. Si parlava del più e del meno. Meno,
meno, meno, figliolo. E mai guardarsi negli occhi. ‘Fa del
volontariato,
piuttosto’. Ma volontariato con chi? Andare negli ospedali a pulire il
culo alle vecchie? Ma se sarò anch’io, una vecchia, fra poco. A
imparare quale sarà il mio futuro prossimo? Ma non può
essere
suo figlio. Quanta pubblicità! Quanto pubblicità fanno,
queste
canaglie. Tanto non compro niente, io. Anzi, dirò alla tata, a
Enone,
di cancellare i prodotti Mediaset. Teseobueo frequenta il partito.
Tanto
per non restare escluso. Può essere suo figlio, se è di
sinistra?
Se vota a sinistra? Se non frequenta gli industriali? Se non entra mai
in azienda? Se se ne frega dei soldi? Se odia Berlusconi. Vota mica
Berlusconi,
lui, come il porco. Se non gli piacciono le donne. No, caro mio, questa
Aricia non esiste. Cos’è sta storia di Aricia? Mi fa ‘Adesso che
s’è innamorato, mi diventa normale, il frocio’. Questo dice il
padre,
di lui. Ma non è frocio, Ippo. Non è frocio, quello. Lo
capisco
bene, io. Una donna se ne accorge, lo sente a pelle. No, caro, non
è
frocio. Ma questa Aricia non esiste, non può esistere. Se
avrà
una donna, quella sono solo io. Ippo, Ippo, se gridavo quelle volte che
piangevi dietro la porta, era perché il tuo babbo, diciamo pure
babbo per ora, mi faceva male, mi bastonava. Non erano urla di piacere,
ma urla di dolore. Mi faceva male, il porco. Che poi era anche vero,
all’inizio.
Che male, la prima volta. Perché Ippo non salta addosso alle
donne,
come il padre. Il presunto padre, diciamo pure padre. La madre
l’avrà
fatto con qualche cliente della palestra. Qualche intellettuale. Magari
un inglese sottile come un asparago. Mai detta una parolaccia, lui. E
nessun
odore, nessun odore nella sua stanza. Non è suo padre, il
maiale.
Ecco perché quando lo vede arrivare in casa, non vede l’ora che
se ne vada. Quant’è falso, colla sua gentilezza! Tutte vinte,
gliele
dà. Pur di farlo ripartire subito. Fuori dalle palle. A casa
mia,
non voglio rompicoglioni. Dunque, non è tuo figlio, e tu lo sai.
Lo sai, lo sai, lo sai, vecchio maiale. Teseobueo, Teseobueo,
Teseobueoeoeoeoeoeoeo.
Ma se non è suo figlio, non è più incesto allora.
Saremmo io e lui una bella coppia. Signora ancor piacente, che fa
volontariato
e non guarda più la De Filippi, che non si tocca più, ama
riamata un giovane elegante, aitante e magro, bastardo di qualche lord
inglese (io, che son nobile, li riconosco a naso i nobili inglesi), di
qualche anno più giovane. Potremmo andarcene a vivere in qualche
isola irlandese. E mi studio anch’io la lingua, allora. Te lo giuro,
Ippo.
Ippo o Aippo? Quante coppie a teatro o al cinema hanno una differenza
d’età.
Potrei essere una star, e un marito giovane sarebbe normale, no?
7)
Fedra,
a tavola, servita dalla cameriera, parla al marito Teseo.
Cos’è
questa storia della ragazza? Come si chiama, poi? Ah sì, Aricia.
Che nomi vanno a tirar fuori. No, non ho voglia di insalata, grazie.
Insista
piuttosto con mio marito. E dove l’avrebbe conosciuta? Ah, quella che.
L’anno scorso, già. Dove faceva il militare. Sì,
sì,
me la ricordo bene. Mangiaaaa l’insalata che ti fa bene. Ti ingozzi col
pane bianco. Sai che ti fa male, il pane bianco. Non pensare a me, che
sono in peso forma. Se ti fa male il pane bianco. Sei arrivato a
ordinarlo
in cucina. Cosa ti ha detto il medico? ‘Pane integrale, sopratutto,
pane
integrale’. Non ti ricordi cosa ti ha detto il medico? Cosa? No,
non stasera. Tutto, ma non stasera. Non mi diverto. Lo sai che non mi
diverto
alle cene. Vacci tu. E’ te che vogliono. Cosa vengo a fare? Non gioco a
bridge, non gioco a canasta. Non sono amici miei, poi. Va bene,
non
ho amici, io. Va bene, va bene. E’ tutto o.k., non importa. Tanto,
è
tutto lo stesso. Amici, non amici. Amici, non amici. Siamo soli lo
stesso,
no? Ci vai da solo, colle tue donne, no? Sì, per favore, ma per
favore. Ma non è un problema. Non parliamo di stupidaggini, se
possibile.
Ti ho fatto preparare il dolce senza zucchero. Te l’ho preparato io,
formaggio
colle pere e il miele. Una ricetta sarda. AH, questo ha detto
l’ingegnere?
