Riincontrarti forse
acqua
rapida sul declivio
come
la tua vita soltanto
prima
giovinezza tra sterpi e rovi
ormai
oblìo della trama
fra
ricordo vuoto e sogno
parole
estranee sole ad evocare
l'inattingibile
amore ora
muto
infinitamente pregno adeso
avvolgente
fantasma dissolvente
le
minime incertezze la deriva
quel
volo stridente des hirondelles
estenuante
bolero al tramonto
evocante
esiziali armonie altre.
Ci
guardano i balbettii profusi
delle
cose nei loro scivolamenti.
Il
ritorno alla pianura
Il
ritorno alla pianura
è
pullula fantasia di passi
e
percussioni su una reticolata
geometria
epica e tragica
di
campi cesure abbeveranti
canali
e filari di viti
grumi
di gelsi e frutteti
tappeti
di frumento trapunti di papaveri
mansarde
cromatiche fondanti
giallo
verdi increspate dal vento
da
suoni e voci agresti.
Dileguato
il gesto del seminatore
ampio
arco del cuore naturale
ma
alta alla luna sorniona
si
intravvede la mina d'amore
che
pulsa il prodigio delle stagioni
le
maree dell'anima e il rumore
agreste
del respiro dell'universo.
Stendo
al sole sguardi cromatici
plasmati
dal mio vento di passione
in
mappe e disegni che libro
all'aria
polline nostalgico
alla
ricerca di orme arcaiche segrete.
Grilli
e fronde inneggiano
alla
Urfantasia.
L'agenda
in attesa di voci amiche
L'agenda
in attesa di voci amiche
rende
i petali dell'iris sorprendente
eliche
gentili cineree
per
voli altri ultra universi
ed
orizzonti alla ricerca della cosmica
poesia
eterea dei nostri scarti
algoritmi
penosi di sguardi
silenzi
bianchi elisi.
I
versi sempre più dispersi
gemono
vocali di luce lirica
soffiata
da distanze astratte vibranti
mute
elegie per uditi assoluti
e
privilegiati attimi di vita.
Per
me queste pomeridiane faville
mentre
spargo attese elucubranti.
Luna
che ancora resisti
mia
pallida speranza di vita
sempre
più rifletti la morte.
Prenderò
posto alla brezza verde
Prenderò
posto alla brezza verde
alla
chiarità in suono di parola
distilleremo
sillabe di bellezza
floema
di nuova spiritualità
in
paludamenti d'ombra riposante.
Stella
matutina avis aurorae
nelle
sinestesie di rododendri
e
corde liutee in altri percorsi
inattesi
sulle punte di pioppi
e
cipressi. Mendico il vuoto
l'assenza
l'incipit che mai inizia
la
vostra distillata eternità.
Oporagita
mi giungi per colmare
il
disegno di vita
e
nel chinarti riduci il cielo
che
prima t'incielava.
Una
strana estranea melodia
Una
strana estranea melodia
di
note falde nivee
nel
silenzio primevo della notte
coglibili
con mani
viole
o margherite d'amore
di
sogni particolari e muti
di
tempi sempre più lontananti
doviziosi
di vuoto terso
e
cromosomi di cellule eteree.
Loro
ormai melodie astrali
mi
versavano petali puri
vocali
di parole eclissate
quasi
esclusivo alfabeto poetico.
Nella
sfera di neve onirica
vagavo
in falde di metamorfosi
mistica
all'estenuante ricerca
di
vera neoesistenza.
Uccelli
e le luci
il contrasto amoroso delle cose
fluttua l’entropia
del
bell’universo sazio di dominio
e ironia.
Respiriamo
serenamente questa
avventura
poematica
sulla dialettica rischiosa
della materia.
L’urgenza
delle immagini e dei
ritmi scoordina
il rigore
degli innominabili
direttori d’orchestra.
Ci si perde
nel punto di fuga
della bellezza desiderata.
Non tutti si
è spiriti
di questa epoca
che sofistica
l’essenza della
luce e il concetto
mette in
difficoltà gli
dei e l’enigma degli abissi
trottola il
mondo di satelliti
e sonde
si
maschera dietro scudi
spaziali.
Suscitano
meraviglia il pensiero
inesprimibile
del silenzio,
il cavillo che
non decide nulla
l’aura
sbiadita e fittizia della
parola.
Ma lo sguardo
invisibile del
sangue
illumina il
campo e la volta
in cui siamo,
la crisi del cielo
per produrre
e articolare
luogo per esplodere
un adorabile
azzurro fiume
alla bontà
ho mirato in alto per accostarmi
agli uccelli
ostacolato sempre
da qualcosa
come un
diaframma divino un’etica
disperata.
