Senecio
     SENECIO
Fondatore
Emilio Piccolo

Direttore
Andrea Piccolo e Lorenzo Fort



Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'illuminismo

Rivisitazioni, traduzioni, manipolazioni



Redazione
Sergio Audano, Gianni Caccia, Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola, Lorenzo Fort, Letizia Lanza

Maria Pia Quintavalla

Scheda biobibliografica

Compianto in terracotta V*

Deposizione

Io l’ho tenuto in braccio,
gorgogliava dentro la testa il sangue,
gli occhi aperti sognavano
di noi piccoli, esclusi; 
dal nido io l’ho cullato, cambiato di vestiti,
visto nudo
le gambe belle già riposte in grembo,
il gesto aperto a croce
negli occhi verde ceruleo l’ultimo battito,
fluiva a oriente
dal cervello il sogno d’essere tra noi,
nell’amorosa sosta che lo volle
spaurito –
e solo, lui  a t t e n d e v a
nella casa di generazioni, i frutti
suoi ritrosi, disertati.
* * *
Odorava di buono e versi
agonizzati al largo,
ma le gambe erano ben tornite
il pene che non avevo mai veduto
riposava allungato,
la mano artistica segreta
poggiava al petto;
dormendo a lui vicino nella casa
per tre notti, in positura angelica
il gesto della pietas, l’alone
nel braccio ripiegato
alla vista non sottrassi

mentre piovevano le stelle, i giorni
erano trascorsi i raggi,
gli interminati
che lo avevano innalzato al cielo
* * *
avvicinato al tempo che allontana,
che mi cresce piano,
più vicina a te, filiale –
mentre piovevano le stelle ti spegnevi,
santo nel corpo, umano nella morte
ti spiegavi, 
al centro di ogni vita dove tutto si compie
una visione suggella te, noi
tutti aperti sanguinanti,
pronti alla narrazione dentro
che di vita scolora, e il cuore sanguina
più piano,
il punto asciugato e il punto trattenuto,
che dagli occhi cola.
* * *
Riparavano le gambe, tu dormivi
nella camera che era già stata mia,
Ti avranno dato il pasto? io, pensierosa
riprendevo del feto la passione,
dal cuscino inalavo il tuo respiro,
dei capelli il sudore
espurgato nell’impenetrabile del bosco;
la nipote singhiozzava in bagno,
le tue scarpe in camera, già pronte,
alla fuga tra mussole di lino.
* * *
Al terzo giorno non resuscitasti,
ti portarono via, nessuno vide,
eri già morto ti avvolgesti
mentre gridavi nomi alle porte,
il gesto non inteso il tempo
del soccorso, tu
una giacca gettata sulle spalle, a notte,
il pigiama di lino quasi estivo,
né le donne armeggianti carpirono fragilità
agonia, paura
in altra lingua viva  –
* * *
Venne detto il tuo nome ai funerali,
recitati i diari della prigionia,
ma la mano dei tedeschi ricordava
a ossa mute conserte, l’abbandono;
il rinfresco dei morti disertato,
là sopra, aspettava nutriva 
con incerta mano la sua cena
una sorella vera –

E il treno allentava la materia
le stazioni abbracciava chiudeva,
i viaggianti, tutte le sue pene.
* * *
Per mesi a Itaca tentai in me,
già Lazzaro, l’uscita –
ma dormire era freddo, mangiare
su cartine un’impostura, le visite
tornavano a un inizio, consegnandomi
la casa vuota dove spegnere
le tracce dell’amore vivo;
mentre là fuori 
l’osso spolpare chiudere i battenti,
in abiura in dolore in smania
sgocciolare, via brucare
il non spendibile tesoro.
* * *
Andavo più vicino, rivolgevo
a Milano l’era adulta, oppure
ritornavo, ma toccata
dal cesareo del fiume, trafugavo
il liscio valicato e il Po mi rispondeva.
andata e andata, suggeriva,
poi fluiva, ah se fluiva.
Ecce, rinasci dolce
del fiume di confine dove stazionaria 
v e d o
due case inghiottite in sortilegio di
cumuli di neve, ricoperte di edere
fessure, le faccine tristi
cremare
come in un lago di tsunami.


* Cfr. M.P. Quintavalla, I compianti: passeggiata con Correggio, Effigie, Milano 2013.