Ma dai? Ha detto questo? E l’avvocato? Bella gente frequenti!
Sì,
proprio che gente! E poi ci vai alle loro cene. E ti ingozzi e ti viene
la pancia. Una pancia così chiama l’infarto, lo sai vero? Questo
non ti fa male, ti assicuro. Puoi prendere anche due fette, se vuoi. Io
perdo la giornata a farti un cibo leggero, e poi vai alle cene e ti
ingozzi.
E bevi anche. Guarda che bevi tanto, da un po’ di tempo. Lo sai che
bevi
tanto, te? Ah, te l’ha detto lui che vuol sposarla, la ragazzina? Cosa
ci troverà, poi? Mah. Una che si chiama Aricia, cosa può
dargli? E’ ricca? Ah, almeno questo. Tu poi, purché stia fuori
dalle
palle, dalle tue palle, vero? Io? Sei pazzo? No che non lo odio? Per
me,
che si sposi, che non si sposi, che venga a trovarci, che stia fuori
dalle
palle, è tutto lo stesso. Questa vita fa schifo, no? E allora?
Non
sono mica malata, io. No, caro, non sono via di testa. No, niente
analisti
con me. Vai tu a farti strizzare il cervello se vuoi, che stai dietro
alle
ragazzine, colla pancia da infarto che ti ritrovi. E lascia stare la
mia
famiglia, per favore. Non è anda, oggi.
8)
Fedra
è di nuovo davanti al computer acceso.
Mi
ha scritto qualcosa, alla fine. Capirai, che sforzo. Due righe, proprio
due righe. Apro questo schermo ogni mattina, ogni notte, e aspetto.
Neanche
fosse un morto. Una seduta spiritica mi pare questa carcassa. Aspetto
una
frase un rigo appena. E invece mai niente. Adesso che si fidanza,
adesso
che ha trovato il grande amore, il signorino si scioglie, e mi manda i
suoi saluti dalla Liguria. Il sentiero dell’amore, mano in mano colla
modella,
Aricia la modella. Dalle gambe flessuose di modella. E io cosa sono ai
suoi occhi? Una merda, vero? Avevo scritto, l’altra notte, dopo due
Tavor
inutili e un pacchetto di sigarette Club leggera che nuoce gravemente
alla
salute, una lettera patetica. Il pigiamino azzurro da adolescente, di
lana
azzurra, e l’odore della sua cameretta quando se ne era andato a
scuola,
e io entravo come una ladra a bermi quell’odore di vita piccola, e mi
afferravo
quel pigiama ancora sudato del suo corpo solo, senza madre, senza
donna,
col padre impegnato nei consigli di amministrazione e colle ganze, e mi
mettevo a piangere. Confessavo la mia tenerezza di mamma mancata,
stretta
al pigiamino, che lo sognavo ogni notte, che sapevo i suoi drammi, che
tutto passava, che il tempo era un gran dottore, e che presto si
sarebbe
ritrovato. E che io ero là, sempre disponibile, ad aiutarlo a
trovarsi.
Avevo cancellato tutto, naturalmente. Ed era partito solo un “Spero
tutto
bene in questa vacanza”. Ho cancellato anche il postscritto: “Trovati
una
brava ragazza davvero, e vedrai che tutto si risolve, prima o poi. Una
brava ragazza, non una modella ricca”. ‘Così impari anche
un po’ di inglese e stai meno davanti alla De Filippi’. Ma là,
caro
mio, io piango quando quella gente finta si mette a piangere. Piangono
per finta, lo so, è tutto finto là dentro. Ma sono finta
anch’io, no? Io che non piango mai, che mi controllo sempre, che vorrei
piangere e gridare, e morire un po’ tra le sue braccia. Che darei la
vita
per un suo sorriso. Se mi guardasse negli occhi per una volta sola, se
avessi il coraggio di costringerlo a rispondere al mio sguardo malato
di
lui. E invece “Buone vacanze”. E così adesso mi informa, il
ragazzo,
che sta facendo surf sulle coste liguri. Avevo giurato un minuto
fa che avrei ignorato questo messaggio stitico. E invece gli rispondo
subito,
come una cagna affamata. Magari lo pregherò di stare attento
alle
onde. Perché è pericoloso. Cos’è questa mania del
surf? Che magari va a schiantarsi sulle rocce, che gli starebbe anche
bene.
Una modella! Lui che non amava le ragazze! Lui che cercava la sua
strada.
E un anno la crisi religiosa, e l’anno dopo gli ambientalisti, e poi
medicina
senza frontiere, che io sognavo, sognavo. La mia vendetta doveva essere
il ragazzo. Teseobueoeoeoeoeoeo mi fa l’altra sera, che volevo
morire:
‘Cosa avevo detto? Erano tutte cazzate’. Vedere suo padre contento,
è
troppo per me. Perché potrà sorridere al circolo,
sì
sorriderà fiero, e alle cene mostrerà le foto della
modella.
