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Luca Baiada: Le maschere del caos
di Luca Benassi
Scheda biobibliografica

Le maschere del Caos – Nell’ingranaggio armato

Il nuovo Millennio, / Violenza globale / figlia della techne. / Cadono le torri gemelle, / sfida d'oltremare / al turrito medioevo europeo. / Le torri del negotium, / eredi del banco, della firma, / del cambio, del bilancio, / tornate alla terra (da 11 settembre 2001). Giuliano Manacorda nella prefazione all'ultima e per quanto ne so unica fatica di Luca Baiada (Le maschere del caos - nell'ingranaggio armato, Edizioni dell'Oleandro, Roma 2002 con prefazione di Giuliano Manacorda) azzarda l'ipotesi ermeneutica di una poesia neorealista, intendendo per questa l'aggressione in versi della realtà, scevra "dai timori e tremori del proprio piccolo io". Seguendo tale percorso interpretativo non sarebbe errato spingersi ad individuare nei versi del poeta un tentativo di poesia civile, intendendo per questa un dettato poetico che non si sottrae alla responsabilità di essere cronista fedele e giudice severo, umano e politico, dello scenario (del villaggio) globale e dei suoi meccanismi geopolitici ed economici. In questo senso l'Io poetico cede il passo ad un verso collettivo, graffiante, battagliero e coraggioso, che è presente a tutti coloro che ogni giorno affrontano la paura (e la rabbia) di confrontarsi con lo scenario bellico globale, ma che è allo stesso tempo segno di uno straniamento dell'Io che perde il senso e la misura del proprio essere uomo tra gli uomini nel vivere civile. Il poeta allora è preso come indifferente nessuno, inteso da M. Heidegger come stato di noia nell'esistere dell'Io, e tale condizione del poeta è registrata tra i denti del mostruoso ingranaggio economico, politico e militare che è l'intero sistema civile autopoietico stesso, come teorizzato dal sociologo tedesco N. Luhmann. Mancano dunque vittime e colpevoli e la loro netta identificazione rispetto a un sistema che è nel suo complesso il responsabile del caos ostile che minaccia il pianeta. In tale condizione la poesia si ritira, estranea ad un'epoca che concepisce solamente lo scambio acritico dell'informazione, è costretta ad una cronaca frammentata del reale che prende a prestito la lingua della cronaca (quella televisiva o da quotidiano locale) e del gergo mezzo inglese delle riunioni aziendali: Pronto? Ascoltami, ho fretta, / adesso c'è un coffee break. / Temo la contrazione dei consumi, / dopo quello che è successo a New York. / Non eravamo preparati / Ci vuole una risposta dinamica. / Un braintrust deve sondare il mercato / per capire il trend (da Driin Driin il bello della libertà di pensiero).
Baiada alterna testi brevi ad altri dal respiro lungo non di rado poematico, con una versificazione spesso franta, che costringe il lettore ad una continua ricostruzione di ritmo e senso. Si potrebbe dare al poeta dell'impoetico o dell'apoetico. A me sembra tuttavia che sia necessario cercare il respiro di Baiada nella misura della prosa poetica, epigrafica, mutevole nel ritmo e sontuosa nello stile, e della quale il poeta sembra voler proporre una sua possibile e non unica lettura ritmica, ma in fondo non del tutto definitiva. Il ritmo prosastico è tradito, oltre che dalla struttura sintattica dei versi, anche dalla scrupolosa presenza della punteggiatura posta a fine verso, dove l'a capo la renderebbe superflua. Si potrebbe, quasi per gioco, riaggregare i versi, farne prosa dunque, ricostruirne la misura dell'endecasillabo o dell'ottonario, che già affiorano qua e là nella raccolta, per cercare nessi nuovi. Comparirebbe allora l'ombra di Campana e il suo selvaggio tentativo di riunire in un solo luogo suono, immagine e parola tracciando dalle nebbie dell'inconscio il panorama scheletrico del mondo: È il balletto delle equidistanze / che s'avvolge di contorsionismi. / È la maschera sopra la maschera, / è il fumo sopra la fiamma. / Una cappa di piombo e di tela, / contrappeso d'Oriente e d'Occidente, / per reciproche gabbie segrete. / Mentre Aurora ha un tessuto palpabile, / nell'Oceano il progresso costruisce / maschere nella trama sociale / e finzioni d'ordito perbene, / che la femmina pronta ripete / travestita da maschio operoso / o occhieggiando, boccone agognato, / fra le prede del vasto usa e getta, / per cui trottano ufficio e officina (da Burkaplacenta vuoto a rendere).
