Non
si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno,
Dialettica
dell'illuminismo
Recensioni,
note critiche, extravaganze
Redazione
Sergio Audano,
Gianni Caccia,
Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola,
Lorenzo Fort, Letizia Lanza
Luca
Baiada: Le maschere del caos
di Luca
Benassi
Scheda
biobibliografica
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Le
maschere del Caos – Nell’ingranaggio armato
Il
nuovo Millennio, / Violenza globale / figlia della techne. / Cadono le
torri gemelle, / sfida d'oltremare / al turrito medioevo europeo. / Le
torri del negotium, / eredi del banco, della firma, / del cambio, del
bilancio,
/ tornate alla terra
(da 11 settembre 2001). Giuliano Manacorda nella prefazione
all'ultima
e per quanto ne so unica fatica di Luca Baiada (Le maschere del caos
- nell'ingranaggio armato, Edizioni dell'Oleandro, Roma 2002 con
prefazione
di Giuliano Manacorda) azzarda l'ipotesi ermeneutica di una poesia
neorealista,
intendendo per questa l'aggressione in versi della realtà,
scevra
"dai timori e tremori del proprio piccolo io". Seguendo tale percorso
interpretativo
non sarebbe errato spingersi ad individuare nei versi del poeta un
tentativo
di poesia civile, intendendo per questa un dettato poetico che non si
sottrae
alla responsabilità di essere cronista fedele e giudice severo,
umano e politico, dello scenario (del villaggio) globale e dei suoi
meccanismi
geopolitici ed economici. In questo senso l'Io poetico cede il passo ad
un verso collettivo, graffiante, battagliero e coraggioso, che è
presente a tutti coloro che ogni giorno affrontano la paura (e la
rabbia)
di confrontarsi con lo scenario bellico globale, ma che è allo
stesso
tempo segno di uno straniamento dell'Io che perde il senso e la misura
del proprio essere uomo tra gli uomini nel vivere civile. Il poeta
allora
è preso come indifferente nessuno, inteso da M. Heidegger come
stato
di noia nell'esistere dell'Io, e tale condizione del poeta è
registrata
tra i denti del mostruoso ingranaggio economico, politico e militare
che
è l'intero sistema civile autopoietico stesso, come teorizzato
dal
sociologo tedesco N. Luhmann. Mancano dunque vittime e colpevoli e la
loro
netta identificazione rispetto a un sistema che è nel suo
complesso
il responsabile del caos ostile che minaccia il pianeta. In tale
condizione
la poesia si ritira, estranea ad un'epoca che concepisce solamente lo
scambio
acritico dell'informazione, è costretta ad una cronaca
frammentata
del reale che prende a prestito la lingua della cronaca (quella
televisiva
o da quotidiano locale) e del gergo mezzo inglese delle riunioni
aziendali:
Pronto?
Ascoltami, ho fretta, / adesso c'è un coffee break. / Temo la
contrazione
dei consumi, / dopo quello che è successo a New York. / Non
eravamo
preparati / Ci vuole una risposta dinamica. / Un braintrust deve
sondare
il mercato / per capire il trend (da Driin Driin il bello della
libertà di pensiero).
Baiada
alterna testi brevi ad altri dal respiro lungo non di rado poematico,
con
una versificazione spesso franta, che costringe il lettore ad una
continua
ricostruzione di ritmo e senso. Si potrebbe dare al poeta
dell'impoetico
o dell'apoetico. A me sembra tuttavia che sia necessario cercare il
respiro
di Baiada nella misura della prosa poetica, epigrafica, mutevole nel
ritmo
e sontuosa nello stile, e della quale il poeta sembra voler proporre
una
sua possibile e non unica lettura ritmica, ma in fondo non del tutto
definitiva.
Il ritmo prosastico è tradito, oltre che dalla struttura
sintattica
dei versi, anche dalla scrupolosa presenza della punteggiatura posta a
fine verso, dove l'a capo la renderebbe superflua. Si potrebbe, quasi
per
gioco, riaggregare i versi, farne prosa dunque, ricostruirne la misura
dell'endecasillabo o dell'ottonario, che già affiorano qua e
là
nella raccolta, per cercare nessi nuovi. Comparirebbe allora l'ombra di
Campana e il suo selvaggio tentativo di riunire in un solo luogo suono,
immagine e parola tracciando dalle nebbie dell'inconscio il panorama
scheletrico
del mondo: È il balletto delle equidistanze / che s'avvolge
di
contorsionismi. / È la maschera sopra la maschera, / è il
fumo sopra la fiamma. / Una cappa di piombo e di tela, / contrappeso
d'Oriente
e d'Occidente, / per reciproche gabbie segrete. / Mentre Aurora ha un
tessuto
palpabile, / nell'Oceano il progresso costruisce / maschere nella trama
sociale / e finzioni d'ordito perbene, / che la femmina pronta ripete /
travestita da maschio operoso / o occhieggiando, boccone agognato, /
fra
le prede del vasto usa e getta, / per cui trottano ufficio e officina
(da Burkaplacenta vuoto a rendere).