Un figlio tutto normale, finalmente. Già, io speravo che mi
vendicasse
in qualche modo. Ora il padre è tutto fiero del figlio.
Comunque,
ecco qua: ‘Caro Ippo, mi fa molto piacere saperti finalmente realizzato
sul piano affettivo. Ora non resta che finire gli studi, e poi il tuo
papà
sarà…’.
9)
Fedra
si sta struccando davanti alla specchierina della toiletta in camera da
letto.
Un’altra
giornata andata. Senza amore. Fra poco a nanna. Coperte di ghiaccio.
Lui
rientrerà di notte, stanco di consigli di amministrazione, di
ragionieri
e di grafici e di scopate. Lo sentirò ronfare e tutto il resto,
e starò immobile pensando ad un altro giorno perso, un altro
giorno
che muore, e un altro che arriva, inutile. E il figlio è anche
passato
oggi, di corsa, a prendere abiti puliti e biancheria, tanta biancheria.
Ora viaggia con molti bagagli. Un tempo gli bastava uno zainetto. E le
sue utopie. Ma adesso c’è la fanciulla ereditiera. La modella.
E’
venuta in salotto Enone, il viso di fuoco. Lei sa e tace. Mi ha
guardato,
ha sorriso, ha scosso la testa. E io ho detto che volevo guardarmi il
film
in pace. Cosa dovevo dirgli, al ragazzo. “Quando me la fai conoscere?”.
No, impossibile. Ho sibilato “Va via, va via. Non voglio vedere
nessuno”,
e lei ha bestemmiato ed è tornata in cucina. Per carità.
Cosa vogliono da me quei due là? Padre e figlio, uniti nel
rovinarmi
la vita. Prima il vecchio che mi prende che ero quasi una bambina, e mi
porta via dalla mia Venezia, dal mio campiello. Le fondamente piene di
luce stanca, verso la primavera. E quando scende l’estate, la
malinconia
che mi prendeva dappertutto. E me ne stavo nel mio letto, le lenzuola
di
lino, a sognare l’amore, sentendo i vaporetti di sotto. Che attese? E
poi
finire sotto il vecchio porco. Poi, mi accorgo dell’altro, il pigiama
di
flanella, e divento pazza in silenzio. Perché ogni giorno mi
trucco
la faccia, e ogni sera mi tolgo tutto dal viso? Per chi, poi? Bella per
chi, poi? Così sogno le mie vendette. Ora che sono alleati di
nuovo
tra loro, ci vorrebbe una grande balla, una bugia grande come una casa,
per dividerli, perché tornino a odiarsi. “Teseo, tuo figlio m’ha
toccatò”, e quello magari si sveglia e lo ammazza così in
due secondi. E io sono salva. Meglio, meglio aspettarlo davanti a un
email
spento che saperlo in giro colla ballerina, no è una modella,
cosa
dico ballerina? E poi il padre che si congratula, e mette su le rughe
dalla
contentezza. Corna, corna, devo fagli un po’ di corna, al vecchio
porco.
Ma con chi? Ippo mi ignora. Solo che ha bussato alla porta del salotto,
e io avrei voluto che la buttasse giù a calci. Invece niente, un
leggero, educato tocco. E ha subito rinunciato. Ma farlo entrare,
perché?
Perché mi vedesse in una vestaglia sudata, i primi fili di
bianco
sulla nuca, il telecomando in mano, i calmanti sul tavolo. Per fargli
pietà,
al moccioso? Ma insieme no, quei due no. Devo inventare qualcosa,
sì,
inventerò qualcosa. Bisogna proprio che uno dei due ammazzi
l’altro.
10)
Fedra
a letto, nel dormiveglia, imbottita da plaids e da golf, mentre fuori
impazza
la tempesta.
Sì,
mi ha toccato. Eh sì, eh sì. Basta bugie. Basta fingere.
Devi sapere tutto. All’improvviso mi è venuto addosso. Io gli
davo
le spalle. Non me l’aspettavo. Ha suonato alla porta, credevo fosse la
posta. L’ho sentito entrare in cucina. La tata era fuori. Non me
l’aspettavo,
non me l’aspettavo proprio. Neanche il tempo di salutarlo. Ma devi
sapere.
Devi sapere tutto. M’ha rovesciato sulla tavola di marmo. E mi fissava
in silenzio, con uno sguardo disperato. Non ho potuto fermarlo. Mi
ripeteva
che non amava quell’altra. Che era tutta colpa tua, che volevi solo si
sposasse una cretina qualsiasi, una stronza, tanto per essere
tranquillo.
Colpa tua, colpa tua. Lui non l’ama. Me l’ha confessato mentre mi
spogliava.
E io non ho potuto farci niente. Era troppo forte, era troppo deciso.
Era
come te, quand’eri giovane, e non c’era modo di fermarti, non c’era
modo
di fermarlo. Adesso vedi tu. Ma è stato bello. Non sono mai
stata
bene come con lui. Ha dovuto forzarmi solo all’inizio, poi l’ho
assecondato.
