1. Sdegno
Poi succedono giorni
senza vento.
Anche il
figlio rimasto
con il
Padre
ha le sue
crisi: crisi
depressive.
Come avviene
non sa bene
descrivere:
le gioie
della vita
familiare,
la dedizione
all'operosità,
la
rispondenza ai
richiami fantastici
improvvise
dileguano.
Una nebbia lo
avvolge.
Aggredito da
noia
corrosiva
si fa
sdegnoso, lontano;
s'ammuta.
Non chiede
aiuto: non ne
ha l'abitudine.
Non fa
romanzi: nulla in
lui
traspare
delle assenze
numeriche
della sua
vita che figura
piena.
Perché
lavora,
produce,
rincasa
ogni sera a
giusta ora, e
saluta,
lo si crede
in un danno
passeggero.
Ma il vuoto
che lo
assedia è
un vero baratro.
Gli giungono notizie
del fratello
transfuga nei
bagordi e
nei postriboli:
gli si
rimesta il sangue.
Egli
infatti
non frequenta
le donne.
Perché
goffo,
crudo,
introverso, sa che
non
le attira.
Da nessuna di
quelle che
ambirebbe
– lontane,
irraggiungibili, preziose
–
potrà
avere uno
sguardo
d'interesse.
(Quanto alle
altre, a
quelle
del mestiere,
non è
il caso
nemmeno
di parlarne,
sebbene una
fraterna
compassione
gliele faccia
comprendere: le
colloca
al polo
opposto
dello stesso
globo,
dello stesso
pianeta di
tormento.)
Ma ciò
che nei
periodi
di grazia
gli risultava
assenza
sopportabile
ora lo
lancina. Ora il
pensiero
indugia sul
contesto
della donna.
La lente che
ingrandisce
della
smania
lo lusinga
d'abbagli,
e solo per
istinto a
diffidare,
che in lui
s'innerva su
istanze
morali,
s'astiene
dall'ardire
esperimenti.
E tuttavia
crede, suo
malgrado,
di subire
estenuante
frustrazione
immeritata.
Spesso, al
riaversi
– frequenti
svagatezze
subitanee
disturbano le
menti che
intristiscono
–
scopre d'aver
vagato in
quel
tormento.
Potesse,
distraendosi,
alleviarlo!
Ma ne risulta
inabile:
da come vede
che altri si
comportano,
e dai ricordi
del
fratello estroso,
conclude
ch'è
inadatto
a diversivi.
Nemmeno
può
affogare la
sua pena
in banchetti
vistosi di
parole
…
e se
anch'egli partisse?
A che scopo
restare, con
un Padre
che diviene
ogni giorno
evanescente
più
del giorno
trascorso,
che s'infatua
per un figlio
degenere,
che pesa!
Ma questa d'una vita
insoddisfatta,
vita senza inni e senza
lampadari,
non è nemmeno la
faccia
peggiore
del poliedro di cupe
sensazioni
che – peso quasi fisico –
l'opprimono.
Nel suo stato di pena,
anche l'atto comune della
fede
diviene pesantissimo.
Un'immagine esprime
questo aggravio
più di tante
parole:
il cavallo da tiro che di
colpo,
imbolsito, s'impunta.
È un ricordo
d'infanzia,
ricorrente,
e intriso di penoso
raccapriccio.
Ma in memoria, per quanto
emerga
vivido,
l'episodio è
carente d'una
fine:
il ricordo si ferma ai
tentativi,
condotti da più
parti
e in modi vari,
sulla mole che nega di
rimuoversi.
Certo ve lo sottrasse,
preveggente,
una mano decisa.
Né rammenta di
avere domandato.
O forse chiese, e il
responso
che n'ebbe
lo divagò dal
quesito
proposto.
Ora egli stesso è
in causa,
l'energia dei muscoli
mentali,
l'apparato motorio
dell'impegno.
La visione del vuoto
metafisico,
Medusa che pietrifica, e
l'accidia,
cupa novella Circe
priva dei connotati di
lascivia,
sono le istitutrici del
momento.
Un verbo nuovo lo ispira:
antiparola, dove, per
parola,
è da intendere
quanto
di superfluo,
di ridondante, inutile,
illusorio,
abbonda nella cerchia
degli uomini.
Ne sono pieni anche i
templi
del Padre,
che lascia fare, senza
nulla
opporre,
di che egli si rode. Per
reazione
conia definizioni
corrosive,
come quella – terribile,
lo ammette
–
che dà della
natura variegata
che ravviva la crosta
della Terra,
la biosfera, con termine
scientifico:
"splendida squamatura
d'una perfetta macchina
di morte".
Pregare gli risulta
insopportabile:
se a volte vi ricorre,
è solo per
tramettere
la supplica:
"Non chiedermi
entusiasmo: non
ne ho più."
Unghie secche per linfa
insufficiente,
i pensieri si rompono.
Latta vuota la mente,
rifiuto destinato a
scomparire.
Mano non la raccoglie
tuttavia,
ed essa vaga, rotola,
s'imbraga
negli scoli del tedio.
Oh che un piede la
schiacci!
2.
Ode pour l’election de son sepulcre
Omaggio ad
Ezra Pound
Clio occhilucenti,
ecco la mia
urna mondata,
deponila sulla riva
gigliata
della risacca volubile
aqua laudatur sit et mare
e la
sabbia di silice
accerchiala di tua mano
al fico
d’india là in cima
intrapreso di roccia e
molli
acuminate midolla
della mia morte risorta
rimbombano
le orecchie.
