Senecio
     SENECIO

Direttore
Emilio Piccolo


Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'illuminismo

Rivisitazioni, traduzioni, manipolazioni



Redazione
Sergio Audano, Gianni Caccia, Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola, Lorenzo Fort, Letizia Lanza

Cesare Ruffato
Scheda biobibliografica

 
Riincontrarti forse
acqua rapida sul declivio
come la tua vita soltanto
prima giovinezza tra sterpi e rovi
ormai oblìo della trama
fra ricordo vuoto e sogno
parole estranee sole ad evocare
l'inattingibile amore ora
muto infinitamente pregno adeso
avvolgente fantasma dissolvente
le minime incertezze la deriva
quel volo stridente des hirondelles
estenuante bolero al tramonto
evocante esiziali armonie altre.
Ci guardano i balbettii profusi 
delle cose nei loro scivolamenti.

Il ritorno alla pianura
 

Il ritorno alla pianura
è pullula fantasia di passi
e percussioni su una reticolata
geometria epica e tragica
di campi cesure abbeveranti
canali e filari di viti
grumi di gelsi e frutteti
tappeti di frumento trapunti di papaveri
mansarde cromatiche fondanti
giallo verdi increspate dal vento
da suoni e voci agresti.
Dileguato il gesto del seminatore
ampio arco del cuore naturale
ma alta alla luna sorniona
si intravvede la mina d'amore
che pulsa il prodigio delle stagioni
le maree dell'anima e il rumore
agreste del respiro dell'universo.
Stendo al sole sguardi cromatici
plasmati dal mio vento di passione
in mappe e disegni che libro
all'aria polline nostalgico
alla ricerca di orme arcaiche segrete.
Grilli e fronde inneggiano
alla Urfantasia.

L'agenda in attesa di voci amiche
 

L'agenda in attesa di voci amiche
rende i petali dell'iris sorprendente
eliche gentili cineree
per voli altri ultra universi
ed orizzonti alla ricerca della cosmica
poesia eterea dei nostri scarti
algoritmi penosi di sguardi
silenzi bianchi elisi.
I versi sempre più dispersi
gemono vocali di luce lirica
soffiata da distanze astratte vibranti
mute elegie per uditi assoluti
e privilegiati attimi di vita.
Per me queste pomeridiane faville
mentre spargo attese elucubranti.
Luna che ancora resisti
mia pallida speranza di vita
sempre più rifletti la morte.

Prenderò posto alla brezza verde
 

Prenderò posto alla brezza verde
alla chiarità in suono di parola
distilleremo sillabe di bellezza
floema di nuova spiritualità
in paludamenti d'ombra riposante.
Stella matutina avis aurorae
nelle sinestesie di rododendri
e corde liutee in altri percorsi
inattesi sulle punte di pioppi
e cipressi. Mendico il vuoto
l'assenza l'incipit che mai inizia
la vostra distillata eternità.
Oporagita mi giungi per colmare
il disegno di vita
e nel chinarti riduci il cielo
che prima t'incielava.

Una strana estranea melodia
 

Una strana estranea melodia
di note falde nivee
nel silenzio primevo della notte
coglibili con mani
viole o margherite d'amore
di sogni particolari e muti
di tempi sempre più lontananti
doviziosi di vuoto terso
e cromosomi di cellule eteree.
Loro ormai melodie astrali
mi versavano petali puri
vocali di parole eclissate
quasi esclusivo alfabeto poetico.
Nella sfera di neve onirica
vagavo in falde di metamorfosi
mistica all'estenuante ricerca
di vera neoesistenza. 
 

Uccelli e le luci

il contrasto amoroso delle cose fluttua l’entropia
del bell’universo sazio di dominio e ironia.
Respiriamo serenamente questa avventura
poematica sulla dialettica rischiosa della materia.
L’urgenza delle immagini e dei ritmi scoordina
il rigore degli innominabili direttori d’orchestra.
Ci si perde nel punto di fuga della bellezza desiderata.
Non tutti si è spiriti di questa epoca
che sofistica l’essenza della luce e il concetto
mette in difficoltà gli dei e l’enigma degli abissi
trottola il mondo di satelliti e sonde
si  maschera dietro scudi spaziali.
Suscitano meraviglia il pensiero inesprimibile
del silenzio, il cavillo che non decide nulla
l’aura sbiadita e fittizia della parola.
Ma lo sguardo invisibile del sangue
illumina il campo e la volta
in cui siamo, la crisi del cielo per produrre
e articolare luogo per esplodere un adorabile
azzurro fiume alla bontà