Ma se il
pensiero del desiderio
muove
anche oltre
ciò che più
accosto si discosta
o svia
è nell’orizzonte
più schivo la convinzione
di uscire e
tendere al creato
con nobiltà
vada per la connivenza delle genti
paziente
e modulante
senza radicalismi
miopi
giobbe docet
“homo … brevi vivens
tempore
repletus
multis miseriis, qui
quasi flos
egreditur et
conteritur et fugit
velut umbra”
e allora
perché ergersi
dispotici
in scene
quotidiane di bassa
lega.
Si deve
essere insieme nel sapere
ricco di
incognite ed inesauribile.
Ci si rivolga
dunque con filosofia
soffice
alla marea
ornitologica gentile
in affetti
conoscitivi più
umani e perspicui.
Intanto
tutelo il nido e la tua
peluria
legata
all’altro e docile al
sole
i loro aspetti tulle e la sagoma
di luce bizantina
fendono
fulminei il magico turchino
delle frange
o un brivido del
vento.
La prefazione
scorre frasi screziate
nella giacca
da mare idrorepellente
alla maltese.
Con
calligrafia insulare e incertezze
aggiusto
cromosomi artificiali
ed allegorie.
Quasi mi
confronto alla carlona
con dumbo
ed asinelli
sospesi della bacheca
dèco
e sfoderato
mi appiglio all’ultima
glossa
dello
sciopero sfacciato dei
treni
nel
narghilè di accordi
più civili.
In teoria
consolo le mialgìe
migranti
in un piano
alto e senza orpelli
gli uccelli
del tempio tardano
a venire
di notte bagno discolo il letto
nel profumo
più
buono di mia madre
sogno i nidi
da toccare
scivolo fra le righe
del risveglio
chiedo il sale
per la coda
del passero
titubante sul filo
dell’alta
tensione
tento pigmalione la
tua ieratica cicogna.
Le rondini
hanno già ballato
il mio primo vere
invidio il
merlo autoritario
e i solfeggi
da
centellinare nell’inverno
blasfemo
poche curve
appannano il suono
della campana
nella sera di
cera seppia
sei quasi spettro carenato con
ossa
pneumiche tra
poco ce la fai
a decollare
icaro fasullo
prodotto dell’ingegno
e di colpo il
vuoto mi perfora
non ho adipe
da perdere l’ombra
lunga
della scabra
identità
mi intimizza
cogli
intellettuali volanti
nell’estro
surreale del nuovo
regno
gli uccelli mentre temo scartano
il nostro
teatro picchiato
beccano nel
fulcro retorico conversazioni
con perle
improvvise scomposizioni
elusive
in uno
sbalordimento catastropico
l’abito è una costellazione
vaga
che cangia il
clima della sostanza
un fluido di
penne prensile organza
dalla iniziale U con barra mediana
apprendo
la natura
umana che nasce dalla
vergine
perenne e la
barra è la
croce
che lega Dio
e l’uomo.
Questa
lettera si adatta bene
a loro
iperboli di
unione al corpo aerodinamico
alle
caleidodiavolerie amene.
Dalla casa
vegetale si può
comunque forzare
qualsiasi
spunto formale sino
al mimetismo.
Mi ritrovo
laconico tra figure
fortissime
di malinconia
mentre divago
sull’immortalità
dell’anima
e scene
zoomorfe mi portano via
la doppia C vasca fra U ed E
apre
moltissimi termini cavi
carismatici
caro charitas
culla cavea cupio
carmina costa
cella cera cappio
cielo cima
chiodo crisma clima
calma culmine
capo cibo credo
cosmo croce
chiesa corpo cristo
calligramma
costume casa copia
cupido
catarsi
cupola ciglio cosa creta
e un folto
vocabolario disperso
figurato
che si mangia
lettere e rimario
le braccia aperte in frecce mistiche
l’irrorata
adorazione delle vittime
un cavallo
quasi a dondolo per
l’usignolo
l’esodo
suntuoso a pioggia a
raffica a pecorelle
riconducono
all’elicoide dell’uomo
cosmico
rimeditiamo attentamente: fin
dai tempi antichi
il loro passo
è stato
interrogato come casa
di eventi
fato ritorno
apertura per
lume e buio
una
densità desituata
un
affievolirsi ipolettico del
visibile
la riflessione elegiaca auspica
un viaggio
ecologico
sulle lacune del tempo
nello spazio.
Per magia
escono a panorama dai
miei frantumi
scrivono un
trattato ostensivo
dilagano
retine di insonnia vigilati
dalla notte
nel rimbombo
delle prede e delle
cacce.
Magari
svelarne la pronuncia
trasgressiva
il canto riverbera la melodia
silenziante dell’universo
nenia di una
lingua morta.
Ogni tipo
canterino srotola impulsi
latenti
un tic
elegante del capo o dell’itto
finale
può
sembrare tortile con
la grazia tenera
della
prigione che ne tiene
il dipinto o
la chiave di evasione.