Al sacello traslucido di
luce
vesperale
o biacca colore d’arenile
Clio,
sii saggia,
dissuggella sinuosa il
cuneo
della mia conchiglia
sollazza l’ermetico
impolverato
pallottolarmi
e dunque astuccio d’aria
alzarmi
in ala vagante
E tronco di quercia
incava
per depormici in fama
Uccelli, grilli, a
trillare
della dissoluzione giapprima
pascunt et alunt meam
animan
ad libitum
j’ai trouvé une
goutte
de vermeille en fin
do it, immortala la mia
secca
grancassa dalle ore aduse
tempus tacendi nessun
serto da
posteri o Muse.
3.
Apocalisse
All’ombra della pineta
tacita
s’agguanta
L’afa sdolce
d’agosto
come lenzuoli
umidi
E non una
freccia di
vento insinua
il piede
Tra cipii di
passeracei,
anche
la lucertola tace.
Nell’ora
della calura
vale lo
scrollo della cicala
Ai timpani
con le ali a
cocca,
trilla la sua vittoria
Beffarda
umida sul
vigore
della pista tracciata
Prima della
spossatezza,
prima
che si perdessero
I propositi
delle prime
luci.
Sono arse le ninfe
gli gnomi e
gli elfi nel
fradicio
ribollire d’agosto
E una tara
sospesa e
spettrale
accudisce il bosco.
Sfatto il
terreno ruggine
schierato
dalle formiche
Pesa oltre la
chioma-ombrella
un pallidissimo cielo
Con una
musica che non si
regge,
abbacinata e greve,
Tace il ritmo
del mare
oltre
il corredo di sabbia
Perché
Tritone ha
abbandonato
i flutti e Eolo l’otre
Ogni sostanza
si è
cangiata
in onta o risucchio
E non
c’è chi
possa guardare
intorno e puntellarsi
sull’esilio
immobile di
un libro
scritto di ignoto.
Si sfaldano i
lacerti
mentali
contro l’inevidenza
Danza alla
gravità
a decrescere
la bonaccia del corpo
Derelitto in
nuova
estraneità,
scarto di mondo.
È lo
sceneggiatore
che
oggi fa fuoco e domani neve
E ci sforza a
ognora con
l’esile
staffile del suo grimaldello
E parla
oscuro in
incognita,
ci risparmia o ci doppia
Nulla che
rassicuri il
brivido
che d’agosto ti prende
4.
Poiematica dis-persa
Perché
il futuro impaura
È stata la
scoperta del
futuro,
leggo in un
breve saggio
filosofico,
a suscitare
nella specie
umana
il sentimento
oscuro
dell’angoscia.
Questo perché –
il saggio
non lo dice,
ma lo fa
intendere – il
futuro
poggia
sulla
categoria
dell’ignoto.
Ed è
notorio che
l’ignoto
impaura.
Conviene tuttavia
domandarci
a quale causa
attribuire
il fatto
che l’ignoto
cagioni la
paura.
Una soltanto,
a mio
giudizio:
il noto.
Per noto intendo il
passato e
il presente.
Un presente e
un passato
così
orrendi
quali
esperienza e storia
ci
propongono,
precludono
fiducia nel
futuro.
Avessimo un passato e
un presente
sereni, lieti, avessimo
una storia
consolatrice,
un’esperienza fausta,
neanche un futuro ignoto
impaurirebbe.
Chi
maledire
Anima che soffri
l’insoffribile,
non maledire
il Creatore.
Maledici il
creato,
così
puoi dare
sfogo al
tuo disdegno
evitando la
Geenna
e restando
nel vero.
Perché il
creato è
stato maledetto,
e maledetto è
tuttora
nonostante le sue
bellezze,
nonostante le sue
seduzioni,
e nonostante che i giusti
si
prodighino
per affrettarne il
riscatto.
Il
quid
Per esistere, esiste.
Ma non si sa
cos’è.
Lo dovremmo
sapere,
ma è
un mistero in
sé.
Quale quid? Quello che,
breve nel
tempo o eterno,
fu la radice,
od
è,
di guasto e
sofferenza.
Qualunque essenza abbia
– occasione o
perché
del male planetario –
l’odio con tutto me.
5. Per
gli innocenti
Canto
sulle
morti degli esseri inferiori procurate dall’uomo
Quello che segue
è il canto
delle morti,
le
innumerevoli, le
inconcepibili
morti degli
esseri
inferiori
all’uomo,
delle
innocenti, ingenue
bestie,
morti
procurate
dall’uomo in un
contesto
di
millenarie, assurde
aberrazioni,
di pretese
insipienti od
egocentriche,
di brame di
dominio e
sfruttamento,
di melense
opinioni, di
malizie
che non
accennano a
diminuire,
anzi
proliferano, e per
le quali,
Morte,
dannata e torbida
voragine,
io domando
giustizia.
Per i cuccioli foca
barbaramente
uccisi a
bastonate
presso i
cuori impazziti
delle
madri
per ottenere
pellicce di
pregio,
frivolezze
che gridano
abominio,
io domando
giustizia.
Per i mesti pennuti
scannati in
modo atroce e
dissanguati
col
posizionamento a
testa in
giù,
perché
nessuna
goccia
vada persa
del coagulo
che serve ad
ammannire
i caldi,
succulenti
sanguinacci,
io domando
giustizia.
Per gli ingenui
volatili
che dalle
feritoie dei
capanni,
complice la
perfidia dei
richiami,
assatanati
tiratori
bruciano
per piatti
d’anfitrionici
festini,
io domando
giustizia.
Per falangi di tori
uccisi
brutalmente nelle
arene
delle
corride, folli e
vergognose
per
l’evidente
imparità
di forze,
al turpe
scopo di portare
vanto
a pochi
tronfi, profitto
a più
scaltri,
torbida
eccitazione a
molti ignavi,
io domando
giustizia.