E non ci siamo fermati mai. Tutto il pomeriggio. Siamo rotolati per
terra,
sul linoleum, e poi ci siamo trascinati in salotto, sul divano. Aveva
il
sacco da ginnastica colla tuta e la biancheria sporca. Una volta mi son
trovata sopra il sacco, e sentivo l’odore della biancheria sudata, del
costume da surf. E c’era l’odore del mare. Mi dispiace, ma devi
saperlo.
Ora fa tu, fa tu, quello che vuoi. Cacciami via, cacciami via, che fai
bene. Oppure ammazzami. O ammazzalo. O ammazzaci. Ma io appartengo a
lui,
sono sua. Io sono ancora giovane. E l’ho amato sempre, in silenzio, e
lui
l’ha capito da un pezzo che con te ero infelice, e che sarei impazzita
in questo silenzio. E sapeva i tuoi tradimenti, sapeva le tue
crudeltà,
conosceva le tue ganze. Mi sento pulita, finalmente pulita. Non ho
più
il tuo odore sulla pelle. Ma il mare ligure. Il sentiero degli amanti
nella
mia bocca. E la spuma del mare, e il freddo delle onde nei miei occhi.
Non dimenticherò mai il suo sguardo, e la sua felicità.
La
mia felicità. Questo è il suo pigiama di flanella. Ogni
notte
me lo porto con me, non lo lavo mai. Me lo ficco nel naso, la flanella
azzurra. E’ il mio paradiso. Fallo pure a pezzi. Mandagli le tue
guardie
del corpo. Fallo sparare. No, anzi. La macchina contro le rocce. Non mi
importa più. Tanto muoio anch’io con lui, dopo. Ma devi sapere.
Abbiamo fatto l’amore come due bestie. Due conigli. Pomeriggio, sera e
notte. E’ diventato uomo con me. E io donna con lui. Troppo bello. Non
hai nemmeno un’idea. Cosa ho provato. Cosa. Nemmeno un’idea.
11)
Fedra
alla finestra. Guarda il sole invernale. Tra le mani il Radiocorriere
tv.
‘Saranno
famosi’ o il film, stasera? Film già visto, no. Questi ragazzini
vogliono sfondare. Eh, eh. Le ragazze le manderei tutte dove dico io.
Magari
i marocchini. La fine della ciociara. O dai talebani rimasti senza
donne
da mesi e mesi. O in un carcere maschile, come nel film con Eastwood.
Ma
i ragazzini sono freschi e disposti a tutto pur. Eh, eh. Loro mi
piacciono.
Mi ricordano Ippo. Avrà avuto si e no nove anni. Ho smesso di
odiarlo,
all’improvviso. Quando s’è ferito cadendo dalla magnolia nel
giardino
d’estate. Giocava sempre da solo, senza compagni. Mai un amico, anche
da
bambino. Era come svenuto, e la tata gridava. Voleva far chiamare il
bueo.
Ma il padre era all’estero, come sempre. Allora l’ho portato nella mia
camera da letto. Pareva morto. Ho cominciato a spogliarlo. E lui mi
aiutava,
in qualche modo. Buffo, no? Pareva morto, ma mi aiutava a spogliarlo.
Gli
strappavo quasi di dosso gli indumenti, colla voglia improvvisa di
sentirmi
sotto le mani il suo corpo nudo e intatto, le spalle tanto esili. Era
morbido
e caldo come un gatto. Così piccolo, così piccolo. E io
ero
nel mio fulgore. Mi son vista allo specchio. Gli occhi da matta, quelli
di mio fratello, il Minotauro. E ho capito che stava succedendo
qualcosa.
Sì. Ho desiderato di essergli madre. Ho provato uno struggimento
allo stomaco, una fame di maternità improvvisa, insulsa. Una
voglia
di dolore, di mancanza, di sentirmelo dentro, di sentirlo uscire a poco
a poco da me. E covavo i dolori d’una genitrice idiota e ansiosa, mi
sarei
goduta anch’io le sue prime malattie, le ansie ai primi rientri in
ritardo.
Ero come le altre, anch’io, allora. L’avevo appena partorito, in fondo.
Era una cosa mia. E l’odore dei suoi piedini, della sua cacca, del
latte.
Sì, tanto latte, dappertutto, in me, sulla sua boccuccia, sui
suoi
occhi, il suono minuscolo del suo pianto. Gemiti che mi penetravano le
ossa, a darmi carne e latte e vita. Intorno, c’era una strana attesa.
Ho
fatto uscire dalla stanza la tata che continuava a piangere.
Invece,
stringendo nella mia la sua piccola mano ruvida e calda, coll’altra ho
cominciato ad accarezzarlo, là nel ventre. A lungo. Già.
Finché l’affare gli si è allungato, come una lucertola al
sole. Il suo piccolo affare, un affarino innocente e paziente, senza
pretese.
Non aggressivo. Un piccolo pennello. Senza pelo. Niente pelo. Tutto
bianco.