Le fonti di
allevamento sono
un libro
in codice o
di segreti filtri
perché
le immagini non
sono sempre
reale
espressione delle virtualità
vocali.
Un corso
felice si avvia tra
spartito e sembiante
con strette
zampine e complimenti
soffi carini
e ammicchi di ispirazioni.
Il corpo
iniziale deve splendere
e scoprire
sul rigo il labirinto
drôlerie
a volte il solista reca chiari
di luna
e fari di
cieli
come il mio
astuto canarino fiorito
di acuti e
battute d’arresto
impazziva
in discesa al
mio la d’imbeccata
ed in obliqua
attesa mi sbirciava
con l’anima.
L’ho perso
nelle ridondanze degli
impegni
e ne avverto
la scia colloquiale
della
prossimità sul rotolo
delle scale
le rondini girano accanite le
guglie.
Il tratto
biblico incide e unisce
nel fendere
partendo
attrae
crea profilo
e contorno si muove
sulla traccia
di qualcosa in
più
sporgono sempre da un orlo da
un fronte
d’onda
mozzafiato che oscilla
il fantasma
del senso e
della vicina lontananza
geroglifici
di tutte le stagioni
e versioni
nella
ebbrezza dell’orizzonte
ammorbidiscono l’ombra e
l’opacità
per
riflettere l’anima in sé
e nel mondo
annunciano
fata morgana
il nostro sguardo li rinnova
e nel mare
rimane
l’ansia del gabbiano fanatico
ideale della
nostra percezione
più
semplice e limpida
ripiombano saette nel ventre a
rimproverarmi
della troppa
scrittura a scrutare
e rapprendo
qualcosa che mi acceca
e mi essenzia
di sensibilità.
Nel buco nero
schiacciato del
pensiero
scoppia la
festa del vuoto
viti virate
di fogli bianchi
mater voce
il crinale aereo combina sorpresa
e teologia
perturba
l’oro dell’anima
abitano poeticamente appellativi
onomatopeici
per qualche
citazione fantastica
rigogolo
calliope rampichino
picchio
torcicollo
lucherino quattrocchi
piropiro.
Curvano
l’inconscio del cielo
il vero
specchio per far vedere
o mostrare
qualcosa.
Il richiamo
avvolgente mi butta
virtualità
impensabili
la pelle d’oca
l’attimo del
mutamento che libera
energia.
Il crepuscolo
perdona agguati
specie
aggressive violenza indotta
e mi barocca
in voliere di pailettes
la baldoria smerigliata rincorre
i crismi
di salute
mattinate o cantate
o colinde
sagre degli
osei in virtuose
gabbiette.
Mummie sparse
stilizzano il forte
fasto
un sereno natale con cocoriti
può
far fioriti il desco
e il bambino
privato del
simbolo sconnesso
di muse
perfino
illuso da crocide cornamuse.
L’ale di vale
è sempre
augurale
una strenna
di salve e armonia
miriade o stormi non si sa da
dove
emoziona a
migrare a disattendere
i segnali
dell’occhio
l’insistenza
dell’invisibile.
Dunque filano
nel problema nuance
scintille
impermanente fluttuazione
che non
sgombra il vuoto
gocciolano per vezzo un po’ di
alone macaronico
forse il sano
istinto oscuro
per capire
e meglio
dialogare. Mi lascio
bere in fiacca
sopravvivenza.
Volteggio nella
loro armoniosa
coerenza con
il ritmo universale
e mi consumo
nella nivea terapia
ornitomusicale
forse
resuscito salubrità
cerebrale
sottosotto un oceano di guai uccellati
gonfia parole
di rabbia e invidia.
Non
c’è certo una esposizione
organica del tema
perché
già l’ecologia
dell’aria cammina
a piedi nudi
nei tigli del tramonto.
Detonare cose
non nuove in forma
nuova
è in
fondo un noise mentale
come impegnarsi
con il sole
maculato del millennio
fuoribordo.
Nell’esaltazione
la voce della
scrittura
con un peso
diverso fa il pavone
si adatta
alla mimetica
intimità
del senso bene guidata
può
trasformarsi in albero
romantico
che delega
libere penne foliari
che bisogna
salvare con i campi
i giardini
i pastori e
le acque spirituali
i parvoli rispuntano la verità
del libro
del cielo con
la storia dei liquidi
della
conoscenza sopra il firmamento
che riflette
mirabilmente anche
il nascosto
nel
controambiente dello sguardo
anaforico e passionale in bird-watching
voglio
anagrammarmi nei voli
del silenzio
nella
bibliografia profetica.
Peraltro mi
illudo paradigma
perché
mi tendo al
posto loro e non
mi accorgo
della
vanità e mi rassegno
è aleatorio che possano
raggiungere la terra
promessa a
volte maestri o anime
estinte.