Per legioni di cani
incatenati ai
cosiddetti
tavoli
di
contenzione (grottesco
eufemismo),
resecati nei
tendini
vocali
perché
i lamenti
che dovranno
emettere
non divengano
grido e non
disturbino;
e sottoposti,
senza un
anestetico,
ad aberrranti
techinche
chirurgiche
che non
provano nulla e
sono
solo
corredo
indegno per
patenti e
titoli
di baroni del
bisturi ed
adepti,
io domando
giustizia.
Per le schiere bovine
macellate con
metodi
brutali
in mattatoi
bolgeschi,
dove grida,
muggiti,
schianti, mazze,
picche,
sangue,
balenare di
lame e di
roncigli,
odori
nauseanti, e ancora
sangue,
si susseguono
in stragi
inetrminabili
mantenute
segrete per non
ledere
la delicata
sensibilità
dei devoti
alla carne
sulle tavole,
io domando
giustizia.
Per gli antichi cetacei
portati ad un
tracollo
d’estinzione
grazie al
dispiegamento
micidiale
di baleniere:
fabbriche
natanti
che li
arpionano, li
issano sul
ponte,
e lì,
incuranti se
ancor
vivi o morti,
subito ne
trasformano la
mole
in prodotti
finiti –
sbarcheranno
così
all’approdo
dovizia
impensabile
di varie
confezioni
etichettate,
lucide, tanto
che nulla
traspare
del macabro
misfatto da
cui vengono
–,
io domando
giustizia.
Per le bestie infelici
condannate a
una vita
prigioniera
in gabbie o
in catene dal
volere
depravato di
uomini
insipienti,
disposti a
tanto per
guadagno,
o creduli
di cavarne
decoro,
distinzione,
o padronanza,
o gioia; e
che
invano
insistettero
e insistono
per
giorni,
per anni, per
decenni a
liberarsene,
sognando
invano i loro
spazi
vasti,
stordendosi
nei brevi
andirivieni,
intristendo,
penando,
alienandosi,
respingendo
l’avverso
nutrimento
a volte fino
a estrema
inanizione,
io domando
giustizia.
Per gli oscuri
olocausti
di migliaia e
migliaia
d’animali
sacrificati
all’idolo
progresso
con la
trasformazione di
vallate
in bacini
idroelettrici:
fenomeno
che ha
comportato
distruzione
rapida
di colonie
viventi nelle
tane
sorprese
dall’alzarsi
delle acque
cupo e
imprevisto;
invasate di
panico,
sconvolte dal
terrore,
non capaci
d’intuire la
via dello
scampo,
o se intuita
a darvi
esecuzione,
così
da terminare
i loro
giorni
in un
annegamento
collettivo,
io domando
giustizia.
Per innumeri cavie
sacrificate
nei laboratori
sedicenti
scientifici:
gironi
peggio che
gl’infernali
del Poema,
dalle orrende
sevizie,
cui soggiacciono
viventi
responsabili
soltanto
di non avere
intelligenza. Un
cuore
hanno
però, una
coscienza
vigile,
un
sentimento, con i
quali accusano
la violenza
su di essi
perpetrata
come
un’intollerabile
aporia,
e chiedono
perché
tanto
soffrire
senza
colpevolezza e
senza premio.
Per esse,
sventurate da
compiangere,
io domando
giustizia.
Per i tristi animali
bruciati vivi
senza via
di scampo
nei roghi
degli incendi
forestali
appiccati da
stupidi
piromani
a scopo di
sollazzo
distruttivo,
o da
facinorosi senza
scrupoli
per vendetta,
per
calcolo, per
rabbia;
che resero la
vita in
urla orrende
carbonizzando
dopo
immenso strazio,
io domando
giustizia.
Per le carneficine
di bestie
amabili su
infide strade
di traffico
scorrevole od
intenso,
specie nei
giorni di
maggiore
esodo,
quando
l’intelligente
progredito
non intende
più
nulla
che non sia
velocità,
per
ebbrezza
od urgenza,
così
che, anche
potendo,
mai non frena
per salvare
una vita, mai
non
scarta:
e noi si
assiste a corpi
massacrati,
ad interiora
spappolate,
a squarci
raccapriccianti,
a
poltiglie
insanguate,
io domando
giustizia.
Per più che
tanti, troppi,
incalcolabili
in numero e
in
specie
(non poche
estinte)
animali soppressi
nelle forme
più
varie,
spesso subdole,
insospettabili,
d’inquinamento:
dalle flore
trattate a
pesticidi
che fanno
strage di
canori alati,
di rosicanti,
arvicoli ed
insetti,
ai mari
contagiati di
petrolio
che
sopprimono faune
marine
ricche di
esemplari: un
coacervo
di degradi
ecologici
causati
dall’insipienza
della
brama umana
di dominio e
ricchezza, e
comportanti
atroci,
lunghi spasimi
mortali,
io domando
giustizia.
Per altre moltitudini
di animali la
cui vita
estinse,
ed estingue
tuttora,
senza freni,
l’attività
– che
si proclama
nobile
per
tradizione e
contenuti umani
–
di nome
caccia: nobile
giammai,
giustificata
quando
costituiva
il solo modo
per trovare
cibo,
oggi
superflua: sport
cruento
ed impari,
sfogo di
deleterie
propensioni
alla
violenza, al
predominio,
al sangue,
io domando
giustizia.
Per le solide
bestie
di grande
mole,
soprattutto equidi,
che il corpo
sciagurato
delle
guerre
vide usati
per soma o per
assalto
dagli
eserciti avversi, e
soccombettero
nel corso
delle azioni
militari
rimanendo sui
campi di
battaglia,
finendo i
loro giorni in
agonie
d’immenso
strazio per
ferite
orrende,
partecipi di
un fato
sventurato
per la
pretesa stolida
dell’uomo
di
coinvolgere in gesta
bellicose
partorite da
odio,
cupidigia,
da
cecità,
vendetta, predominio,
innocenti,
pacifiche
creature,
io domando
giustizia.