ho mirato in alto per accostarmi
agli uccelli ostacolato sempre da qualcosa
come un diaframma divino un’etica disperata.
Ma se il pensiero del desiderio muove
anche oltre ciò che più accosto si discosta
o svia è nell’orizzonte più schivo la convinzione
di uscire e tendere al creato con nobiltà

vada per la connivenza delle genti paziente
e modulante senza radicalismi miopi
giobbe docet “homo … brevi vivens tempore
repletus multis miseriis, qui quasi flos
egreditur et conteritur et fugit velut umbra”
e allora perché ergersi dispotici
in scene quotidiane di bassa lega.
Si deve essere insieme nel sapere
ricco di incognite ed inesauribile.
Ci si rivolga dunque con filosofia soffice
alla marea ornitologica gentile
in affetti conoscitivi più umani e perspicui.
Intanto tutelo il nido e la tua peluria
legata all’altro e docile al sole

i loro aspetti tulle e la sagoma di luce bizantina
fendono fulminei il magico turchino
delle frange o un brivido del vento.
La prefazione scorre frasi screziate
nella giacca da mare idrorepellente alla maltese.
Con calligrafia insulare e incertezze
aggiusto cromosomi artificiali ed allegorie.
Quasi mi confronto alla carlona con dumbo
ed asinelli sospesi della bacheca dèco
e sfoderato mi appiglio all’ultima glossa
dello sciopero sfacciato dei treni
nel narghilè di accordi più civili.
In teoria consolo le mialgìe migranti
in un piano alto e senza orpelli
gli uccelli del tempio tardano a venire

di notte bagno discolo il letto nel profumo
più buono di mia madre sogno i nidi
da toccare scivolo fra le righe
del risveglio chiedo il sale per la coda
del passero titubante sul filo dell’alta
tensione tento pigmalione la tua ieratica cicogna.
Le rondini hanno già ballato il mio primo vere
invidio il merlo autoritario e i solfeggi
da centellinare nell’inverno blasfemo
poche curve appannano il suono della campana
nella sera di cera seppia

sei quasi spettro carenato con ossa
pneumiche tra poco ce la fai a decollare
icaro fasullo prodotto dell’ingegno
e di colpo il vuoto mi perfora
non ho adipe da perdere l’ombra lunga
della scabra identità mi intimizza
cogli intellettuali volanti
nell’estro surreale del nuovo regno

gli uccelli mentre temo scartano
il nostro teatro picchiato
beccano nel fulcro retorico conversazioni
con perle improvvise scomposizioni elusive
in uno sbalordimento catastropico

l’abito è una costellazione vaga
che cangia il clima della sostanza
un fluido di penne prensile organza

dalla iniziale U con barra mediana apprendo
la natura umana che nasce dalla vergine
perenne e la barra è la croce
che lega Dio e l’uomo.
Questa lettera si adatta bene a loro
iperboli di unione al corpo aerodinamico
alle caleidodiavolerie amene.
Dalla casa vegetale si può comunque forzare
qualsiasi spunto formale sino al mimetismo.
Mi ritrovo laconico tra figure fortissime
di malinconia mentre divago
sull’immortalità dell’anima
e scene zoomorfe mi portano via

la doppia C vasca fra U ed E
apre moltissimi termini cavi carismatici
caro charitas culla cavea cupio
carmina costa cella cera cappio
cielo cima chiodo crisma clima
calma culmine capo cibo credo
cosmo croce chiesa corpo cristo
calligramma costume casa copia cupido
catarsi cupola ciglio cosa creta
e un folto vocabolario disperso figurato
che si mangia lettere e rimario

le braccia aperte in frecce mistiche
l’irrorata adorazione delle vittime
un cavallo quasi a dondolo per l’usignolo
l’esodo suntuoso a pioggia a raffica a pecorelle
riconducono all’elicoide dell’uomo cosmico

rimeditiamo attentamente: fin dai tempi antichi
il loro passo è stato interrogato come casa
di eventi fato ritorno
apertura per lume e buio
una densità desituata
un affievolirsi ipolettico del visibile

la riflessione elegiaca auspica un viaggio
ecologico sulle lacune del tempo nello spazio.
Per magia escono a panorama dai miei frantumi
scrivono un trattato ostensivo
dilagano retine di insonnia vigilati dalla notte
nel rimbombo delle prede e delle cacce.
Magari svelarne la pronuncia trasgressiva