Da quella volta, abbiamo imparato a frequentarci, a parlarci, nei miei
sogni. Poi, un giorno, è tornato dall’anno in America, scambio
di
scuola, per imparare l’inglese che suo padre finge di sapere. Ed era
cambiato.
Era cresciuto, gli occhi più sottili e cupi, il passo nervoso,
la
voce rauca e dura. E non mi guardava più in faccia. La mattina
dopo,
la mattina dopo che ero sola in cucina, sono stata presa d'improvviso
da
una gioia intensa che mi saliva dentro, come una vampa. Mai prima di
allora
avevo provato un senso di gioia così calmo e così pieno.
Ero scossa da brividi di felicità. Perché ormai
confondevo
i tempi. Mi dicevo che ero contenta, contenta di tutto, che niente
mancava
alla mia vita. Era uno di quei momenti di silenzio dorato. Stendevo il
miele sulle fette biscottate, il caffè stava bollendo, e ho
tremato
all’idea di abbracciarlo con calma, quando si fosse alzato. Ho
aspettato,
aspettato tanto, quella mattina. Era inevitabile che quella pace, quel
senso di benessere scivolassero via. Ho provato nausea, nausea,
poi.
E ho capito che era tutto finito. Quasi gridavo tra me che mentre io
dovevo
restare qua per sempre, lui ormai voleva andar via.
12)
Fedra
in luce. E’ sospesa sul davanzale della finestra. Incerta se gettarsi
giù.
Quelle
coppie si lanciavano dalle finestre, mano nella mano. L’ho visto nel
telegiornale.
Hanno trovato sul cemento mani intrecciate, di corpi diversi. Avrei
potuto
essere io nelle torri, con Ippo. Fuggiti insieme, dopo la confessione.
E l’aereo che ci entra nella testa. Una gran vampa. Il boato dei
motori.
Magari dal piano più alto, io e lui, occhi negli occhi, mano
nella
mano, a volar giù, abbracciati. Altro che Aricia. Altro che
Teseobueoeoeoeoeoeo.
Ma al suo matrimonio colla modella, no, non posso andarci. E non posso
vederlo in doppio petto, il Sole ventiquattro ore in tasca, il listino
di borsa davanti, sul tavolo da lavoro. E l’iscrizione al Rotary dei
giovani,
magari. Non si occupa più del mio modem. Non mi manda più
messaggi. Il mistero tra noi s’è dissolto. Ha dimenticato i
suoni
che venivano dalla camera da letto, e il suo stare rannicchiato fuori
dalla
porta. Ora è normale, ora comincia ad ingrassare, anche, e farsi
più robusto. Lo vedrò maturare, assomigliare al padre,
tradire
la modella, puzzare di anni e di rassegnazione. Il mio piccolo fiore
non
è più un fiore selvaggio. Non andrò alle nozze,
no.
E non s’è sfracellato sulle rocce liguri. E io non ho osato
inventarmi
abbracci. Non ho potuto confondere il padre, trascinarlo a gesti senza
ritorno. Tutto così quieto, così inutile. Avevo una
finestra
sul Canal Grande, da bambina. Dormivo d’estate, che parevo Sant’Orsola.
Le tende di lino, e la luce azzurra. E Ippo non esisteva ancora.
Davanti
a me, solo Radiocorriere tv e Tavor adesso. La tata piangerebbe,
dicendo
che aveva previsto tutto, che così non poteva durare. Fedra non
può durare, senza un prete, senza un medico, senza un amante
almeno.
Senza Ippo. Invece, fra poco, mi lancerò giù, ma solo
nella
stanza. Basterà sentire la chiave che gira, il suono delle
scarpe,
e mi preparerò a dirgli il menu dietetico della cena. ‘Cosa fai
là su che pari una matta?’ E gli sussurrerò che è
niente, che c’era un vetro opaco. Perché non amo le macchie, io.
E lui lo sa. Mi preparerò alla notte, e al gelo, chiedendogli
della
giornata. E a questo silenzio del mondo. Ho distrutto il computer, l’ho
lanciato dalla soffitta nel giardino, s’è incastrato tra i rami
del pioppo. Adesso scendo. Lui sta tornando. Teseobueobueoeoeoeoeoeoeo.
Sì, arrivo, arrivo. Un momentooooooooooo.
Salomè
Lavargli
i capelli. Lavargli i capelli, innanzitutto. Non è facile andare
avanti con quest’odore, per me. Tutta la grande taverna
invasa.
Anche se tengo le finestre spalancate verso il lago e le stelle,
è
tutto inutile, anche se apro le porte che immettono sulle lavanderie
vicine.
Da un po’ di giorni, il tanfo arriva anche nel salone d’ingresso e mi
sa
che arriverà fra poco alle camere da letto, persino alla sala
rettangolare
delle feste, al tavolo grande di Ceroli, quello di legno e di vetro,
che
riflette meglio la luna! Enormi topi, nutriti da sacchi di immondizie,
sacchi pieni di carne putrefatte. Ecco, i suoi capelli sono come
topi su carni morte. E’ stato un regalo del mio padrino, per alzare
l’atmosfera
un po’ depressa degli ultimi mesi. In compenso, ho perso l’appetito. Io
come gli altri. Mia madre svuota intere boccette di lavanda intorno, ma
dalla botola, oltre agli urli disumani di lui, salgono a ondate
continue
i fumi del suo corpo. Dei suoi escrementi, anche. Dai capelli
soprattutto.