Baiada
e la sua poesia ci mettono in guardia da ogni tentativo di riduzione di
senso, da ogni tassonomia definitiva del reale che si sottragga
all'inevitabile
dinamicità della diversità dei punti di osservazione, da
ogni tentativo di semplificazione da telegiornale della sera, da ogni
manicheismo
condominiale imperniato su una holliwoodiana identificazione dei buoni
e dei cattivi: Fuoco, fumo, / tanti omini che cadono giù. /
E
addio a quelle due brutte torri. / Guarda, Poppea: / ho versato una
lacrima.
/ Allora sono commosso, / portatemi la cetra! / Che grande artista
sono.
// Certo, ci vorrà un colpevole. / Ma accuserò i seguaci
/ di quel sobillatore d'Asia. / Sempre turbolenti, i Semiti. /
Tigellino,
pensaci tu. / Mi raccomando: / ad leones (da 666 da un lussuoso
triclinio). Il poeta dunque gioca sulla molteplicità dei
punti
di vista, osserva con coraggio il poliedro del reale, attraverso le sue
facce strania il lettore arrivando ad identificare l'Io poetico con il
punto di vista del terrorista mentre si lancia contro le torri gemelle,
nostra nemesi umana eppure figlio della nostra stessa
aggressività
e paura: Ci sono, lo specchio si avvicina, / vetro, vetro e
acciaio,
/ dall'altra, dall'altra parte / l'infinito mi attende, / Munkhar e
Nakir,
/ e il ponte sull'abisso, / il ponte più sottile di un capello
(da Clessidra allo specchio manoscritto trovato nella scatola nera).
Baiada utilizza le frecce dell'invettiva, imbevute di sarcasmo,
scagliate
con il coraggio del rifiuto di ogni possibile verità che voglia
proporci un reale già digerito, impastato di CNN, frullato di
perbenismo
da scaffale colmo di supermercato: Il mulo bipede, stretto alle
catene
di orari / dure in produttività, trova già pronta la
biada
/ in confezione spettacolo, la refurtiva in razioni / dal compiacente
saccheggio
che impegna tutta la vita: / furbesche complicità nel devastare
la storia. / La trama già prevedibile, le variazioni scontate, /
le facce rassicuranti dei divi prefabbricati: / giusto dosaggio mirato
di nudità e aggressione, / di devianza e castigo, fingendo i
premi
posticci / di lieti fini salvifici e sicurezze catartiche. /
Così
la macchina umana autoalimenta la noia, / gustando sere al veleno
nell'azzurrino
domestico / o nel tempio labirinto in multisala-santuario: / tetre ore
d'aria elettroniche, pillole per l'evasione (da Vexilla regis
prodeunt
inferni). Da tale dettato il poeta si discosta raramente, nulla
regala
alla memorialistica evocazione dell'esistere, al canto, alla leggerezza
del ricordo (sarebbe ancora possibile?), se non nella trilogia dei
Cipressi,
accorata rievocazione del proprio passato maremmano che risuona di
certi
echi Dannunziani e del Carducci delle Rime Nuove, oltre al
già
citato Campana: Cipressi, / basta un fremito lieve del maestrale /
quando
il salso tirreno / trascolora la macchia e la lecceta / e la marina
vibra
/ orlando gli infiniti all'orizzonte, / ed ecco che benigno / un abisso
rintocca / per risalire lo scaleo dei giorni (da Trilogia dei
cipressi).
In
ogni caso il nostro poeta non perde mai di vista le matrici culturali
che
guidano come vettori il dettato poetico: attento conoscitore del Corano,
della Bibbia e della mitologia classica, da essi trae
l'impalcatura
culturale dell'intero libro in una fitta rete di richiami tra i testi e
rimandi alle fonti originali. Cede forse troppo spesso alla lusinga
della
citazione dotta, del nome esotico da dizionario mitologico, alla lingua
greca, latina, araba; al punto da ravvisare la necessità di
inserire
note esplicative a fine libro che risultano indispensabili al lettore
poco
uso a certe frequentazioni letterarie per schiudere il significato dei
testi.
Che
sia un dettato nuovo, quello di Baiada, nel panorama poetico italiano,
non ne abbiamo dubbi. Come non abbiamo dubbi sul suo coraggio di
parlare,
di evocare i fantasmi del nostro vivere quotidiano, sul suo senso di
responsabilità
nell'affrontare una materia ardua eppure tremendamente attuale. Ci
auguriamo
solo non passi inosservato, che non sia ignorato da critica e pubblico,
come di solito lo sono i poeti che ci dicono la verità.
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