Lei si
protrae sulle piume
condivide le
forme aviarie più
strane
a penetrare
le nuvole del taciuto
universale
il sibilo umano può ancora
perforarne
la polisemia
disorientarne ultrasuoni
misteriosi.
Gli involucri
anagogici spandono
rispetto
no proprio no al cacciatore
l’ho sempre squadrato con riluttanza
fariseo dell’agguato con troppe
C
lupine e falcianti nel nome
nella riserva che ci fa tanto
aggressivi.
È una guerra subdola ad
armi impari
camaleonte lui tira si ripara
spara polvere e pallini
istruisce frottole e un tribunale
bellico delle vittorie e decimazioni.
Ai vinti restano soltanto la
paura e la fuga
nella misura in cui la violenza
del piombo
sboccia la rosa e offende.
Ho tralasciato in parte vari
amici
per divergenza idelogica e cene
avvolgenti
di cacciagione con vini pieni
delle langhe.
Non so chi abbia in assoluto
ragione
ma penso che questi tipi di esibita
uccisione
celino versioni particolari di
mostruosità
narcisa la morte tua è
specchio
e brama della vita mia
in continua microbelligeranza
di follia.
Con queste schegge imprecise
la povera storia non è
finita
e per fortuna lascia al cielo
mecenate
l’ultimo verbo e il celeste
Rêvéries
Un ipotetico desiderio onirico
in crisi
d’aria e di memoria.
Una
drepanoluna da incorniciare
con accenno
di sorriso cosmico
per allietare
amici e attimi
tristi.
Un esile
sipario per coprire
l’ombelico
femminile così
svilito
cupo
insensatamente esibito
intima
memoria di cordone vitale
anche in
precoci fanciulline
guizzose
squinzi perturbanti.
Un prato
verde dimenticato
con fervido
odore di passato.
Una fontana
anziana di paese
a getto pieno
effervescente.
Un capitello
della mia infanzia
ad un
quadrivio con didascalìa
ave Maria
gratia plena.
Un olmo colmo
di memorie
con panchina
ed ombra riposanti.
Un campanile
elevato vecchio
stile
con campane
austere anziane
ed
orologio clemente con
silenti sfere.
Un paese a
dondolo sospeso
per
rêvéries nostalgiche
essenziali
della voce
del silenzio
dell’intimo
verde rammemorare.
La casa della
maestra mater mea
ove sono nato
e cresciuto di
prima mano
per una
rigenerante distrazione.
Un albatros
bianco
criante in
baia elbana.
Una ecologica
etica riflessione
sul cratere
d’ozono
triste
ombelico d’una sconsiderata
umanità.
Cristofania
Nel mondo in apatia ecosofica
scendendo per
abluzioni euristiche
a reperire
una bellezza non solo
estetica ma
nel puro fermento
dell’essenza
religiosa mi sono
quasi
assimilato nel Cristo paziente
della Croce,
lampante kenosi
neocreatura
in sé sottrazione
dell’abisso
fra divino e umano
con adesione
alla realtà
dello Spirito
e globale
etico rinnovamento.
In
divinità così
meta sublime
per empatia a
struggermi di dedizione
un’oasi di
pietà e di
luce albale
avverto che
già nello
sguardo
mi sussurra
distaccarlo e di
assumere
il peso
infrenabile dei peccati
del mondo su
questo legno freddo
sacrificale.
Ma sterpo scialbo
escluso dalla
vera verità
non potrei
gemere sangue sacro
dalla piaga
destra del costato
che tu
pulzella mater ben sai
e detergi e
neppure accollarmi
tanta offesa.
Ineffabili le gocce
ematiche
gemiti dell’anima
d’ecce homo
misterium tremendum
passionis.
Questa croce che evoca
sciami di
pargoli mi rapisce
e immerge
nel segreto
divino m’inlignea
di storia
eterna con pullulìo
di fronde
dalle
braccia, rizoma dai piedi
casco foliare
biondo dal capo
neoparole
mistiche sonde
indefettibili
di trasfigurazione.
Il sangue
splende ora bianco
seduce ogni
sinopia di sindone
e dalle spine
gemma urdolore
a
ripristinare una connivenza
umana
in alleanza
di cuore mente
e
trascendenza di vita dell’universo.
Nell’oceano
incognito si nasce
nel mare
della memoria
e
dell’assenza si scompare.
Antiqua
poesis
Il neutro frattale purissimo
il trono
abiotico più
elevato
che non
è più.
L’orologio esatto
ci discende
sottili alla scuola
delle attese.
L’aria tesa opalina
fervide
parole emozioni
sentimenti
fuga i doni fra mani
risuona
brividi tattili fonici
abbassa gli
occhi di sinuosi
pensieri del
nuovo genio sorpreso.