Come se i capelli filtrassero e moltiplicassero tutti i fetori. Eppure
non mi pare il caso di chiuderla, la botola. Ho fatto perfino togliere
il coperchio. Il coperchio non c’è più. Sissignore,
voglio
sentire bene tutti i suoni che il suo corpo, scuro di sangue e di
ferite,
questo viluppo di stracci e di sterco, manda a offendere le nostre
feste.
Ogni tanto, passano a vederlo i nostri vicini. La moglie
dell’architetto,
quello che ha avuto già tre avvisi di garanzia, ne vuole uno
anche
lei. Tanto per non restare indietro nell’ “up to date”. Mia madre, che
pretende sempre tutto inamidato e in ordine, è un
po’
in difficoltà con questo “dono” del generale. Da mia madre ho
ereditato
i suoi strani impulsi a migliorare lo stato fisico dei servi. Ma
lui, lo vorrei pulito per altri motivi. Intanto, mi odia e mi
disprezza.
Si chiama Amman, credo, almeno così c’era scritto sulle carte
sequestrate,
assieme a disegni e mappe misteriose. Si preparava, assieme ad altri, a
fare qualche nuova strage. Magari da noi. Ma lui, comunque, non mi
desidera
affatto. Se anche lo trascinassi tra i miei cuscini, tra i copertoni di
lana coi colori di Mondrian, tra le pellicce di leopardo stese a terra
ai piedi del letto, se mi mostrassi senza la mia biancheria,
sciogliendo
le trecce e distendendomi nelle pose più febbrili e morbide, lo
vedrei immobile, accigliato contro la villa, contro il mio mondo.
Sempre
a imprecare, a maledire, a parlare di questo folle Dio che non
ama
le donne e il lusso. Su di lui, certo, a quest’ora, stanno ormai
vermi e scarafaggi. La sua testa pare quella della Medusa. Ma gli occhi
sono neri come la notte, lo vedo da qua, appena lo illumino colle torce
e lui allora impreca e grida “Allah akbah!”. Ogni parola inizia colla
a,
come il suo nome. Le sue braccia, intanto, muscolose, ancora tanto
giovani,
nonostante le piaghe e le ferite, guizzano nell’ombra, e si sporgono
verso
la botola. Vorrebbe, certo, afferrarmi, tagliarmi la gola, oppure
costringermi
a coprire il capo coi loro orribili cenci, col burka come lo
chiamano.
Non hanno mai abbracciato una donna, quelle braccia, non sanno
l’amore
e le carezze. Con me, con me dovrebbe imparare tutto. “Ma non lo puoi
fare
con me, caro mio”, questo gli sussurro mentre urla, appena mi
sente
sopra di lui, senza guardarmi. Togliermi la faccia, impedirmi di vedere
il mio riflesso negli specchi e nelle fontane? Non lo potrei
permettere.
Questo proprio no. La mia bocca morbida, rafforzata solo da poche
punture,
a rendere più sinuoso e a forma di bocciolo il movimento
delle
labbra quando si incontrano. Il collo dalla pelle di latte grazie a
creme
continue, e il petto alto e sodo, sostenuto dal silicone, a provocare
lo
sguardo dei maschi, a renderlo ancor ancor più disarmato e
devastato
davanti alla sua pienezza. L’altra sera, mi sono legata, con una
doppia corda, alla colonna vicina alla botola. Un cameriere
albanese
mi reggeva le caviglie altrimenti potevo cadere giù. Con tutto
il
busto sono penetrata dentro il buio e l’odore spaventoso che sale dal
fondo,
per sillabargli brevi e inutili frasi d’amore. Il fatto è
che non voglio nessun altro che non sia lui. Ero tutta eccitata,
perché
avevo bevuto parecchi bicchieri di fragolino bianco, pensando alle sue
braccia. Mi ero persino toccata un po’, mentre la carne grassa e
repellente
del mio padrino, del generale dico, mi sfiorava coi suoi occhi molli e
diabetici. Stavo china sull’abisso della botola, l’albanese mi
tratteneva
le caviglie. Quello sì che mi desiderava. L’albanese sì
che
mi invocava. Sentivo le sue mani forti, che quasi mi supplicavano
di dargli qualcosa di mio. Finirò, prima o poi, col
concedergli
qualcosa di me, ma sì, magari pensando al mio bel talebano.
Intanto
il mio padrino, dall’altra parte della sala, mi supplicava di danzare,
di fare almeno qualche movimento in onore del prigioniero, ma
venendogli
vicino. Era il suo regalo per me, in fondo, il talebano. Mia madre,
alle
spalle del vecchio, la faccia sempre congestionata dall’ansia e dai
mille
pensieri che la attraversano, scuoteva il capo. Ma io volevo star sola
con Amman, senza che nessuno mi distraesse. Sì, anche a costo di
cascargli sulla testa. Purché i capelli glieli avessero lavati
prima.
