1. Catulliana (esercizi di traduzione)
Carmina 5
Dice il vascello che vedete, o ospiti,
che delle navi era la più celere
né d’altro legno mai poté l’abbrivio
superarlo, gli fosse necessaria
la vela o i remi al volo soccorressero.
E nega che le rive lo smentiscano
del protervo Adriatico e le Cicladi
e la famosa Rodi e la Propontide
orrida della Tracia e il mare inospite
del Ponto, dove questo, che fu in seguito
vascello, era chiomata selva e sibili
emetteva dal vertice citorio
con la chioma loquace. O Amastri pontica,
o Citoro bussifero, notissime
queste cose vi sono e già vi furono
a dire del vascello: sul tuo culmine
s’aderse esso da tempi immemorabili,
quindi bagnò nella distesa equorea
i suoi remi e di là per tante angustie
di mari mi portò, sia che l’aria
spirasse a dritta o a manca favorevole
sia che Giove di qua e di là benevolo
ambe le scotte alasse del suo soffio.
Mai fece voto ai numi litoranei
nella sua rotta dal remoto pelago
a queste acque di lago così limpide.
Ma sono storie d’altri tempi: invecchia
ora nella sua quiete solitaria
ed a voi ambedue, gemello Castore
e gemello di Castore, si dedica.
Carmina 6
Se non fosse antipatica e sgraziata
la tua fiamma, tu, Flavio, non potresti
tacerne e moriresti dalla voglia
di parlarne a Catullo. Ma sei cotto
di non so quale femmina da conio
malandata e di dirlo ti vergogni.
Che tu le notti non le dorma solo
alto lo grida il letto, anche se muto,
che di serti profuma e d’olio siro
e del pari il cuscino qua e là
sgualcito e il cigolìo del letto scosso
quando oscilla vibrando. A nulla serve
le prodezze tacere, proprio a nulla.
“Perché?”. Se non facessi una sciocchezza,
non te ne andresti sì slombato in giro.
Dicci dunque cos’hai, sia buona o meno:
voglio con il tuo amore sollevarti
sulle ali lievi del mio verso al cielo.
Carmina 7
Mi chiedi, o Lesbia, quanti baci devi
darmi perché mi bastino e m’avanzino.
Quale si stende innumere la sabbia
libica là tra i silfi di Cirene
dall’oracolo dell’estuoso Giove
al sacro avello dell’antico Batto
o quali nella notte silenziosa
infinite le stelle di lassù
gli amor furtivi spìano degli uomini
tale è l’immenso numero dei tuoi
baci che può bastare ed avanzare
al tuo pazzo Catullo. E noverarli
non possano i curiosi né le loro
male lingue insidiarci col malocchio.
ORAZIO, Carmina 1, 11
Non chiedere – saperlo non è dato –
quale a me, quale a te sorte gli Dèi
destinino, Leucònoe, né stare
a calcolare i giri delle stelle.
Prendi la vita come viene, è meglio,
sia che Giove ci doni molti inverni
sia quest’ultimo solo che agli opposti
grèbani fiacca le onde del Tirreno.
Filtra da saggia i vini e la speranza
adèguala, se lunga, a breve spazio.
Mentre parliamo, ìnvido il tempo via
sarà volato: vivi alla giornata,
senza troppo aspettarti dal domani.
Ardendo in cuore d’ira veemente,
amareggiato parlo alla mia mente.
Sostanzïato di lievi elementi,
sembro una foglia in balìa dei venti.
E mentre è proprio di chi ha savio zelo
le fondamenta sulla roccia porre,
io stolto assomiglio al rio che scorre
senza mai rispecchiar lo stesso cielo.
Alla deriva vado come nave
senza nocchiero, a mo’ di vago uccello
per l’aria, né mi tien catena o chiave;
cerco i simili miei, trovo un bordello.
L’austerità mi sembra cosa grave,
amo lo scherzo, più dolce dei favi.