Per gli equorei animali
dilaniati in
un attimo
terribile
da esplosioni
atomiche di
prova
sottomarine,
per quelli
terricoli
che fecero e
faranno
uguale fine
in prove
sottoterra o in
superficie,
per tutti gli
animali del
creato
uccisi dagli
scoppi degli
ordigni
di guerra, in
situazioni
simulate
oppure
operative: enorme
numero,
legione che
c’inchioda al
nostro
inganno,
io domando
giustizia.
Per le schiere animali
immolate con
cieco
oscurantismo
sulle are
dedicate ai
veri dèi
nella becera,
illusa
convinzione
che qualche
gesto –
ieratico
di forma
ma vuoto e
menzognero di
sostanza
–
potesse
trasferire in
quelle
carni
le malefatte
e i crimini
gravanti
sulle
coscienze umane;
animali
uccisi nel
tripudio delle
feste
a centinaia,
in repiclati
riti
che davano ai
devoti
eccitazione
tra profumi
di sangue e
d’olocausti,
io domando
giustizia.
Per le non meno
estese
schiere di
eterogenei
animali
sacrificati
in cerimonie
magiche,
in pratiche
fasulle
d’aruspicio,
o guaritorie,
o
stregonesche,
od anche
potenziative
delle doti
umane
(medicamenti,
droghe,
afrodisiaci
falsi e
bugiardi come
antichi
dèi):
capitolo che
gronda di
abominio
e non ancora
chiuso ai
nostri
giorni,
io domando
giustizia.
Per i rettili, e
affini,
che una
sedicente profezia
condannò
a
strisciare
nella polvere
causa un
presunto ruolo
menzognero,
la cui vista
ci suscita
ribrezzo
solo
perché ci
siamo allontanati
da un
commercio sereno
con Natura,
nei quali
trasferimmo –
come
al solito
peccando
d’incallita
incoerenza
–
le nostre non
lineari
propensioni
a malizia, a
scaltrezza,
a raggiro;
che seppure
dotati di
veleno
ne fanno uso
soltanto se
aggrediti,
timidi
preferendo darsi a
fuga
quando
sentono giungere
disturbo,
e che noi
uccidiamo con
furore
senza
discernimento, in
ogni
caso
ci si parino
innanzi, in
ogni
evento,
io domando
giustizia.
Per quanti, da
compiangere,
animali che
l’uomo ha
sempre
ucciso,
o portato a
morire o ad
uccidersi
a scopo di
diletto o
passatempo:
dai piccioni
sfornabili a
bersaglio
di tronfi
tiratori
facoltosi
che sdegnano
i volgari
allettamenti,
ai sauri
minuziosi che un
monello
priva di
zampe e poi
trafigge
i brucia;
dai galli
battaglieri,
contrapposti
in duelli
mortali tra un
vociare
d’uomini
eccitati che
scommettono,
incitano,
urlano,
esplodono,
esècrano,
ai quadrupedi
vari che
soccombono
nelle sagre
paesane di
contrade
dove
l’arretratezza si fa
schermo
del paravento
della
tradizione;
dai circhi
dove molti non
resistono
ai duri
apprendistati e
tirocini,
alle mode
aberranti, come
quella
che batuffoli
implumi
ricolora
di vernici
sintetiche,
dannandoli
a impedimento
di
traspirazione
e quindi a
morte lenta ma
sicura;
per queste ed
altre,
tante altre
morti
di medesimo
stampo e
uguale marchio,
io domando
giustizia.
Per gli splendidi, a
rischio
di fine
prematura e
violenta,
animali
dotati di
pelliccia,
di cui
ingente numero ha
provato
e prova le
tagliole, le
imboscate,
i metodi
brutali, le
angherie
escogitate
dall’intelligente
per venirne
in possesso e
farne
capo
di vestiario
supremo,
raffinato;
soggetti a
morte quasi
sempre
atroce
perché
non venga
leso
da ferite
o strappi il
manto
ambìto;
animali
non solo
catturati nel
loro habitat,
ma fatti
nascere e
allevati a
posta
in intensivi
allevamenti,
cioè
a dire
in forme
indegne di
cattività,
io domando
giustizia.
Per gli amici
dell’uomo,
cani e gatti
domestici,
voluti
per capriccio
dai figli o
dal
consorte,
o per moda, o
per
guardia, o
attrazione,
forse per
compagnia da
chi è
solo,
ma senza un
vero vincolo
d’affetto,
e che al
primo contrasto,
al
primo incomodo,
o
perché fatti
grandi
e turbolenti
più di
quanto
facesse
prevedere
la loro forma
di graziosi
cuccioli,
o
perché, infine,
d’impaccio
nel giorno
in cui
l’aggruppamento
familiare
s’avvia verso
il luogo
delle
ferie,
vengono
abbandonati: da
quell’attimo
inizia per le
povere
bestiole
il calvario
funesto del
randagio:
smarrimento,
percosse,
fame e
sete,
pericoli,
stanchezza,
inanizione,
finché,
accalappiate,
si ritrovano
in ricoveri
inospiti, dai
quali,
se nessuno
perviene a
prelevarle,
escono
eliminate da una
spiccia
iniezione
letale. Tutto
questo
avviene per
numero
incredibile
di vite
disprezzate, per
le quali
io domando
giustizia.