il canto riverbera la melodia silenziante dell’universo
nenia di una lingua morta.
Ogni tipo canterino srotola impulsi latenti
un tic elegante del capo o dell’itto finale
può sembrare tortile con la grazia tenera
della prigione che ne tiene
il dipinto o la chiave di evasione.
Le fonti di allevamento sono un libro
in codice o di segreti filtri
perché le immagini non sono sempre
reale espressione delle virtualità vocali.
Un corso felice si avvia tra spartito e sembiante
con strette zampine e complimenti
soffi carini e ammicchi di ispirazioni.
Il corpo iniziale deve splendere
e scoprire sul rigo il labirinto drôlerie

a volte il solista reca chiari di luna
e fari di cieli
come il mio astuto canarino fiorito
di acuti e battute d’arresto impazziva
in discesa al mio la d’imbeccata
ed in obliqua attesa mi sbirciava con l’anima.
L’ho perso nelle ridondanze degli impegni
e ne avverto la scia colloquiale
della prossimità sul rotolo delle scale

le rondini girano accanite le guglie.
Il tratto biblico incide e unisce nel fendere
partendo attrae
crea profilo e contorno si muove
sulla traccia di qualcosa in più

sporgono sempre da un orlo da un fronte
d’onda mozzafiato che oscilla il fantasma
del senso e della vicina lontananza
geroglifici di tutte le stagioni e versioni
nella ebbrezza dell’orizzonte

ammorbidiscono l’ombra e l’opacità
per riflettere l’anima in sé e nel mondo
annunciano fata morgana

il nostro sguardo li rinnova
e nel mare
rimane l’ansia del gabbiano fanatico
ideale della nostra percezione
più semplice e limpida

ripiombano saette nel ventre a rimproverarmi
della troppa scrittura a scrutare
e rapprendo qualcosa che mi acceca
e mi essenzia di sensibilità.
Nel buco nero schiacciato del pensiero
scoppia la festa del vuoto
viti virate di fogli bianchi
mater voce

il crinale aereo combina sorpresa e teologia
perturba l’oro dell’anima

abitano poeticamente appellativi onomatopeici
per qualche citazione fantastica
rigogolo calliope rampichino picchio
torcicollo lucherino quattrocchi piropiro.
Curvano l’inconscio del cielo
il vero specchio per far vedere
o mostrare qualcosa.
Il richiamo avvolgente mi butta
virtualità impensabili la pelle d’oca
l’attimo del mutamento che libera energia.
Il crepuscolo perdona agguati
specie aggressive violenza indotta
e mi barocca in voliere di pailettes

la baldoria smerigliata rincorre i crismi
di salute mattinate o cantate o colinde
sagre degli osei in virtuose gabbiette.
Mummie sparse stilizzano il forte fasto

un sereno natale con cocoriti
può far fioriti il desco e il bambino
privato del simbolo sconnesso di muse
perfino illuso da crocide cornamuse.
L’ale di vale è sempre augurale
una strenna di salve e armonia

miriade o stormi non si sa da dove
emoziona a migrare a disattendere
i segnali dell’occhio
l’insistenza dell’invisibile.
Dunque filano nel problema nuance
scintille impermanente fluttuazione
che non sgombra il vuoto

gocciolano per vezzo un po’ di alone macaronico
forse il sano istinto oscuro per capire
e meglio dialogare. Mi lascio bere in fiacca
sopravvivenza. Volteggio nella loro armoniosa
coerenza con il ritmo universale
e mi consumo nella nivea terapia ornitomusicale
forse resuscito salubrità cerebrale

sottosotto un oceano di guai uccellati
gonfia parole di rabbia e invidia.
Non c’è certo una esposizione organica del tema
perché già l’ecologia dell’aria cammina
a piedi nudi nei tigli del tramonto.
Detonare cose non nuove in forma nuova
è in fondo un noise mentale come impegnarsi
con il sole maculato del millennio fuoribordo.
Nell’esaltazione la voce della scrittura
con un peso diverso fa il pavone si adatta
alla mimetica intimità del senso bene guidata
può trasformarsi in albero romantico
che delega libere penne foliari
che bisogna salvare con i campi i giardini
i pastori e le acque spirituali

i parvoli rispuntano la verità del libro
del cielo con la storia dei liquidi
della conoscenza sopra il firmamento
che riflette mirabilmente anche il nascosto
nel controambiente dello sguardo

anaforico e passionale in bird-watching
voglio anagrammarmi nei voli del silenzio
nella bibliografia profetica.
Peraltro mi illudo paradigma perché
mi tendo al posto loro e non mi accorgo
della vanità e mi rassegno