Baiada e la sua poesia ci mettono in guardia da ogni tentativo di riduzione di senso, da ogni tassonomia definitiva del reale che si sottragga all'inevitabile dinamicità della diversità dei punti di osservazione, da ogni tentativo di semplificazione da telegiornale della sera, da ogni manicheismo condominiale imperniato su una holliwoodiana identificazione dei buoni e dei cattivi: Fuoco, fumo, / tanti omini che cadono giù. / E addio a quelle due brutte torri. / Guarda, Poppea: / ho versato una lacrima. / Allora sono commosso, / portatemi la cetra! / Che grande artista sono. // Certo, ci vorrà un colpevole. / Ma accuserò i seguaci / di quel sobillatore d'Asia. / Sempre turbolenti, i Semiti. / Tigellino, pensaci tu. / Mi raccomando: / ad leones (da 666 da un lussuoso triclinio). Il poeta dunque gioca sulla molteplicità dei punti di vista, osserva con coraggio il poliedro del reale, attraverso le sue facce strania il lettore arrivando ad identificare l'Io poetico con il punto di vista del terrorista mentre si lancia contro le torri gemelle, nostra nemesi umana eppure figlio della nostra stessa aggressività e paura: Ci sono, lo specchio si avvicina, / vetro, vetro e acciaio, / dall'altra, dall'altra parte / l'infinito mi attende, / Munkhar e Nakir, / e il ponte sull'abisso, / il ponte più sottile di un capello (da Clessidra allo specchio manoscritto trovato nella scatola nera). Baiada utilizza le frecce dell'invettiva, imbevute di sarcasmo, scagliate con il coraggio del rifiuto di ogni possibile verità che voglia proporci un reale già digerito, impastato di CNN, frullato di perbenismo da scaffale colmo di supermercato: Il mulo bipede, stretto alle catene di orari / dure in produttività, trova già pronta la biada / in confezione spettacolo, la refurtiva in razioni / dal compiacente saccheggio che impegna tutta la vita: / furbesche complicità nel devastare la storia. / La trama già prevedibile, le variazioni scontate, / le facce rassicuranti dei divi prefabbricati: / giusto dosaggio mirato di nudità e aggressione, / di devianza e castigo, fingendo i premi posticci / di lieti fini salvifici e sicurezze catartiche. / Così la macchina umana autoalimenta la noia, / gustando sere al veleno nell'azzurrino domestico / o nel tempio labirinto in multisala-santuario: / tetre ore d'aria elettroniche, pillole per l'evasione (da Vexilla regis prodeunt inferni). Da tale dettato il poeta si discosta raramente, nulla regala alla memorialistica evocazione dell'esistere, al canto, alla leggerezza del ricordo (sarebbe ancora possibile?), se non nella trilogia dei Cipressi, accorata rievocazione del proprio passato maremmano che risuona di certi echi Dannunziani e del Carducci delle Rime Nuove, oltre al già citato Campana: Cipressi, / basta un fremito lieve del maestrale / quando il salso tirreno / trascolora la macchia e la lecceta / e la marina vibra / orlando gli infiniti all'orizzonte, / ed ecco che benigno / un abisso rintocca / per risalire lo scaleo dei giorni (da Trilogia dei cipressi). 
In ogni caso il nostro poeta non perde mai di vista le matrici culturali che guidano come vettori il dettato poetico: attento conoscitore del Corano, della Bibbia e della mitologia classica, da essi trae l'impalcatura culturale dell'intero libro in una fitta rete di richiami tra i testi e rimandi alle fonti originali. Cede forse troppo spesso alla lusinga della citazione dotta, del nome esotico da dizionario mitologico, alla lingua greca, latina, araba; al punto da ravvisare la necessità di inserire note esplicative a fine libro che risultano indispensabili al lettore poco uso a certe frequentazioni letterarie per schiudere il significato dei testi. 
Che sia un dettato nuovo, quello di Baiada, nel panorama poetico italiano, non ne abbiamo dubbi. Come non abbiamo dubbi sul suo coraggio di parlare, di evocare i fantasmi del nostro vivere quotidiano, sul suo senso di responsabilità nell'affrontare una materia ardua eppure tremendamente attuale. Ci auguriamo solo non passi inosservato, che non sia ignorato da critica e pubblico, come di solito lo sono i poeti che ci dicono la verità.


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