E per i senza numero
animali che
l’uomo ha
eliminato
in infiniti
differenti
modi
oltre quelli
elencati –
pachidermi
abbettuti a
decine di
migliaia
al solo scopo
di ottenere
avorio
(i corpi, se
non pasto
d’avvoltoi
o iene, si
consumano in
putredine);
pesci rapiti
alle acque;
moltitudine
che il vasto
repertorio
di catture
condanna ad
agonie e
morti sadiche
stimate meno
gravi
perché
mute;
rane private
vive delle
cosce
(le sole a
costituire un
piatto
tipico)
e poi buttate
nell’ammasso mutilo
a rendere la
vita
agonizzando:
elenco in cui
rifiuto di
procedere
perché
risulterebbe troppo
lungo
e graverebbe
il cuore
d’un macigno
sommamente
pesante,
insopportabile
–
io domando
giustizia.
Morte,
che hai nell’uomo il tuo
più
fido servo,
l’esecutore più
ossequiente,
il boia
più assiduo
nell’attuare
i tuoi verdetti,
l’adepto più
esaltato
e più tenace,
il braccio destro
più
zelante, Morte,
giustiziera non giusta,
oscurantista,
inficiata da indegne
propensioni
a sevizie, a torture, a
sofferenze
inopportune al tuo
mandato estremo,
più
controproducenti che
valevoli
a darci il senso del tuo
scopo
ultimo
tanto che noi ti
detestiamo,
Morte,
per quanti innumerabili
interventi
su vite inconsapevoli e
incolpevoli
ti sei servita dell’agire
umano,
ti servi e servirai oggi
e in
futuro,
io domando giustizia,
io richiedo
giustizia,
io pretendo giustizia.
6. Caedes aeterna
Quello
che segue è il canto delle
morti,
le
innumerevoli, le inconcepibili
morti degli
esseri inferiori
all’uomo,
delle
innocenti, ingenue bestie,
morti
procurate
dall’uomo in un contesto
di
millenarie, assurde
aberrazioni,
di pretese
insipienti od
egocentriche,
di brame di
dominio e
sfruttamento,
di melense
opinioni, di malizie
che non
accennano a diminuire,
anzi
proliferano, e per le quali,
Morte,
dannata e torbida voragine,
io domando
giustizia.
Per i
cuccioli foca
barbaramente
uccisi a bastonate
presso i
cuori impazziti delle
madri
per ottenere
pellicce di pregio,
frivolezze
che gridano abominio,
io domando
giustizia.
Per i mesti
pennuti
scannati in
modo atroce e
dissanguati
col
posizionamento a testa in giù,
perché
nessuna goccia vada persa
del coagulo
che serve ad ammannire
i caldi,
succulenti sanguinacci,
io domando
giustizia.
Per gli
ingenui volatili
che dalle
feritoie dei capanni,
complice la
perfidia dei richiami,
assatanati
tiratori bruciano
per piatti
d’anfitrionici festini,
io domando
giustizia.
Per falangi
di tori
uccisi
brutalmente nelle arene
delle
corride, folli e vergognose
per
l’evidente imparità di forze,
al turpe
scopo di portare vanto
a pochi
tronfi, profitto a più
scaltri,
torbida
eccitazione a molti
ignavi,
io domando
giustizia.
Per legioni
di cani
incatenati
ai cosiddetti tavoli
di
contenzione (grottesco
eufemismo),
resecati nei
tendini vocali
perché
i lamenti che dovranno
emettere
non
divengano grido e non
disturbino;
e
sottoposti, senza un anestetico,
ad
aberrranti techinche
chirurgiche
che non
provano nulla e sono solo
corredo
indegno per patenti e
titoli
di baroni
del bisturi ed adepti,
io domando
giustizia.
Per le
schiere bovine
macellate
con metodi brutali
in mattatoi
bolgeschi, dove grida,
muggiti,
schianti, mazze, picche,
sangue,
balenare di
lame e di roncigli,
odori
nauseanti, e ancora sangue,
si
susseguono in stragi
inetrminabili
mantenute
segrete per non ledere
la delicata
sensibilità
dei devoti
alla carne sulle
tavole,
io domando
giustizia.
Per gli
antichi cetacei
portati ad
un tracollo
d’estinzione
grazie al
dispiegamento micidiale
di
baleniere: fabbriche natanti
che li
arpionano, li issano sul
ponte,
e lì,
incuranti se ancor vivi o
morti,
subito ne
trasformano la mole
in prodotti
finiti – sbarcheranno
così
all’approdo dovizia
impensabile
di varie
confezioni etichettate,
lucide,
tanto che nulla traspare
del macabro
misfatto da cui
vengono –,
io domando
giustizia.
Per le
bestie infelici
condannate a
una vita prigioniera
in gabbie o
in catene dal volere
depravato di
uomini insipienti,
disposti a
tanto per guadagno, o
creduli
di cavarne
decoro, distinzione,
o
padronanza, o gioia; e che
invano
insistettero
e insistono per
giorni,
per anni,
per decenni a
liberarsene,
sognando
invano i loro spazi
vasti,
stordendosi
nei brevi andirivieni,
intristendo,
penando, alienandosi,
respingendo
l’avverso nutrimento
a volte fino
a estrema inanizione,
io domando
giustizia.
Per gli
oscuri olocausti
di migliaia
e migliaia d’animali
sacrificati
all’idolo progresso
con la
trasformazione di vallate
in bacini
idroelettrici: fenomeno
che ha
comportato distruzione
rapida
di colonie
viventi nelle tane
sorprese
dall’alzarsi delle acque
cupo e
imprevisto; invasate di
panico,
sconvolte
dal terrore, non capaci
d’intuire la
via dello scampo,
o se intuita
a darvi esecuzione,
così
da terminare i loro giorni
in un
annegamento collettivo,
io domando
giustizia.