Compianto in terracotta II*

Ospite, e visita alla casa

Si è scomposto e ricomposto
ecco perché non l’ho trovato più:

nelle camole secche del bicarbonato
nei vasetti bianchi di ultime etichette
che essudavano ingiallite,
nei biscotti con le larve che cedevano molecole
     nei silenzi rotti da silenzio fatto suo,
nelle edere comparse a forza nelle stanze
dove tentavano, le selvatiche
di attorcigliarsi al poco,
in caffettiere senza l’alone blu di vita trattenuta,
scorta per la famiglia intera,
sulle sedie dai piedi spezzati sulla tavola bianca
nelle scarpe regalate via
ad altri vecchi;
nell’ordine morto dei medicinali, e non utilizzati
                                                    e non scaduti
***
in campiture incalcinate da sepolcro
nelle stanze, lo trovai
che stava andando,
aperto il patto sepolcrale il varco già rinchiuso,
lo cercai, e non lo cercai, gli odori
nei cuscini seccati dal calore bianco
non più orma, madida dove
non si era ricomposto il travaglio (mise le mani
che bruciavano in preghiera, affannò,
lottò, si spense).
***
Cosa feci quando portai la cinepresa,
recai l’ultima fiamma guizzo
al posto di quell’altra, l’ossidrica che chiuse il tutto;
forse pensavo salutare in modo tecnologico,
come si portano fiori il giorno della sepoltura
i giorni dopo i mesi, gli anni

ma non si va volentieri al commensale,
se non c’è la conferma di speranza e pace.
***
Ora in quarantena, dopo la peste
i soffi il vento,
sento le orecchie muoversi giulive
come quelle di un asinello che sorride.
Dai, Va’ in pace, allontanati da qui,
non è il momento ancora di commiatare,
salutarci in riso.
Scappa pensando sia vero tornerò
che io risorgo alle radici,
credici tu che sorge il sole
come ogni sera
il vespro, in stormo le  c o l l i n e:
dillo in preghiera
***
come si abbracciano
e allontanano digiune, ogni parola
una parvenza
fa preda le più belle.

Andrò nel centro di quel mondo antico
e vinto, più reale di un Cristo
che dardeggia, ridipinge i mondi
a fare luce, nel meriggio contemplando
quel convento da sogno lui, la sera,
guardava col naso appiccicato alla finestra
liscia traccia di fiati riprodursi, dire
Guarda che bello, solo qui c’è pace.
***
Io,
col naso fiatando riconoscere
la grotta del convento, la Madonna nera,
stupita ridere di ogni cosa.
Senza quel posto il mondo non si accende,
domani sarà tardi non ci verrai più:
questo lo strazio
di un mondo già crollato e solo,
perché  p e r f e t t o  nell’indaco del suono
 
ma tu Piero, mansueto come docile somarello
alzi le orecchie succhi il brodo,
ma tintogni vai adagio, poi ti arrabbi
***
bistratti ridi, giochi  
ai modi del burbero col cane,
allunghi il cappio non sapendo
era lì la gola brancicata -
fa soffrire la voce di ogni donna
trascinata da un sottile padre.
Ma l’edipo è la storia un po’ attempata e
riporta la bambina al suo padrone,
senza scarpe le assegna un solo passo,
quello del desiderio e del castigo.

In braccio al suo babbino
la seduzione è lenta, stanca
non produce (più) battito cardiaco
ma dolenti note del ritiro,
                         stracche.
***
La luce di cinepresa andrà ad accendere
avverare l’ultima vita,
(oh, non diciamolo) che avanza –
Correvi sulla passerella, l’anima in vista bella
bianca come una cresimanda
che si fa più amare.

Ti applaudiremo, sarà danza,
intanto voci che guidano il canale
nella spia luminosa chiedono grazia,
e acque da tagliare
*** 
per sentirti più vivo, qui vicino
a pascolare le antiche passeggiate
dei passi tuoi. Aspettami tu Piero,
ma anche la tua Gina che insieme
fate il pane agli angeli la sera,
prima di sorvegliarci con le tue preghiere.

Non conto più gli oggetti alle pareti,
ma sagome vive del silenzio, alberi
a festa che circondano a campana.
Sarà l’impronta del tuo seguito, la cena
a segnalare aria lì davanti,
sacralizzare di ogni chiesa le aperture
finestre mani, senza sepoltura
una campagna esplosa, una madrid
                                  da passeggiata.
***
Sempre i luoghi il mondo sapranno
di noi, dove nascosto
alle tende mormoravi, Siamo nati
e moriremo qui, vicino a voi
come una greppia l’asino ed il bue,
e tu il Gesù convinta di parole, 
muta di segni annosi al fondo al creato,
come se fosse intatto il tempo 
l’eterno tutto qui insepolto
fresco di mondi

indelebili  f u t u r i.


*Cfr. M.P. Quintavalla, I compianti: passeggiata con Correggio, Effigie, Milano 2013.


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