La fatica di Venere è soave,
pure se imposta, e non lo san gli ignavi.
Seguo nell’ampia via la gioventù,
nei vizi avvolto, scordo la virtù,
più ghiotto di piacer che di salute,
morto di dentro, affino la mia cute.
VIRGILIO, Georgiche IV, 471-527
Dal profondo dell’Erebo commossi
dal suo canto venivano ombre tenui
e fantasmi di gente senza luce
a migliaia alla stregua degli uccelli
che tra le foglie cercano riparo
allorquando dai monti li sospinge
la sera o l’acre pioggia dell’inverno:
madri o mariti, corpi senza vita
di magnanimi eroi, fanciulli, donne
nubili ancora, giovani composti
sotto gli occhi dei padri sulle pire.
Il nero limo ed il canneto incolto
di Cocito e l’inamabile palude
che vi ristagna li circonda e quindi
Stige li avvolge coi suoi nove giri.
Ma stupirono pure le dimore
del Tartaro e i segreti antri di Morte
e le Eumenidi con i crini attorti
d’azzurre serpi, e Cerbero rimase
con le tre fauci aperte e s’arrestò
col vento anche la ruota d’Issïone.
E già tornando aveva superato
ogni arduo passo e già saliva all’aria
di sopra e dietro la restituita
Euridice veniva, assecondando
la legge di Proserpina, quand’ecco
preso da subitanea demenza
l’incauto amante - degno di perdono
se i Mani perdonassero - ristette
e immemore ed arreso, ahi, si rivolse
a guardare Euridice ormai vicina
alla luce. E di colpo ogni fatica
andò dispersa e andarono in frantumi
i patti stretti col tiranno immite
e per tre volte rimbombò il fragore
dello stagno d’Averno. Ed ella disse:
“Quale follia, povera me, sì grande
ci perse entrambi, Orfeo? Crudele il fato
indietro mi richiama ed i languenti
occhi mi chiude il sonno. Addio ormai,
l’immane notte mi trascina e avvolge
mentre invano protendo a te le palme
ahimè non tue”. Ciò detto, a un tratto
svanì allo sguardo e si dissolse al pari
di tenue fumo che si sciolga in aria
senza vedere lui che s’affannava
a stringere ombre e tante cose aveva
da dire ancora. Ed il nocchiero d’Orco
più non permise di guadar lo stagno.
Che fare? dove andare ora che tolta
gli era stata la sposa un’altra volta?
Come smuovere i Mani con il pianto,
quali Numi col canto? Ella già fredda
sulla barca di Stige navigava.
Sette mesi - si dice - egli la pianse
ininterrottamente a piè d’un’alta
rupe là dove solitaria è l’onda
dello Strimone, e là narrando i fatti
suoi sotto le stelle indifferenti
ammansiva le tigri e impietosiva
col suo canto le querce. Così mesto
tra le fronde dei pioppi l’usignolo
si duole della perdita dei figli
che dal nido, scorgendoli, gli tolse
il crudele aratore, e nella notte
piange e dà voce, là sul ramo assiso,
al suo flebile canto ed all’intorno
empie dei suoi lamenti tutti i luoghi.
Non più l’attrasse Amore, non le nozze.
Solo errava tra gli iperborei ghiacci,
lungo il nevoso Tanai e pei campi
Rifei perennemente congelati,
piangendo il ratto d’Euridice e i vani
doni di Dite. E dal pietoso ufficio
tutto preso sdegnò le donne cìconi
e nelle orge notturne esse tra i riti
di Bacco lo sbranarono e pei campi
dispersero del giovane le membra.
Ed anche allora dal marmoreo collo
divelto il capo, mentre l’Ebro eagrio
nel mezzo dei suoi gorghi lo volgeva,
la voce stessa e l’ormai fredda lingua
nell’esalare l’ultimo respiro
invocavano: “Ah, misera Euridice”
ed “Euridice” per quanto era lungo
il fiume riecheggiavano le rive.