è aleatorio che possano raggiungere la terra
promessa a volte maestri o anime estinte.
Lei si protrae sulle piume
condivide le forme aviarie più strane
a penetrare le nuvole del taciuto universale

il sibilo umano può ancora perforarne
la polisemia disorientarne ultrasuoni misteriosi.
Gli involucri anagogici spandono rispetto

no proprio no al cacciatore
l’ho sempre squadrato con riluttanza
fariseo dell’agguato con troppe C
lupine e falcianti nel nome
nella riserva che ci fa tanto aggressivi.
È una guerra subdola ad armi impari
camaleonte lui tira si ripara spara polvere e pallini
istruisce frottole e un tribunale
bellico delle vittorie e decimazioni.
Ai vinti restano soltanto la paura e la fuga
nella misura in cui la violenza del piombo
sboccia la rosa e offende.
Ho tralasciato in parte vari amici
per divergenza idelogica e cene avvolgenti
di cacciagione con vini pieni delle langhe.
Non so chi abbia in assoluto ragione
ma penso che questi tipi di esibita uccisione
celino versioni particolari di mostruosità
narcisa la morte tua è specchio
e brama della vita mia
in continua microbelligeranza di follia.
Con queste schegge imprecise
la povera storia non è finita
e per fortuna lascia al cielo mecenate
l’ultimo verbo e il celeste
 

Rêvéries

Un ipotetico desiderio onirico
in crisi d’aria e di memoria.
Una drepanoluna da incorniciare
con accenno di sorriso cosmico
per allietare amici e attimi tristi.
Un esile sipario per coprire
l’ombelico femminile così svilito
cupo insensatamente esibito
intima memoria di cordone vitale
anche in precoci fanciulline
guizzose squinzi perturbanti.
Un prato verde dimenticato
con fervido odore di passato.
Una fontana anziana di paese
a getto pieno effervescente.
Un capitello della mia infanzia
ad un quadrivio con didascalìa
ave Maria gratia plena.
Un olmo colmo di memorie
con panchina ed ombra riposanti.
Un campanile elevato vecchio stile
con campane austere anziane
ed  orologio clemente con silenti sfere.
Un paese a dondolo sospeso
per rêvéries nostalgiche essenziali
della voce del silenzio
dell’intimo verde rammemorare.
La casa della maestra mater mea
ove sono nato e cresciuto di prima mano
per una rigenerante distrazione.
Un albatros bianco
criante in baia elbana.
Una ecologica etica riflessione 
sul cratere d’ozono
triste ombelico d’una sconsiderata
umanità.

Cristofania

Nel mondo in apatia ecosofica
scendendo per abluzioni euristiche
a reperire una bellezza non solo
estetica ma nel puro fermento
dell’essenza religiosa mi sono
quasi assimilato nel Cristo paziente
della Croce, lampante kenosi
neocreatura in sé sottrazione
dell’abisso fra divino e umano
con adesione alla realtà dello Spirito
e globale etico rinnovamento.
In divinità così meta sublime
per empatia a struggermi di dedizione
un’oasi di pietà e di luce albale
avverto che già nello sguardo
mi sussurra distaccarlo e di assumere
il peso infrenabile dei peccati
del mondo su questo legno freddo
sacrificale. Ma sterpo scialbo
escluso dalla vera verità
non potrei gemere sangue sacro
dalla piaga destra del costato
che tu pulzella mater ben sai
e detergi e neppure accollarmi
tanta offesa. Ineffabili le gocce
ematiche gemiti dell’anima
d’ecce homo misterium tremendum
passionis. Questa croce che evoca
sciami di pargoli mi rapisce e immerge
nel segreto divino m’inlignea
di storia eterna con pullulìo di fronde
dalle braccia, rizoma dai piedi
casco foliare biondo dal capo
neoparole mistiche sonde
indefettibili di trasfigurazione.
Il sangue splende ora bianco
seduce ogni sinopia di sindone
e dalle spine gemma urdolore
a ripristinare una connivenza umana
in alleanza di cuore mente
e trascendenza di vita dell’universo.
Nell’oceano incognito si nasce
nel mare della memoria
e dell’assenza si scompare.

Antiqua poesis
 

Il neutro frattale purissimo
il trono abiotico più elevato
che non è più. L’orologio esatto
ci discende sottili alla scuola
delle attese. L’aria tesa opalina
fervide parole emozioni
sentimenti fuga i doni fra mani
risuona brividi tattili fonici
abbassa gli occhi di sinuosi
pensieri del nuovo genio sorpreso.