Per innumeri
cavie
sacrificate
nei laboratori
sedicenti
scientifici: gironi
peggio che
gl’infernali del Poema,
dalle
orrende sevizie, cui
soggiacciono
viventi
responsabili soltanto
di non avere
intelligenza. Un
cuore
hanno
però, una coscienza vigile,
un
sentimento, con i quali
accusano
la violenza
su di essi perpetrata
come
un’intollerabile aporia,
e chiedono
perché tanto soffrire
senza
colpevolezza e senza premio.
Per esse,
sventurate da
compiangere,
io domando
giustizia.
Per i tristi
animali
bruciati
vivi senza via di scampo
nei roghi
degli incendi forestali
appiccati da
stupidi piromani
a scopo di
sollazzo distruttivo,
o da
facinorosi senza scrupoli
per
vendetta, per calcolo, per
rabbia;
che resero
la vita in urla orrende
carbonizzando
dopo immenso
strazio,
io domando
giustizia.
Per le
carneficine
di bestie
amabili su infide strade
di traffico
scorrevole od intenso,
specie nei
giorni di maggiore
esodo,
quando
l’intelligente progredito
non intende
più nulla che non sia
velocità,
per ebbrezza od urgenza,
così
che, anche potendo, mai non
frena
per salvare
una vita, mai non
scarta:
e noi si
assiste a corpi
massacrati,
ad interiora
spappolate, a squarci
raccapriccianti,
a poltiglie
insanguate,
io domando
giustizia.
Per
più che tanti, troppi,
incalcolabili
in numero e in
specie
(non poche
estinte) animali soppressi
nelle forme
più varie, spesso subdole,
insospettabili,
d’inquinamento:
dalle flore
trattate a pesticidi
che fanno
strage di canori alati,
di
rosicanti, arvicoli ed insetti,
ai mari
contagiati di petrolio
che
sopprimono faune marine
ricche di
esemplari: un coacervo
di degradi
ecologici causati
dall’insipienza
della brama umana
di dominio e
ricchezza, e comportanti
atroci,
lunghi spasimi mortali,
io domando
giustizia.
Per altre
moltitudini
di animali
la cui vita estinse,
ed estingue
tuttora, senza freni,
l’attività
– che si proclama nobile
per
tradizione e contenuti umani –
di nome
caccia: nobile giammai,
giustificata
quando costituiva
il solo modo
per trovare cibo,
oggi
superflua: sport cruento ed impari,
sfogo di
deleterie propensioni
alla
violenza, al predominio, al sangue,
io domando
giustizia.
Per le
solide bestie
di grande
mole, soprattutto equidi,
che il corpo
sciagurato delle guerre
vide usati
per soma o per assalto
dagli
eserciti avversi, e soccombettero
nel corso
delle azioni militari
rimanendo
sui campi di battaglia,
finendo i
loro giorni in agonie
d’immenso
strazio per ferite orrende,
partecipi di
un fato sventurato
per la
pretesa stolida dell’uomo
di
coinvolgere in gesta bellicose
partorite da
odio, cupidigia,
da
cecità, vendetta, predominio,
innocenti,
pacifiche creature,
io domando
giustizia.
Per gli
equorei animali
dilaniati in
un attimo terribile
da
esplosioni atomiche di prova
sottomarine,
per quelli terricoli
che fecero e
faranno uguale fine
in prove
sottoterra o in superficie,
per tutti
gli animali del creato
uccisi dagli
scoppi degli ordigni
di guerra,
in situazioni simulate
oppure
operative: enorme numero,
legione che
c’inchioda al nostro inganno,
io domando
giustizia.
Per le
schiere animali
immolate con
cieco oscurantismo
sulle are
dedicate ai veri dèi
nella
becera, illusa convinzione
che qualche
gesto – ieratico di forma
ma vuoto e
menzognero di sostanza –
potesse
trasferire in quelle carni
le malefatte
e i crimini gravanti
sulle
coscienze umane; animali
uccisi nel
tripudio delle feste
a centinaia,
in repiclati riti
che davano
ai devoti eccitazione
tra profumi
di sangue e d’olocausti,
io domando
giustizia.
Per le non
meno estese
schiere di
eterogenei animali
sacrificati
in cerimonie magiche,
in pratiche
fasulle d’aruspicio,
o
guaritorie, o stregonesche, od anche
potenziative
delle doti umane
(medicamenti,
droghe, afrodisiaci
falsi e
bugiardi come antichi dèi):
capitolo che
gronda di abominio
e non ancora
chiuso ai nostri giorni,
io domando
giustizia.
Per i
rettili, e affini,
che una
sedicente profezia
condannò
a strisciare nella polvere
causa un
presunto ruolo menzognero,
la cui vista
ci suscita ribrezzo
solo
perché ci siamo allontanati
da un
commercio sereno con Natura,
nei quali
trasferimmo – come al solito
peccando
d’incallita incoerenza –
le nostre
non lineari propensioni
a malizia, a
scaltrezza, a raggiro;
che seppure
dotati di veleno
ne fanno uso
soltanto se aggrediti,
timidi
preferendo darsi a fuga
quando
sentono giungere disturbo,
e che noi
uccidiamo con furore
senza
discernimento, in ogni caso
ci si parino
innanzi, in ogni evento,
io domando
giustizia.
Per quanti,
da compiangere,
animali che
l’uomo ha sempre ucciso,
o portato a
morire o ad uccidersi
a scopo di
diletto o passatempo:
dai piccioni
sfornabili a bersaglio
di tronfi
tiratori facoltosi
che sdegnano
i volgari allettamenti,
ai sauri
minuziosi che un monello
priva di
zampe e poi trafigge i brucia;
dai galli
battaglieri, contrapposti
in duelli
mortali tra un vociare
d’uomini
eccitati che scommettono,
incitano,
urlano, esplodono, esècrano,
ai
quadrupedi vari che soccombono
nelle sagre
paesane di contrade
dove
l’arretratezza si fa schermo
del
paravento della tradizione;
dai circhi
dove molti non resistono
ai duri
apprendistati e tirocini,
alle mode
aberranti, come quella
che
batuffoli implumi ricolora
di vernici
sintetiche, dannandoli
a
impedimento di traspirazione
e quindi a
morte lenta ma sicura;
per queste
ed altre, tante altre morti
di medesimo
stampo e uguale marchio,
io domando
giustizia.