E bene, anche. Ma se quello non accetta di amarmi, se quello non mi sta
nemmeno ad ascoltare? Dove se n’è andata la mia celebra
collera?
Che ne è del mio orgoglio? Sì, lo so bene che si tratta
di
un puntiglio, di un puntiglio di ragazza viziata, so bene che non
otterrò
nulla da questa storia. Ma lui deve, prima o dopo, alzare la testa
verso
la luce della sala, e così mi scorgerà in tutta la mia
freschezza,
godrà da di sotto la mia pelle bianca, le mie labbra dischiuse a
fender l’aria con baci, la mia voglia di lui a trascinarlo nella mia
stanza.
Se no, se no, non so ancora, ma qualcosa farò per quegli
occhi
neri come la notte. Anche quella volta, lui non mi degnava di uno
sguardo,
ma continuava a urlare, a sbattere contro le pareti, a invocare Allah,
perché mi incinerisse. “Allah non esiste”, ripetevo divertita e
esasperata allo stesso tempo, “Allah non esiste, caro il mio bel
morettino”.
Non è un morettino, però, per essere precisi. Ha la pelle
araba, abbronzata dal deserto, e livida ormai per i digiuni e il
sudiciume.
Ma quando hanno svestito il suo corpo alto e magro, quando gli
hanno
strappato tuniche e copricapo, e le tante sciarpe, e cinture, e
calzari,
quando l’ho visto nudo e inerme, coi riccioli che gli pendevano sul
petto,
a ricongiungersi colla barba interminabile, ho provato subito l’impulso
a lavarlo, come fosse un bambino malato. A raderlo tutto. E’ il regalo
del mio padrino americano, di Irod. Mia madre, Erodiade, prima se la
faceva
con un russo, un funzionario dell’ambasciata a Roma, che passava tutti
i week-end qua, a Pordenone. Poi, ha incontrato questo generale texano
che stazionava ad Aviano. Aviano è vicina alla nostra villa di
Cordenons.
Così è stato semplice per il vecchio traslocare da noi, e
s’è sistemato ufficialmente in un loft, ossia la bella soffitta,
con tanto di ascensore, da cui si vede il mare. Ma Irod ama me,
ovviamente.
E mi cerca collo sguardo tutte le mattine, mentre col cucchiaio toglie
la polpa dal melone, che deve essere poco dolce, se no guai col
diabete.
Io sono stanca, stanca degli amanti di mia madre, stanca di
prolungare
la loro sosta nella nostra villa, inseguendo il miraggio del mio corpo.
Per fortuna, c’è stata la storia delle torri, e poi questa
guerra bizzarra. Almeno ci si distrae un po’. Adesso si dorme male, con
tutti gli aerei che volano sfiorando quasi i nostri alberi. Ma per me,
non cambia niente, tanto sono insonne. L’altra notte, mia madre, che
s’è
accorta forse della predilezione di Irod per le mie vestagliette aperte
(lui pretende io porti sempre queste vestagliette, appena arriva),
s’è
messa a imprecare nel suo stentato inglese che è stanca di lui,
e che la guerra è solo una questione di petrolio, “tutto per sto
porco petrolio, this dirty oil”. Questo era il suo pensiero, e poi ha
dichiarato,
in preda alla gelosia, che era sicura che i veleni, quelle cose
là,
come l’antrace, ma sì insomma, erano loro, gli americani a
spargerli
nel mondo, per sostenere le case farmaceutiche in crisi. E Irod allora
s’è messo a ridere come un matto, e di gusto. Ma Erodiade era
arrabbiata,
non scherzava per niente. L’ho capito perché a un certo punto
s’è
messa a piagnucolare col suo italiano intinto nel veneto acquoso di
questa
zona. Ma il regalo che m’ha fatto, il talebano prigioniero (qualcosa
devono
pure ottenere da questa guerra che combattono da mesi e mesi) ha
scombussolato
la mia vita. Prima c’erano le feste collo spinello, le corse colla mia
Ferrari di notte senza tenere il volante, a sentire i morsi dei rami
sulla
mia faccia, il buio della corsa, prima c’erano le angosce e i pensieri
strani di farla finita. Anche la guerra mi fa comodo, per certi versi.
Se questo Bin, il padrone del mio Amman, riesce davvero a trovare la
bombetta,
zac, tutto finito e non se ne parla più. Basta, perché
s’è
vissuto anche troppo. No? Per ora c’è lui, come diversivo, il
mio
bel talibano. Pare che ormai molti americani se li portino a casa,
prigionieri.
Li danno per missing, e invece se li trascinano come trofei in
famiglia.