Sequenza da ogni finestra Piero
della
Francesca strappa in colori
mistici
stanze
chiasmi illegibile estasi
partorisce
laiche madonne albuginee
dagli occhi
declivi appena affacciati
pudichi di
bucato nei passi
di lecci
ulivi nella metempsicosi
vegetale
istintiva di profili.
La quiete
procede nella storia
della vera
croce nelle tele sfinite
goiellío
frizzante di
azzurri
ricostituenti
irraggiungibili
cripte.
Il caos
complice incrollabile
ripristina
cardiopalmo imitazioni
letture
anamorfiche attese.
Altari lignei basi barocchi
intarsi
lapislazzuli corbezzoli
finte mosse
mute dei vuoti
nelle pause
di pieni opulenti
Cercavo
questa affine cinestesia
d’enorme
pesce inebriante
di siti nomi
suggestioni
nel miscuglio
di parole sulla
via
braccato da
luce che scortica
le ombre
con un mare
tra en sof e il filtro
della mente
conscia di non sapere
niente
dei veli
falsi o veri delle cose
ora che
rivedo e mi ritrovo carte
di sogni
senza farle sognare.
Momenti lampo
e dopo il linguaggio
sopra cime
dubbi assenze
ci diverge in
fiamme distanti.
Anche
stavolta le notti ci donano
lasse
similari e testura chiaroscura.
L’anima
persuade l’occhio sublime
a rincorrere
in alto il suo sguardo
lasciando
l’alito aglioso e la
luce
nera alla
buona coscienza, il
tatto
all’inconsistenza
il sapore al
sogno.
La scala
esclamativa dei sensi
scompone
l’orizzonte acuito
precipita nel
corallo del tramonto
l’estro del
virgiliano Camillo.
Forse un po’ dell’altra parte
del mondo
o un portento
che si voglia
ficcare nelle
screpolature d’intelletto
nelle
sinistesie del sale e pietre.
Spuria e
improbabile tensione
di guantare
le sinopie naturali
paludamenti
di falde freatiche
e ovunque
turbamenti di panneggio
spalancato
per navigazione sottovento
con scorci
vertiginosi di frutta
etiche
istantanee chiarezze.
Nella schermaglia ridondano tuffi
del dire i
gesti dei dintorni
spinte
dissolvenze
ispiratrici tanto
più
legati ad
ontolgie delle assenze
se auscultati
in meraviglia.
Drepanoluna
brina malinconia
sul diadema
fluido di vaghe stelle
sciamanti
nebulose siamesíe
in aura fatua
pungente di amici
nostri di
amici inesistenti.
Quegli scolari omnino aquiloni
toccano il
cielo in coro col
dito
scintillano
ascolto aliante di
fili
tesi e conche
della prima infanzia
librano buone
azioni in pericolo.
I segni come
gocce ustionano
interno
ocellío di termiche
passione di
membra volubili
nella sfumata
libertà
del giorno.
Chini panorami medievali
in
distillazione luccicante
vicini alla
sagoma perfetta del
fuoco
alla sfera
includente ogni forma
al vuoto
desiderante senso irradiato
all’insazietà
della fame
originale
Corpi
ascensionali da sfogliare
in angoli
rampe cavedi teatri
monasteri
incrostati in pieno
sole.
Rami d’alberi
austeri sbucciano
richiami rime
virtuose ed analogie.
Verde
disarmante quasi inventa
un modello
coerente che descriva
senza tema
ogni cosa mentre
lo
spaziotempo nella fiaba su
se
stesso si
rinserra. Cene rase
radici
pulviscole di pane francescano.
La
luminosità pesca insolita
nei fiumi
dell’anima eloquenza
slombata e
particolare.
Un corpo continuo di teorici
espedienti
muove cascate di scrittura
non viziosa,
la fatica dentro
per non
finire a colpi nell’orizzonte
imberbe degli
eventi ed uscire
da buco
bianco infante in altra
parte
dell’universo.
Il ritorno sulla
lama
urla tracce
empatiche, frantumi
di primavera
autunnale pazientano
brulichío
domestico sperso
in gruppi
lirici con
coca e gelato
nelle piazze
agrodolci chietine.
Concinnitas
un po’ retorica
sciorina
briosi pentagrammi
tun’ vetule
carpe dulcia ed aromi
venerei nel
brivido marino
dei boschi
cedui. I giorni di
festa
si
arrotondano rapidi come
ciglia e orme
fanciulle.
L’aria epicurea del guerriero
di Capestrano
rosato
ginandrico stridente
braccia tozze
conserte al ventre
volto
all’ombra di cappello a
larghe
tese piantato
su bacino svasato
colto
ridicolo solitario in fondo
scavo goffo
spontaneo silenzioso
sannito
fascinoso non impiccione
tiene in
petto tenace spadone
la sua scorza
cortese già
prevede
il critico
big crunch dell’universo
il tutto di
nulla l’ozio del
vento
si specchia
nell’oro umano
nel vasellame
museico nei resti
della nostra
perspicuità
vorrebbe
per breve
tempo dominare la città.