Per gli
splendidi, a rischio
di fine
prematura e violenta,
animali
dotati di pelliccia,
di cui
ingente numero ha provato
e prova le
tagliole, le imboscate,
i metodi
brutali, le angherie
escogitate
dall’intelligente
per venirne
in possesso e farne capo
di vestiario
supremo, raffinato;
soggetti a
morte quasi sempre atroce
perché
non venga leso da ferite
o strappi il
manto ambìto; animali
non solo
catturati nel loro habitat,
ma fatti
nascere e allevati a posta
in intensivi
allevamenti, cioè a dire
in forme
indegne di cattività,
io domando
giustizia.
Per gli
amici dell’uomo,
cani e gatti
domestici, voluti
per
capriccio dai figli o dal consorte,
o per moda,
o per guardia, o attrazione,
forse per
compagnia da chi è solo,
ma senza un
vero vincolo d’affetto,
e che al
primo contrasto, al primo
incomodo,
o
perché fatti grandi e turbolenti
più
di quanto facesse prevedere
la loro
forma di graziosi cuccioli,
o
perché, infine, d’impaccio nel giorno
in cui
l’aggruppamento familiare
s’avvia
verso il luogo delle ferie,
vengono
abbandonati: da quell’attimo
inizia per
le povere bestiole
il calvario
funesto del randagio:
smarrimento,
percosse, fame e sete,
pericoli,
stanchezza, inanizione,
finché,
accalappiate, si ritrovano
in ricoveri
inospiti, dai quali,
se nessuno
perviene a prelevarle,
escono
eliminate da una spiccia
iniezione
letale. Tutto questo
avviene per
numero incredibile
di vite
disprezzate, per le quali
io domando
giustizia.
E per i
senza numero
animali che
l’uomo ha eliminato
in infiniti
differenti modi
oltre quelli
elencati – pachidermi
abbettuti a
decine di migliaia
al solo
scopo di ottenere avorio
(i corpi, se
non pasto d’avvoltoi
o iene, si
consumano in putredine);
pesci rapiti
alle acque; moltitudine
che il vasto
repertorio di catture
condanna ad
agonie e morti sadiche
stimate meno
gravi perché mute;
rane private
vive delle cosce
(le sole a
costituire un piatto tipico)
e poi
buttate nell’ammasso mutilo
a rendere la
vita agonizzando:
elenco in
cui rifiuto di procedere
perché
risulterebbe troppo lungo
e graverebbe
il cuore d’un macigno
sommamente
pesante, insopportabile –
io domando
giustizia.
Morte,
che hai
nell’uomo il tuo più fido servo,
l’esecutore
più ossequiente, il boia
più
assiduo nell’attuare i tuoi verdetti,
l’adepto
più esaltato e più tenace,
il braccio
destro più zelante, Morte,
giustiziera
non giusta, oscurantista,
inficiata da
indegne propensioni
a sevizie, a
torture, a sofferenze
inopportune
al tuo mandato estremo,
più
controproducenti che valevoli
a darci il
senso del tuo scopo ultimo
tanto che
noi ti detestiamo, Morte,
per quanti
innumerabili interventi
su vite
inconsapevoli e incolpevoli
ti sei
servita dell’agire umano,
ti servi e
servirai oggi e in futuro,
io domando
giustizia,
io richiedo
giustizia,
io pretendo
giustizia.
7. Sopra
un’immagine biblica
*
Un amico
poeta
avvia un
suo testo
dichiarando
di attendere
ogni
mattino, sempre,
che gli
compaia – fausta
portatrice
d’annunzio
di
libertà e riscatto –
la
colomba dell’arca
con il
ramo d’ulivo.
Quel
poeta è oscuro
ma
l’immagine biblica
tolta
dall’epopea
del
diluvio grandiosa
è
un lampo di bellezza
degno
d’un grande vate,
perla
quindi esemplare
alla
quale inchinarsi
senza
riserva o remora.
Innestata
nell’umile
quotidiano
del vivere,
quell’immagine
è segno
di
volontà decisa
a non
cedere mai,
a volere
ogni giorno
affrontare
il destino
duro,
arduo ed avverso,
con
tenacia mai vinta.
Tesa a
significare
immersione
totale
nel
flusso della Storia,
fondata
sul passato,
proiettata
al futuro,
è
simbolo che amplifica
il senso
della vita:
ogni
vita come arca
nel
diluvio di pena
in cui
tristi si naviga.
Segno
dunque e bandiera
d’indomita
speranza;
quella
speranza che,
ultima
dea, è prima
ad
affiancare l’uomo
che si
sveglia e ritrova
nella
triste avvilenza
posta la
sera innanzi
sopra i
panni dismessi.
Speranza che incoraggia.
*Cfr.
A. Rudi, Settenari
(2002 – 2010), Mozzate (CO) 2011, pp. 75-76.
8. Fu per questo che Dio creò la donna *
Fu quando Dio s’accorse
che Adamo, preso da un amore vivo
per le bellezze del Creato,
baciava i fiori, le farfalle, i frutti,
e pur così baciando
l’impulso di baciare anziché scendere
gli si moltiplicava,
diveniva tormento.
Fu allora che comprese
come occorreva un simulacro altissimo
di Sé, beltà assoluta,
baciando il quale la creatura più alta
arrivasse a saziarsi.
