Non
si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno,
Dialettica
dell'illuminismo
Recensioni,
note critiche, extravaganze
Redazione
Sergio Audano,
Gianni Caccia,
Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola,
Lorenzo Fort, Letizia Lanza
Letizia Lanza: Poesie Soffocate
di Bruno
Rosada
Scheda
biobibliografica
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Qualche
storta sillaba. L’obiettivo ideale di Montale e di Contini di una
poesia
che si riducesse (anzi no, concentrasse) tutta in qualche storta
sillaba
si svelò non raggiunto agli autocritici occhi di Montale che
scoprì
qualche decennio dopo di aver scritto gli Ossi “ore rotundo”.
Altro
che qualche storta sillaba.
Qui leggendo
questo aureo libretto
di Letizia Lanza vien fatto di ripensare a quei programmi, di fare
poesia
con la non-poesia – programmi falliti almeno in parte per la
contingente
congiuntura dannunziana (cui, come ha dimostrato Mengaldo, malgrado le
intenzioni Montale non riuscì a sottrarsi) e l’ineliminabile
petrarchismo
melodioso cantabile che pesa sulla poesia italiana da cento anni almeno
prima di Petrarca: colpa forse di Jacopo da Lentini.
E
qui nel libretto di Letizia Lanza dal titolo eloquentemente
programmatico
Poesie soffocate, le sillabe sono più
che storte, sono dichiaratamente
«sillabe di vuoto / incerto inauscultabile / bar-bar /
del
cuore», in un sforzo riuscito di piegare il linguaggio, che sia
pure
entro certi limiti è la proiezione materializzata delle
strutture
logiche della mente, alle più profonde non-ragioni di una
«sbalestrata
mente / ondivaga» che ha il sapore di una emotività
ancestrale,
mettendo in moto un processo di contraddizioni non dialettiche e non
dialettizzabili,
che del resto in qualche modo si avvicinano per la loro ragion d’essere
ai paralogismi e alle antinomie della kantiana critica:
«Rabbercio
parole, / accatto suoni – / oziosi brandelli».
Se
qualcuno si aggira ancora fra le impervie strade della metafisica
ponendosi
tra altri ardui problemi, come quello della quadratura del cerchio o
quello
del moto perpetuo o quello dell’uovo e della gallina, quello
dell’essenza
della poesia, se sia questa essenza nella forma o nel contenuto, nel
significante
o nel significato, qui trova una risposta esauriente. L’accurata
elaborazione
della materia fonica che giuoca sapientemente più sulle
consonanti
che sulle vocali («ansia irruenta» – «crepitanti
singhiozzi»
– «rabbia ribalda» – «esaspero vana esistenza»
–), ma che dalle vocali, normale strumento di melodia lirica, sa trarre
strutture di angoscia tenebrosa («a riveredereavere
veridico»
– «un rivivere pusillo» –) si spalma sul significato o
più
spesso lo produce svolgendo funzione di forma simbolica. E il
significato
appare allora sotto forma di pensiero poetante che, disarcionato dalla
struttura concettuale, si affida allo stato d’animo profondo. Tema
fondamentale
«Inaridío nihilo» attorno a cui ruota un più
vicino giro di concetti riassunti nei versi «esaspero vana
esistenza
/ di stremato fascino». A ben vedere sono cinque parole ognuna
delle
quali costituisce una tesi: il centro è la vanità
dell’esistenza
(ma è da definire separatamente il “vano” e “l’esistere”; il
fascino
è la problematica gnoseologica, la possibilità di
conoscere
quell’esistenza, possibilità stremata non solamente dai limiti
della
pura ragione, ma da una esasperazione che li restringe
ulteriormente.
Attorno
a questo tema orbita tutta la complessa tessitura di questo insieme di
testi. Un certo fenomenismo («parvenze di vita»), la
caducità
del vivere («un momento breve / come l’occaso»), il
convenzionalismo
(«rivesti l’anima di ragioni»), il Dasein («frantumo
di vita»), i momenti di gioia («felicità
felina»
– «e il cuore ride»), e di «stolta gelosia»,
l’angoscia
(«lamenti teneri / di morte»), la solitudine
(«crepitanti
singhiozzi / in solitudine / bruma»).
E
ognuna di queste indicazioni (indigitamenta) si lascia
analizzare
e scomporre in infinite e indefinite parti, in una struttura
a-concettuale,
che riconduce alla produttività del linguaggio usato scomposto
creato
e ricreato.
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