A nulla valse
scorlare l’orecchio
sordo del
prelato che non vuole
intendere
di sgornare
un sorso di rosato
flatus vignae
nella luce spremuta
che Majella
ci versa anche in
foto
nel Massimo
sorriso Pamio. Stravolti
nel silenzio
midriatico d’alveo
a strapiombo
nella
vegetazione ecosofica toccata
da Dio e da
nuvole samaritane
l’Abbazia di
San Liberatore dona
alfa respiro
che dall’abside
ricola il
mosaico cosmacino
al palato del
cielo. Chitarre
d’erba
sorsate dal
Tralcetto Cerasuolo
della zona
Cru soffice che estrae
solo il fiore
color cerasa
bouquet
verbena di spiriti in
vite.
Danilo Daita gemma per anagramma
Nilo dada
dadi doni dita
data aita
conduce al sole alle
stelle
del mare per
non scordare e morire.
Si perde
ovunque il cuore per
seguire
l’anima
fisica all’omega
che nelle
valli ridice dacrioluce.
Il pensiero adogmatico fa religione
più
dell’incenso bigotto
con segni
di croce nomi
sacri e giaculatorie.
Qui anche il
pelo ha un proprio
stile
di colpa
affine agli altari di
legno
baciati e
palpati da mani innocenti
e si
può giocare con morte
naturale
da
senilità ai fantasmi
abbigliandosi
in decotte
descrizioni di descrizioni.
Festa nel
sodalizio del Liceo
sulla
moquette palco dell’albero
titubante
foglie da servare
madide di
lettere da glossare.
Alle spalle di Teate l’auto permalosa
affanna nei
chilometri il lume
del pensiero
si esprime in ultrasuoni
della morte
dalla paura di morire
e scioglie
dal corpo per abbreviare
il vetero in
quieta eutanasia.
Cloche
burrosa volante di panna
plagio
automatico di cibervacuo.
A distanza
nella scala rubra
dell’alba
arrampico arcaico con
barba
stopposa in
cerca d’un ateo ecumenico
di pianta
intatta per inselvarmi
di ali
foliari. Ululati spari
sgommanti
motori riportano
la
realtà dei cacciatori
rompono
lo specchio
sdegnoso naturale.
Scalogna nera
il 13 settembre
1992
satis tantum
spectaturus
nel furegare
il bel blu tenebroso
e ovatta di
luce senza in guaiti
spari
camaleonti inciampare.
Ludus
poesis
Variazioni
sul tema
Il neutro frattale purissimo
il trono
abiotico più
elevato
svanito
scomparso. L’orologio
esatto
ci discende
esili alla scuola
delle attese.
L’aria tesa opalina
fuga fervide
parole emozioni
sentimenti i
doni fra mani
risuona
brividi tattili fonici
china gli
occhi di sinuosi
pensieri del
nuovo genio sorpreso.
Sequenza da ogni finestra Piero
della
Francesca strappa in colori
mistici
stanze
chiasmi illeggibile estasi
partorisce
laiche madonne albuginee
dagli occhi
declivi appena affacciati
pudichi di
bucato nei passi
di lecci
ulivi nella metempsicosi
vegetale
istintiva di profili.
La quiete
procede nella storia
della vera
croce nelle tele sfinite
gioiellío
frizzante di
azzurri
ricostituenti
irraggiungibili
cripte.
Il magma
complice incrollabile
ripristina
cardiopalmo imitazioni
letture
anamorfiche attese.
Altari lignei basi barocchi
intarsi
lapislazzuli corbezzoli
finte mosse
mute dei vuoti
nelle pause
di pieni opulenti
Cercavo
questa affine cinestesia
d’enorme
pesce inebriante
di siti nomi
suggestioni
nel miscuglio
di parole sulla
via
braccato da
luce che scortica
le ombre
con un mare
tra en sof e il filtro
della mente
conscia di non sapere
niente
dei veli
spurii o veri delle
cose
ora che mi
ritrovo e rivedo carte
di sogni
senza farle sognare.
Attimi lampo
e dopo il linguaggio
sopra cime
dubbi assenze
ci diverge in
fiamme lontane.
Una volta
ancora le notti ci
donano
lasse
similari e testura chiaroscura.
L’anima
persuade l’occhio sublime
a rincorrere
in alto il suo sguardo
lasciando
l’alito aglioso e la
luce
nera alla
buona coscienza, il
tatto
all’inconsistenza
il sapore fervido
al sogno.
La scala
esclamativa dei sensi
scompone
l’orizzonte acuito
precipita nel
corallo del tramonto
l’estro del
virgiliano Camillo.
