Dittico Pagano*
Ecate
Ogni suo apparire lo stupisce.
L’ha veduta, in questi giorni, crescere
con un’ammirazione
che preparava l’amore
ma che era nutrita di timore.
Ogni sera lasciava che l’umido biancore
invadesse la stanza un poco più.
Ma al momento del sonno
chiudeva gli scuretti.
Ieri notte: nel caldo che scendeva
dal soffitto basso di legno
ricurvo come un ventre di balena,
ha spalancato
la finestrella più vicina al letto.
Si è poi riscosso fra lo scuro e l’alba
prima che si sentissero gli uccelli,
con il petto schiacciato e gli occhi torbi.
Gli era balzata addosso
e il suo bianco malato
aveva offuscato –
gran cappuccio di cobra dispiegato –
il cielo del soffitto.
E stanotte non resta che il cielo
vuoto e rossastro.
Paganìa
Oggi dietro le femmine del coro,
dietro le cristiananti americane,
si vede un altro e differente ploro:
i volti di due tragiche estranee.
Una ha la faccia di Elena argiva
sotto il fitto capello ramato;
e la mano che incerta la scolpiva
le ha dato un naso nobile e scorciato.
L’altra ha il viso di adultera assassina
terrea e stanca ed anziana:
devastata da sua propria rapina,
rïafferma l’aridità pagana –
eredità della tribù d’Atreo –
e strappa il cuore alla parola “reo”.
*Cfr. P. Valesio, La mezzanotte di Spoleto. Prefazione di A. Bertoni, Raffaelli Editore, Rimini 2013 (ndr).
Dittico Cristiano*
Parla una cantatrice in un coro di chiesa
Se apro il canoro libro
e a esso volgo lo sguardo,
gli abbandono la gola e la voce
prima della mente
socchiudendo il seno
prima ancora di schiudere il cervello
al senosenso di quello spartito.
Ogni pagina rivoltata
può essere un taglio di ascia
e forse mi giungerà
la sorte di quella santa
in Alessandria:
già stesa sopra i denti della ruota
le vibrarono un colpo di mannaia
(compassione o impazienza?) e dal collo
latte sprizzò non sangue.
Il mio strumentale corpo
è una canna scavata:
versa il latte del canto,
spruzza come un turibolo impazzito
verso di voi nell’ombra
delle rossastre navate.
La cantatrice all'ascoltatrice
Grazie di avermi fatto ripensare
a quello che cantavo e dicevo.
Dopo molte prove e riprove
io non avevo ancora ben capito
che cosa avessi enunziato.
Che dal collo troncato della santa
“latte sprizzò non sangue”
mi aveva inferto un’intima paura
(temevo il latte quasi più del sangue).
Adesso, forse, un barlume
di comprendimento...
Caterina la vergine, morendo,
si è fatta al carnefice madre
(così l’alessandrina
in un sussurro parla
alla senese sanguivisionaria
da una nube di secolo all’altra).
Allora come oggi, il perdono
dev’essere risultato
a mala pena tollerabile:
come esser privati di colpo,
soffocantemente,
di quell’ossigeno d’odio
di cui si nutre la normalità
del nostro vizio diario.
*Cfr. P. Valesio, La mezzanotte di Spoleto. Prefazione di A. Bertoni, Raffaelli Editore, Rimini 2013 (ndr).
La sfida*
Ha seguito le orme di Francesco
lungo un erto sentiero secco bresco:
su dai gradini della cattedrale,
nella polvere dello stradale.
Sono saliti in volta a Monteluco,
verso il romano antico bosco cupo.
Ma a un certo punto, in margine ad un fosso,
gli si rivolta come un gatto rosso:
“E tu che cosa vuoi da me, o tristo?
Le orme da seguire, son di Cristo!
Accódati al maestro e non al servo –
fatti disindividuo, fatti cervo
che non ha occhi per il santo idolo
ma segue solo il richiamo e lo stimolo".
*Cfr. P. Valesio, La mezzanotte di Spoleto. Prefazione di A. Bertoni. Nota di accompagnamento di P. Valesio, Raffaelli Editore, Rimini 2013. (ndr).