Sequenza da ogni finestra Piero
della Francesca strappa in colori mistici
stanze chiasmi illegibile estasi
partorisce laiche madonne albuginee
dagli occhi declivi appena affacciati
pudichi di bucato nei passi
di lecci ulivi nella metempsicosi
vegetale istintiva di profili.
La quiete procede nella storia
della vera croce nelle tele sfinite
goiellío frizzante di azzurri
ricostituenti irraggiungibili cripte.
Il caos complice incrollabile
ripristina cardiopalmo imitazioni
letture anamorfiche attese.

Altari lignei basi barocchi
intarsi lapislazzuli corbezzoli
finte mosse mute dei vuoti
nelle pause di pieni opulenti
Cercavo questa affine cinestesia
d’enorme pesce inebriante
di siti nomi suggestioni
nel miscuglio di parole sulla via
braccato da luce che scortica le ombre
con un mare tra en sof e il filtro
della mente conscia di non sapere niente
dei veli falsi o veri delle cose
ora che rivedo e mi ritrovo carte
di sogni senza farle sognare.
Momenti lampo e dopo il linguaggio
sopra cime dubbi assenze
ci diverge in fiamme distanti.
Anche stavolta le notti ci donano
lasse similari e testura chiaroscura. 
L’anima persuade l’occhio sublime
a rincorrere in alto il suo sguardo
lasciando l’alito aglioso e la luce
nera alla buona coscienza, il tatto
all’inconsistenza il sapore al sogno.
La scala esclamativa dei sensi
scompone l’orizzonte acuito
precipita nel corallo del tramonto
l’estro del virgiliano Camillo.

Forse un po’ dell’altra parte del mondo
o un portento che si voglia
ficcare nelle screpolature d’intelletto
nelle sinistesie del sale e pietre.
Spuria e improbabile tensione
di guantare le sinopie naturali
paludamenti di falde freatiche
e ovunque turbamenti di panneggio
spalancato per navigazione sottovento
con scorci vertiginosi di frutta
etiche istantanee chiarezze.

Nella schermaglia ridondano tuffi
del dire i gesti dei dintorni spinte
dissolvenze ispiratrici tanto più
legati ad ontolgie delle assenze
se auscultati in meraviglia.
Drepanoluna brina malinconia
sul diadema fluido di vaghe stelle
sciamanti nebulose siamesíe
in aura fatua pungente di amici
nostri di amici inesistenti.

Quegli scolari omnino aquiloni
toccano il cielo in coro col dito
scintillano ascolto aliante di fili
tesi e conche della prima infanzia
librano buone azioni in pericolo.
I segni come gocce ustionano
interno ocellío di termiche
passione di membra volubili
nella sfumata libertà del giorno.

Chini panorami medievali
in distillazione luccicante
vicini alla sagoma perfetta del fuoco
alla sfera includente ogni forma
al vuoto desiderante senso irradiato
all’insazietà della fame originale
Corpi ascensionali da sfogliare
in angoli rampe cavedi teatri
monasteri incrostati in pieno sole.
Rami d’alberi austeri sbucciano
richiami rime virtuose ed analogie.
Verde disarmante quasi inventa
un modello coerente che descriva
senza tema ogni cosa mentre
lo spaziotempo nella fiaba su se
stesso si rinserra. Cene rase
radici pulviscole di pane francescano.
La luminosità pesca insolita
nei fiumi dell’anima eloquenza
slombata e particolare.

Un corpo continuo di teorici
espedienti muove cascate di scrittura
non viziosa, la fatica dentro 
per non finire a colpi nell’orizzonte
imberbe degli eventi ed uscire
da buco bianco infante in altra parte
dell’universo. Il ritorno sulla lama
urla tracce empatiche, frantumi
di primavera autunnale pazientano
brulichío domestico sperso in gruppi
lirici con coca e gelato
nelle piazze agrodolci chietine.
Concinnitas un po’ retorica
sciorina briosi pentagrammi
tun’ vetule carpe dulcia ed aromi
venerei nel brivido marino
dei boschi cedui. I giorni di festa
si arrotondano rapidi come
ciglia e orme fanciulle.