Forse un po’ dell’altra parte
del mondo
o un portento
che si voglia
insinuare
nelle screpolature
d’intelletto
nelle
sinestesie del sale e pietre.
Spuria e
improbabile tensione
di irretire
le sinopie naturali
paludamenti
di falde freatiche
e ovunque
turbamenti di panneggio
spalancato
per navigazione sottovento
con scorci
vertiginosi di frutta
etiche
istantanee chiarezze.
Nella schermaglia ridondano tuffi
del dire i
gesti dei dintorni
spinte
dissolvenze
ispiratrici tanto
più
legati ad
ontologie delle assenze
se auscultati
in meraviglia.
Drepanoluna
brina malinconia
sul diadema
fluido di vaghe stelle
sciamanti
nebulose siamesíe
in aura fatua
pungente di amici
nostri di
amici inesistenti.
Quegli scolari omnino aquiloni
in coro col
dito toccano il cielo
scintillano
ascolto aliante di
fili
tesi e conche
della prima infanzia
librano buone
azioni in pericolo.
I segni come
gocce ustionano
interno
ocellío di termiche
passione di
volubili membra
nella sfumata
libertà
del giorno.
Chini panorami medievali
in
distillazione luccicante
vicini alla
sagoma perfetta del
fuoco
alla sfera
includente ogni morfologia
al vuoto
desiderante senso irradiato
all’insazietà
della fame
originale.
Corpi
ascensionali da sfogliare
in angoli
rampe cavedi teatri
monasteri
incrostati in pieno
sole.
Rami d’alberi
austeri sbucciano
richiami rime
virtuose ed analogie.
Verde
disarmante quasi inventa
un modello
coerente che descriva
senza tema
ogni cosa mentre
nella fiaba
lo spaziotempo su
se
stesso si
rinserra. Cene rase
radici
pulviscole di pane francescano.
La
luminosità pesca insolita
nei fiumi
dell’anima eloquenza
slombata e
particolare.
Un corpo continuo di teorici
espedienti
muove cascate di scrittura
non viziosa,
l’endofatica
per non
finire a colpi nell’orizzonte
imberbe degli
eventi ed uscire
da buco
bianco infante in altra
parte
dell’universo.
Il ritorno sulla
lama
urla tracce
empatiche, frantumi
di primavera
autunnale pazientano
brulichío
domestico sperso
in gruppi
lirici con
coca e gelato
nelle piazze
agrodolci chietine.
Concinnitas
un po’ retorica
sciorina
briosi pentagrammi
tun’ vetule
carpe dulcia ed aromi
venerei nel
brivido marino
dei boschi
cedui. I giorni di
festa
si
arrotondano rapidi come
ciglia e orme
fanciulle.
L’aria epicurea del guerriero
di Capestrano
rosato
ginandrico stridente
braccia tozze
conserte al ventre
volto
all’ombra di cappello a
larghe
tese piantato
su bacino svasato
colto
ridicolo solitario in fondo
scavo goffo
spontaneo silenzioso
sannito
fascinoso non impiccione
tiene in
petto tenace spadone
la sua scorza
cortese già
prevede
il critico
big crunch dell’universo
il tutto di
nulla l’ozio del
vento
si specchia
nell’oro umano
nel vasellame
museico nei resti
della nostra
perspicuità
vorrebbe
per breve
tempo dominare la città.
A nulla valse
scorlare l’orecchio
sordo del
prelato che non vuole
intendere
di sgornare
un sorso di rosato
flatus vignae
nella luce spremuta
che Majella
ci versa anche in
foto
nel Massimo
sorriso Pamio. Stravolti
nel silenzio
midriatico d’alveo
a strapiombo
nella
vegetazione ecosofica toccata
da Dio e da
nuvole samaritane
l’Abbazia di
San Liberatore dona
alfa respiro
che dall’abside
ricola il
mosaico cosmacino
al palato del
cielo. Chitarre
d’erba
sorsate dal
Tralcetto Cerasuolo
della zona
Cru soffice che estrae
solo il fiore
color cerasa
bouquet
verbena di spiriti in
vite.
Danilo Daita gemma per anagramma
Nilo dada
dadi doni dita
data aita
conduce al sole alle
stelle
del mare per
non scordare e morire.
Si perde
ovunque il cuore per
seguire
l’anima
fisica all’omega
che nelle
valli ridice dacrioluce.
Il pensiero adogmatico fa religione
più
dell’incenso bigotto
con segni
di croce nomi
sacri e giaculatorie.
Qui anche il
pelo ha un proprio
stile
di colpa
affine agli altari di
legno
baciati e
palpati da mani innocenti
e si
può giocare con morte
naturale
da
senilità ai fantasmi
abbigliandosi
in decotte
descrizioni di descrizioni.