Cosa ne facciano, non è chiaro. Ma questo qua, era uno dei capi,
credo. Dunque, ha più valore, è costato di più. Ho
sfogliato foto di guerra. Quando loro sono a cavallo, su per le
montagne,
il fucile a tracolla, il mantello che vola in alto come una farfalla,
il
copricapo che li rende ancor più nobili, ebbene sì,
è
così diverso dai miei palestrati, dai miei aspiranti sposi, col
loro cellulare e col p.c. portatile, la gazzetta sportiva o il Sole
ventiquattro
ore, nel migliore dei casi, sotto il braccio. Ne ho ben tre di
consulenti
finanziari, che vestono allo stesso modo, e hanno la faccia vuota come
un bidet ripulito, nutrita di vitamine e di integratori. La pelle rossa
per lampade e carota, la cravatta quasi sul collo, tant’è
grande,
e le mani che faticano a star ferme, non appena li saluto. No,
l’immagine
del mio talebano, del mio Amman (chissà perché mi vien
l’uzzola
di chiamarlo Johannes), è tanto più austera e misteriosa.
Abitava terre lontane, quattro vecchie mura sospese su deserti e valli
con poca acqua, nessuna piscina da loro, nessuna serra con pompe
irriganti
che mandano di continuo i loro miti zampilli. No, solo un’infinita,
brutale,
esaltante desolazione. Bambini luridi che piangono, e lui magari era
così,
solo qualche anno fa, e vecchie e giovani donne annullate ed eguagliate
dal burka, mentre sfiorano le porte cadenti delle case
bombardate,
a cercare qualcosa. Oh, essere anche se per poco, magari una settimana,
una delle schiave di costoro, del mio talebano, del mio Johannes,
una del suo clan! Esaltarmi ad essere trattata come una lurida serva,
assieme
alle altre, essere scelta magari il lunedì. Il lunedì
sarebbe
il mio giorno. Tocca a me, di lunedì. Ovviamente, si
accorgerà,
tolte bende e stracci, della differenza della mia pelle, del mio odore,
del mio sguardo di fuoco. Oh, che sogno languido! Per una
settimana
abbruttirmi sotto di lui. Non averlo giù nella botola, tanto non
so che farmene, tanto non sa che farsene della strana signorina che lo
spia dall’alto. No, essere in groppa al suo cavallo, che pare Lawrence
d’Arabia, e stargli dietro, stringerlo mentre mi porta tra le dune,
come
l’eroina del Tè nel deserto. “If you like, Salomè, I’ll
kill
him”, m’ha spiegato Irod, ieri sera mentre l’ho scorto nel parco che
faceva
gli esercizi addominali, per restare in forma. Ma ha poco da smagrire
quello,
coi cabernet e i pinot ghiacciati che Erodiade gli fa trovare pronti al
suo arrivo, ad ogni tramonto. Quando s’alza la luna, Irod è
già
bello ubriaco. Mi ha spiegato, in ogni caso, che questi doni si possono
benissimo far fuori, come si divertono a fare ogni tanto negli States,
durante i rallys, tanto nessuno saprà mai niente. Ma questo
talibano
non è come l’operaio kosovaro che si é buttato giù
dal ponteggio una settimana fa, di prima mattina, per amore dei miei
occhi.
Continuava a fissarmi con una voglia terribile, l’ho capito subito, e
io
allora ho risposto. Avevo bisogno di un diversivo. Lo guardavo,
sorridevo,
e ho visto quel ragazzo che se ne stava a torso nudo, impegnato a
sostituire
tegole del tetto senza cintura, perché Erodiade non vuole
imprese
edili "rompiballe". E l’operaietto che non aveva mai visto una donna
nuda,
sì, ero nuda in terrazza a prendere il sole, lanciava sguardi
supplichevoli,
quasi un lamento dai suoi occhi, usciva. Era divertente, era eccitante.
Io pensavo al mio talibano di sotto, che si girava nella botola e ogni
volta lanciava maledizioni al nostro mondo, e intanto lasciavo che il
kosovaro
colle mani piene di tegole mi divorasse da lontano. Poi, alla fine,
com’era
naturale, ha dovuto precipitare in basso. E’ morto all’istante.
Peccato,
perché aveva una bella faccia, col naso schiacciato da pugile.
La
religione di Amman e dell’operaio, paiono eguali. Solo questione di
intensità
d’odio. Stasera, però, qualcosa dovrò pure organizzare.
Perché
così non vado avanti. La noia ricomincia. E se mi annoio, io,
sono
capace di tutto. Altro che far cascare uno stupido muratore. Attento
Johannes,
che la mia pazienza non è eterna. Quando danzo, se fuori
c’è
la luna piena poi, quando danzo, non so davvero come finirà per
te. Ma cos’ha questa gente oggi? Perché queste facce da
funerale?
Che brutte facce! Cosa avete voi? Qualcosa che non va? Eh? Faccio
confusione
tra arabi ed ebrei, per caso? Tanto, cosa cambia? A questo punto, poi.
Ma che faccia avete, gente? Vi siete visti? Ma chi è morto oggi?
Tanto, è tutto lo stesso. E io ho pure mal di testa.
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