L’aria epicurea del guerriero di Capestrano
rosato ginandrico stridente
braccia tozze conserte al ventre
volto all’ombra di cappello a larghe
tese piantato su bacino svasato
colto ridicolo solitario in fondo
scavo goffo spontaneo silenzioso
sannito fascinoso non impiccione
tiene in petto tenace spadone
la sua scorza cortese già prevede
il critico big crunch dell’universo
il tutto di nulla l’ozio del vento
si specchia nell’oro umano
nel vasellame museico nei resti
della nostra perspicuità vorrebbe
per breve tempo dominare la città.
A nulla valse scorlare l’orecchio
sordo del prelato che non vuole intendere
di sgornare un sorso di rosato
flatus vignae nella luce spremuta
che Majella ci versa anche in foto
nel Massimo sorriso Pamio. Stravolti
nel silenzio midriatico d’alveo a strapiombo
nella vegetazione ecosofica toccata
da Dio e da nuvole samaritane
l’Abbazia di San Liberatore dona
alfa respiro che dall’abside
ricola il mosaico cosmacino
al palato del cielo. Chitarre d’erba
sorsate dal Tralcetto Cerasuolo
della zona Cru soffice che estrae
solo il fiore color cerasa
bouquet verbena di spiriti in vite.

Danilo Daita gemma per anagramma
Nilo dada dadi doni dita
data aita conduce al sole alle stelle
del mare per non scordare e morire.
Si perde ovunque il cuore per seguire
l’anima fisica all’omega
che nelle valli ridice dacrioluce.

Il pensiero adogmatico fa religione
più dell’incenso bigotto con segni
di croce nomi sacri e giaculatorie.
Qui anche il pelo ha un proprio stile
di colpa affine agli altari di legno
baciati e palpati da mani innocenti
e si può giocare con morte naturale
da senilità ai fantasmi abbigliandosi
in decotte descrizioni di descrizioni.
Festa nel sodalizio del Liceo
sulla moquette palco dell’albero
titubante foglie da servare
madide di lettere da glossare.

Alle spalle di Teate l’auto permalosa
affanna nei chilometri il lume
del pensiero si esprime in ultrasuoni
della morte dalla paura di morire
e scioglie dal corpo per abbreviare
il vetero in quieta eutanasia. 
Cloche burrosa volante di panna
plagio automatico di cibervacuo.
A distanza nella scala rubra
dell’alba arrampico arcaico con barba
stopposa in cerca d’un ateo ecumenico
di pianta intatta per inselvarmi
di ali foliari. Ululati spari
sgommanti motori riportano
la realtà dei cacciatori rompono
lo specchio sdegnoso naturale. 
Scalogna nera il 13 settembre 1992
satis tantum spectaturus
nel furegare il bel blu tenebroso
e ovatta di luce senza in guaiti 
spari camaleonti inciampare.

Ludus poesis
Variazioni sul tema
 

Il neutro frattale purissimo
il trono abiotico più elevato
svanito scomparso. L’orologio esatto
ci discende esili alla scuola
delle attese. L’aria tesa opalina
fuga fervide parole emozioni
sentimenti i doni fra mani
risuona brividi tattili fonici
china gli occhi di sinuosi
pensieri del nuovo genio sorpreso.

Sequenza da ogni finestra Piero
della Francesca strappa in colori mistici
stanze chiasmi illeggibile estasi
partorisce laiche madonne albuginee
dagli occhi declivi appena affacciati
pudichi di bucato nei passi
di lecci ulivi nella metempsicosi
vegetale istintiva di profili.
La quiete procede nella storia
della vera croce nelle tele sfinite
gioiellío frizzante di azzurri
ricostituenti irraggiungibili cripte.
Il magma complice incrollabile
ripristina cardiopalmo imitazioni
letture anamorfiche attese.

Altari lignei basi barocchi
intarsi lapislazzuli corbezzoli
finte mosse mute dei vuoti
nelle pause di pieni opulenti
Cercavo questa affine cinestesia
d’enorme pesce inebriante
di siti nomi suggestioni
nel miscuglio di parole sulla via
braccato da luce che scortica le ombre
con un mare tra en sof e il filtro
della mente conscia di non sapere niente
dei veli spurii o veri delle cose
ora che mi ritrovo e rivedo carte
di sogni senza farle sognare.
Attimi lampo e dopo il linguaggio
sopra cime dubbi assenze
ci diverge in fiamme lontane.
Una volta ancora le notti ci donano
lasse similari e testura chiaroscura. 
L’anima persuade l’occhio sublime
a rincorrere in alto il suo sguardo
lasciando l’alito aglioso e la luce
nera alla buona coscienza, il tatto
all’inconsistenza il sapore fervido al sogno.
La scala esclamativa dei sensi
scompone l’orizzonte acuito
precipita nel corallo del tramonto
l’estro del virgiliano Camillo.