Festa nel
sodalizio del Liceo
sulla
moquette palco dell’albero
titubante
foglie da servare
madide di
lettere da glossare.
Alle spalle di Teate l’auto permalosa
affanna nei
chilometri il lume
del pensiero
si esprime in ultrasuoni
della morte
dalla paura di morire
e scioglie
dal corpo per abbreviare
il vetero in
quieta eutanasia.
Cloche
burrosa volante di panna
plagio
automatico di cibervacuo.
A distanza
nella scala rubra
dell’alba
arrampico arcaico con
barba
stopposa in
cerca d’un ateo ecumenico
di pianta
intatta per inselvarmi
di ali
foliari. Ululati spari
sgommanti
motori riportano
la
realtà dei cacciatori
rompono
lo specchio
sdegnoso naturale.
Scalogna nera
il 13 settembre
1992
satis tantum
spectaturus
nel furegare
il bel blu tenebroso
e ovatta di
luce senza in guaiti
spari
camaleonti inciampare.
Balbettío
rimemore
Ti cerco hic et nunc al modo mio
che sai
di spacchi
vitaminici e scollo
a barca e
snelle energie vertiginanti
ma so di
cadere a vuoto eppure
mi ispira
fantasia
poliversa una macina
desiderante
che mi riconduce
l’incipit
dell’essenza originaria
del sapere,
mi fa capire senza
timore
l’autentico segreto
dell’enigmatico
abisso e m’accosta
all’arsi
filosofica. Nel colore
di mare
all’orizzonte mi chimeri
parole
bianche, occhiate vietate
alla mano,
fatua oralità
aura
di fiaba.
Spazia intanto nel
mondo
immediato di
trine e sogni
arabescati e
attendi
le mie
interrogazioni.
Annaspi in un filo serico
e paulatim la
visione in bilico
perde
originarietà e divaga
smemorata
disponibile ad un esperire
à
tâtons ad ali
spiegate
in
gestualità verbale
di mani
labiali e dita vocali.
Delinei nel
caos maligno
un tono
essenziale di purezza
e di istinto
ecosofico per quiete
ed erranze
accese di semplicità.
Resta un
tragico tramonto speculare
che
più non carica sogni
fascia ombre
sofisticate
assottiglia
virtuali momenti
d’intenzione
di contingenza ostile.
L’imprevedibile
si vela
in un bianco
gel ossessivo.
Ornata di bellezza triste contingente
fiorisci
lampi di luce
abbacinante
gocce di speranza
lasciavi
andare le ciglia
all’abbandono
e il tremore
turbinava in
silenzio mummioso
di
meditazione e lo sguardo parlava
dolore
sfiducia perdono.
Nel sogno gran sete fisica
spirituale e
il didattico richiamo
sulla cima
della montagna
ove balena
l’aspro calice indigesto
e spine
stringono le mani
con
l’impaccio del fiore che
si schiude
e con timore
geme di speranza.
Mi ritrovo
cenere con fede di
vita
rialito la
vista per creazione
mitica
e per sostare
le parole
nell’inerzia
del silenzio
che vorrei
per sonno eterno in
voi
nella luce
che abbaglia il falso
bacio
della fine in
femminile dulcore.
La luna piena
nel vero cuore
del mio
Golgota ricitava
beati mundo
corde
quoniam deum
videbunt.
Nella calura delle stanze estranee
m’accorgo
quanto m’integrini
e poi
non mi figuro
il futuro, quale
la direzione
a ritroso come stamane
scialbo nei
giardini e viali
ove
ti restituivo
alla gioia d’una
nuova
deambulazione
sorprendente invenzione
di tenuta
ritmo e cortesia
che
m’avvolgevano di sguardi
grati
irreversibili
confitti in retina
e nella mente
dionisiaca
mi resta
liquor amaro
non realizzo
coerenti scene
lo sfondo
è l’immutabile
sofisma
del tempo e
dolore naturali.
Nell’invisibile
le punte mnestiche
del vissuto
intenso mai si toccano
e così
ti riposo nella
mia offerta
ignaro di
istanti e durata perversi.
Imperversa il nulla
vieppiù
infiltrante degenerativo
perturbante e
connivente col
tutto
in insistente
assoluto esaltante
in astrazioni
e moralismi svilenti
i giudizi di
limite tra bene
e male.
L’idolatria
della tecnologia
sottrae
l’altitudo
del sacro e del mistero
deprimendo ed
alienando la dignità
dell’uomo,
favorendo il ruolo
spurio
e messianico
di un neocapitalismo
cinico avulso
nella maschera
sofisticata
di illusioni e promesse
a riempire un
vuoto opprimente.
Reazione
ideale è la salita
sulla cima
della
Montagna per ammirare
le distese
illimiti di verde
luce
il
baluginío delle linee
d’orizzonte
avvolti
d’infinito
prati eletti
dell’anima.