1.
Divine parvenze
2. Il Melograno
3. Thanatos
4. Le nozze bianche
1.
Divine parvenze *
Il volo nuziale delle aquile
Scruto i cieli in cerca della “sovrana degli alati”.
Ammiro il maestoso suo volteggiare,
il meticoloso perlustrare fianchi di montagne
laddove cielo e terra e mare s’incontrano
in morbide sinuosità, in asprezze d’abissi.
Bramo e al contempo temo
al pari d’ogni altra tremebonda creatura
acquattata sul terreno
sia marmotta, agnello, bianca pernice
l’ombra della sua potente apertura alare
il fischiante kya del suo becco adunco
il sibilo repentino, la scaltrezza del planare
le presa senza scampo del mortale
suo artiglio; congelo l’istante
che è lampo di luce nell’umana cecità
schiudersi di palpebre, sospeso respiro.
Fermo l’assordante battito
– delle ali o del cuore in tumulto? –
il sangue nelle valvole cardiache,
i tranquilli laghi delle consuetudini
prosciugati in picchi adrenalinici ...
Umani tradimenti
moderni cannibalismi
cainismo da aquilotti.
Là dove nidifica l’aquila reale
immolo ogni cetezza, ogni illusione
ancora una volta invocando
o Dea Madre, la Tua tacita protezione.
Senza titolo
In boschi resinosi
su pascoli grassi e fioriti
su ardenti sentieri
presso laghi cristallini
dove il respiro degli dei
più si confonde
alle tracce degli uomini
e i versi degli animali selvatici
si sovrappongono al fiato
delle bestie in pastura
ancora si possono immaginare
forme divine e sinuose
appropinquarsi in controluce.
Ci sono luoghi,
incontri
che non si possono scordare.
*Cfr: S. Gallo, PHARMAKON. Postfazione di I. Fedeli, puntoacapo Editrice, Pasturana (AL) pp. 49-50; 54.
2. Il Melograno *
Dai penetrali dell’oscura mente
un’immagine più di altre
con veemenza si ripresenta
ad angustiarmi. Indelebile
diabolico tatuaggio impresso
sulla retina d’un essere
già afflitto da ambliopia.
È quella dell’albero di melograno,
curvo sotto il carico di balauste
nel mese di novembre, al giardino
del Castello di Serralunga.
I grossi preziosi frutti arancione,
sacri agli Egizi, ai Fenici, agli Indù
cari ad Ebrei, Greci ed Arabi
e rinomati in tutta l’Asia centrale
fin dai tempi più remoti... lasciati
lì incolti a marcire, a seccare
in balia d’uccelli, alle intemperie
spaccati, esplosi, aperti: i rosari
esposti dei semi circondati
dalla polpa rosso vivace.
Mostruose fauci spalancate
ogni volta appaiono,
i numerosi denti avvolti nel sangue.
Attive bocche vulcaniche
d’ardente solidificato magma
e lava ancora incandescente.
Infine ferite tremende,
da uncini, da rostri affilati
da antichi strumenti
di tortura inferte
a martoriarne le carni.
Come se nella foia d’un solo
orrido spettacolare dipinto
racchiusi fossero il Cristo ricoperto
di sanguinolenti piaghe, di Grünewald,
i quarti di carcasse animali di Bacon
e Saturno divorante i suoi figli, di Goya.
E nell’incuria di quelle ormai
irrecuperabili tumefatte bacche,
il simbolo so riconoscere
di tutte le devastazioni
subite dalle campagne.
In quelle logge coriacee,
imprigionati tra mucillagini
di timori, soprusi e ristretti pensieri
sento morire i semi dei sogni,
le speranze di cambiamento
d’intere generazioni.
*Cfr. S. Gallo, PHARMAKON. Postfazione di I. Fedeli, puntoacapo Editrice, Pasturana (AL) pp. 88-90.
3. Thanatos*
Dicono che il Padre degli dei
– dopo averla creata – ebbe paura
della Morte che divora.
E per fuggire da essa
Lui che era immortale
diventò acqua e argilla.
Poi comiciò un duello
interminabile e incerto
prima che Morte fosse sconfitta.
Infine, un patto stabilì
che agli uomini fosse concesso
diventare immortali
solo una volta separati
dalle spoglie corporee.
Ma agli uomini
– che continuavano a preferire
i loro corpi caduchi
agli splendori dello spirito –
sembrò un inganno
architetatto contro di loro.
E nel ciclico rinnovamento
delle vite – per quanto
straordinarie oppure misere –
solo il trionfo videro
della Morte ricorrente.
*Cfr: S. Gallo, PHARMAKON. Postfazione di I. Fedeli, puntoacapo Editrice, Pasturana (AL), pp. 124-125.
4. Le nozze bianche
Jeshùa l’esorcista con il dito di Dio
scacciò sette demoni
dalla focosa Maria di Magdala.
Lei in cambio gli restò accanto
per i giorni che rimanevano
come discepola devota.
A te vizioso scellerato basterebbe
fugare il piccolo demone
che il ventre tiene annodato
della tua amata sposa.
Un rimedio infonderle
capace di dissolvere
l’isterica contrazione
dei muscoli vaginali.
Una cura in grado di rimuovere
gli ostacoli d’una troppo rigida educazione
pudicizie, ansie immotivate
eccessive inibizioni.
E se Giovanni il Battezzatore
redimeva dal peccato
con le vive acque del Giordano
tu al contrario unte le sue molli carni
con oli profumati, la battezzeresti
facendo scivolare il pene eretto
nel fiore dischiuso del suo sesso
e con spinte cadenzate, carezze
a nuca, collo, rosee guance
la condurresti finalmente
al cospetto della dea del piacere,
al culmine depositando
il bianco seme della discendenza.
Invece nudo le rimani accanto
crocifisso a doghe immobili,
una corona di spinosi pensieri
a opprimere, le stigmate
d’una doppia impotenza:
i chiodi infissi d’eccessivi scrupoli,
le frustate di mille repressi desideri.
Nel costato la lancia dell’ennesimo rifiuto.
Avvolta nel lenzuolo di lino
la verginale creatura ammutolisce
e più tace più si serra inesorabile
la morsa tra le sue gambe.
A rischio d’inaridirsi perpetuamente
insieme a due corpi incapaci di darsi
questo amore fragile, questo amore parziale
senza coito, né penetrazione.
Dolce-acidulo melograno,
linfa imperfetta e misteriosa.
Tremebondo nido:
senza figli, né redenzione.