Forse un po’ dell’altra parte del mondo
o un portento che si voglia
insinuare nelle screpolature d’intelletto
nelle sinestesie del sale e pietre.
Spuria e improbabile tensione
di irretire le sinopie naturali
paludamenti di falde freatiche
e ovunque turbamenti di panneggio
spalancato per navigazione sottovento
con scorci vertiginosi di frutta
etiche istantanee chiarezze.

Nella schermaglia ridondano tuffi
del dire i gesti dei dintorni spinte
dissolvenze ispiratrici tanto più
legati ad ontologie delle assenze
se auscultati in meraviglia.
Drepanoluna brina malinconia
sul diadema fluido di vaghe stelle
sciamanti nebulose siamesíe
in aura fatua pungente di amici
nostri di amici inesistenti.

Quegli scolari omnino aquiloni
in coro col dito toccano il cielo 
scintillano ascolto aliante di fili
tesi e conche della prima infanzia
librano buone azioni in pericolo.
I segni come gocce ustionano
interno ocellío di termiche
passione di volubili membra 
nella sfumata libertà del giorno.

Chini panorami medievali
in distillazione luccicante
vicini alla sagoma perfetta del fuoco
alla sfera includente ogni morfologia
al vuoto desiderante senso irradiato
all’insazietà della fame originale.
Corpi ascensionali da sfogliare
in angoli rampe cavedi teatri
monasteri incrostati in pieno sole.
Rami d’alberi austeri sbucciano
richiami rime virtuose ed analogie.
Verde disarmante quasi inventa
un modello coerente che descriva
senza tema ogni cosa mentre
nella fiaba lo spaziotempo su se
stesso si rinserra. Cene rase
radici pulviscole di pane francescano.
La luminosità pesca insolita
nei fiumi dell’anima eloquenza
slombata e particolare.

Un corpo continuo di teorici
espedienti muove cascate di scrittura
non viziosa, l’endofatica 
per non finire a colpi nell’orizzonte
imberbe degli eventi ed uscire
da buco bianco infante in altra parte
dell’universo. Il ritorno sulla lama
urla tracce empatiche, frantumi
di primavera autunnale pazientano
brulichío domestico sperso in gruppi
lirici con coca e gelato
nelle piazze agrodolci chietine.
Concinnitas un po’ retorica
sciorina briosi pentagrammi
tun’ vetule carpe dulcia ed aromi
venerei nel brivido marino
dei boschi cedui. I giorni di festa
si arrotondano rapidi come
ciglia e orme fanciulle.

L’aria epicurea del guerriero di Capestrano
rosato ginandrico stridente
braccia tozze conserte al ventre
volto all’ombra di cappello a larghe
tese piantato su bacino svasato
colto ridicolo solitario in fondo
scavo goffo spontaneo silenzioso
sannito fascinoso non impiccione
tiene in petto tenace spadone
la sua scorza cortese già prevede
il critico big crunch dell’universo
il tutto di nulla l’ozio del vento
si specchia nell’oro umano
nel vasellame museico nei resti
della nostra perspicuità vorrebbe
per breve tempo dominare la città.
A nulla valse scorlare l’orecchio
sordo del prelato che non vuole intendere
di sgornare un sorso di rosato
flatus vignae nella luce spremuta
che Majella ci versa anche in foto
nel Massimo sorriso Pamio. Stravolti
nel silenzio midriatico d’alveo a strapiombo
nella vegetazione ecosofica toccata
da Dio e da nuvole samaritane
l’Abbazia di San Liberatore dona
alfa respiro che dall’abside
ricola il mosaico cosmacino
al palato del cielo. Chitarre d’erba
sorsate dal Tralcetto Cerasuolo
della zona Cru soffice che estrae
solo il fiore color cerasa
bouquet verbena di spiriti in vite.

Danilo Daita gemma per anagramma
Nilo dada dadi doni dita
data aita conduce al sole alle stelle
del mare per non scordare e morire.
Si perde ovunque il cuore per seguire
l’anima fisica all’omega
che nelle valli ridice dacrioluce.

Il pensiero adogmatico fa religione
più dell’incenso bigotto con segni
di croce nomi sacri e giaculatorie.
Qui anche il pelo ha un proprio stile
di colpa affine agli altari di legno
baciati e palpati da mani innocenti
e si può giocare con morte naturale
da senilità ai fantasmi abbigliandosi
in decotte descrizioni di descrizioni.
Festa nel sodalizio del Liceo
sulla moquette palco dell’albero
titubante foglie da servare
madide di lettere da glossare.

Alle spalle di Teate l’auto permalosa
affanna nei chilometri il lume
del pensiero si esprime in ultrasuoni
della morte dalla paura di morire
e scioglie dal corpo per abbreviare
il vetero in quieta eutanasia. 
Cloche burrosa volante di panna
plagio automatico di cibervacuo.
A distanza nella scala rubra
dell’alba arrampico arcaico con barba
stopposa in cerca d’un ateo ecumenico
di pianta intatta per inselvarmi
di ali foliari. Ululati spari
sgommanti motori riportano
la realtà dei cacciatori rompono
lo specchio sdegnoso naturale. 
Scalogna nera il 13 settembre 1992
satis tantum spectaturus
nel furegare il bel blu tenebroso
e ovatta di luce senza in guaiti 
spari camaleonti inciampare.

Balbettío rimemore
 

Ti cerco hic et nunc al modo mio che sai
di spacchi vitaminici e scollo
a barca e snelle energie vertiginanti
ma so di cadere a vuoto eppure mi ispira
fantasia poliversa una macina
desiderante che mi riconduce
l’incipit dell’essenza originaria
del sapere, mi fa capire senza
timore l’autentico segreto
dell’enigmatico abisso e m’accosta
all’arsi filosofica. Nel colore
di mare all’orizzonte mi chimeri
parole bianche, occhiate vietate
alla mano, fatua oralità aura
di fiaba. Spazia intanto nel mondo
immediato di trine e sogni
arabescati e attendi
le mie interrogazioni.

Annaspi in un  filo serico
e paulatim la visione in bilico
perde originarietà e divaga
smemorata disponibile ad un esperire
à tâtons ad ali spiegate
in gestualità verbale
di mani labiali e dita vocali.
Delinei nel caos maligno
un tono essenziale di purezza
e di istinto ecosofico per quiete
ed erranze accese di semplicità.
Resta un tragico tramonto speculare
che più non carica sogni
fascia ombre sofisticate
assottiglia virtuali momenti
d’intenzione di contingenza ostile.
L’imprevedibile si vela
in un bianco gel ossessivo.

Ornata di bellezza triste contingente
fiorisci lampi di luce
abbacinante gocce di speranza
lasciavi andare le ciglia
all’abbandono e il tremore
turbinava in silenzio mummioso
di meditazione e lo sguardo parlava
dolore sfiducia perdono.

Nel sogno gran sete fisica
spirituale e il didattico richiamo
sulla cima della montagna
ove balena l’aspro calice indigesto
e spine stringono le mani
con l’impaccio del fiore che si schiude
e con timore geme di speranza.
Mi ritrovo cenere con fede di vita
rialito la vista per creazione mitica
e per sostare le parole
nell’inerzia del silenzio
che vorrei per sonno eterno in voi
nella luce che abbaglia il falso bacio
della fine in femminile dulcore.
La luna piena nel vero cuore
del mio Golgota ricitava
beati mundo corde
quoniam deum videbunt.

Nella calura delle stanze estranee
m’accorgo quanto m’integrini e poi
non mi figuro il futuro, quale
la direzione a ritroso come stamane
scialbo nei giardini e viali ove
ti restituivo alla gioia d’una nuova
deambulazione sorprendente invenzione
di tenuta ritmo e cortesia
che m’avvolgevano di sguardi grati
irreversibili confitti in retina
e nella mente dionisiaca
mi resta liquor amaro
non realizzo coerenti scene
lo sfondo è l’immutabile sofisma
del tempo e dolore naturali.
Nell’invisibile le punte mnestiche
del vissuto intenso mai si toccano
e così ti riposo nella mia offerta
ignaro di istanti e durata perversi.

Imperversa il nulla
vieppiù infiltrante degenerativo
perturbante e connivente col tutto
in insistente assoluto esaltante
in astrazioni e moralismi svilenti
i giudizi di limite tra bene e male.
L’idolatria della tecnologia sottrae
l’altitudo del sacro e del mistero
deprimendo ed alienando la dignità
dell’uomo, favorendo il ruolo spurio
e messianico di un neocapitalismo
cinico avulso nella maschera
sofisticata di illusioni e promesse
a riempire un vuoto opprimente.
Reazione ideale è la salita sulla cima
della Montagna per ammirare
le distese illimiti di verde luce
il baluginío delle linee d’orizzonte
avvolti d’infinito
prati eletti dell’anima.


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