Ma tale bacio all’uomo era interdetto:
nulla esisteva che potesse accoglierlo.
Fu per questo che Dio creò la donna,
la meraviglia che si aggiunse, ultima,
al disegno iniziale del Creato.
E risultò la più perfetta: in essa
compendiate apparivano le altezze
che meglio rimandavano al divino.
Ma quando Adamo s’accostò col bacio
alla nuova creatura, così grande
fu il desiderio di aderire ad essa,
d’esserne parte, fondersi
in quel crogiolo di bellezze estreme
che più forte sentì, insopportabile
il desiderio di non smetter baci.
Ciò che doveva spegnere, acquietare,
finì per scatenare a dismisura.
Il divino è così: non sazia mai,
anche quando è in immagini carnali.
* Cfr. A. Rudi,
Pietrame, Youcanprint, Tricase (LE) 2013.
9. Bisanzio *
Di Bisanzio
noi non abbiamo bisogno.
Sì: dirà pure qualcosa,
o anche molto, Bisanzio,
nell’ufficialità della cultura.
Ma noi siamo altri, uomini diversi
nella gestione dei valori alti,
intellettivi o storici che siano,
ed anche mercantili, ed anche artistici.
Saranno pure state grandi
Bisanzio, come Atene, come Roma,
come Gerusalemme od Alessandria.
Ma noi non vogliamo essere grandi
come furono, colmi d’ambizioni,
i maggiorenti che vi soggiornarono,
vi si esibirono, vi dominarono.
Noi aspiriamo a grandezze diverse,
ad altri pregi, ad altre eccellenze,
ad altre maestrie, ad altre prestanze.
Non l’aquila soltanto vola alto.
Vola alto anche un semplice, esiguo,
rondone migratore,
e per di più capace di coprire
estensioni incredibili di miglia
quali l’aquila nemmeno si figura,
e in strati d’atmosfera superiori
quali l’aquila ignora. Lassù inoltre
non si danno litigi, antagonismi.
Lassù si è tutti solidali. Persi,
ma non turbati, nell’immensità
viva di luce, vuota di apparenze.
Lassù si è tesi al solo grande scopo
di favorire il corso della vita.
Senso non ha lassù parlare infine
di maestosità, supremazia,
di sguardo ardito, cipiglio, imponenza:
pregi tutti che l’uomo
attribuisce all’aquila. Lassù
queste prerogative impallidiscono,
lasciando spazio a doti meno eccelse,
doti di consistenza e concretezza
ma più consone al vivere, all’esistere.
Ecco: noi vogliamo essere rondoni,
creature d’aria, di luce, di cielo,
di tenacia e concordia.
Nulla dunque c’importa se, modesti,
rifiutiamo la vita organizzata
secondo i postulati del prestigio
(i cosiddetti sviluppo e progresso
come diffusamente praticati).
Non produrremo capitelli, fregi,
logge, manieri, are, biblioteche,
accademie e basiliche.
Ai colonnati in pietra
vogliamo sostituirne eretti in tronchi,
alle chiese e alle regge
pomari e broli, selve dove volta
fronde siano e cielo, tersa, e dove
nessun simbolo sculto o dipinto
richiami preminenza, egemonia.
Vogliamo l’armonia globale, quella
– ugualitaria, equabile, felice –
che mancò alle urbi sopraddette.
Certo è, così, che spiriti altezzosi
rideranno di noi, duri accusandoci
di essere ignorabili utopisti.
Nulla di male: meglio
utopisti derisi da saccenti
che sudditi incoscienti
per guasto etico (e ammorbati
di folle cecità) nell’applicare
una scala valori divergente
da quella delle origini,
se le origini furono felici.
Meglio l’accondiscendere a Natura,
rispettandone i canoni,
accogliendone i limiti,
assecondando il meglio della sua
brillante, a volte irruenta, ma in complesso
– se intromissioni non sorgono estranee
come quelle (che sfasciano) dell’uomo
cosiddetto evoluto
– sacra ed armonica, vitalità.
* Cfr. A. Rudi, Residenza decastila, B&B Edizioni, Mozzate (CO) 2014.
10. Via Crucis – Stazioni 1-3 *
Condanna
Cosa ti ha trattenuto, onnipotente,
dal compiere il prodigio non conosco,
sul punto in cui Pilato si assolveva:
transustanziare l’acqua in sangue,
renderla segno sensibile
del crimine occulto d’un vile.
Ma, sospesi nell’ora delle tenebre
i tuoi poteri, parve gioco semplice,
a chi ti giudicava, abbandonarti
– innocente non conta – in pegno d’ordine.
Tu intanto udivi reclamarti ostili
le braccia affilate dall’invidia
dei sapienti confusi tra la plebe.
E, agnello mansueto, tacevi.
La croce
Quando i raggi del sole di quel giorno
irruppero nel foro tumultuoso,
brillò sinistro il sangue raggrumato
sul tuo volto deriso d’ecce homo.
Ma più brillarono gli occhi, nascosti
in quell’obbrobrio di maschera regale,
e fu quando vedesti che portavano,
da caricarti, il legno degli schiavi.
Era che del tuo regno d’altro mondo
il vessillo prescelto farsi avanti
in quel legno scorgevi, e che per sempre
tu e la croce avreste avuto un’unica,
ammirevole storia di conquiste.
Tu e la croce: re, vessillo e premio
d’un regno a questo mondo incomprensibile.
Prima caduta
Nel mentre discendevi la scalea
e vacillavi sotto il peso infame,
la muta dei fanatici più accesi
ti circondò – dal popolo sospinta –
gridandoti improperi innominabili.
Ne sorse un tafferuglio in cui tu, unico
indifeso, subisti nuove scosse,
nuovi colpi intronanti nello spasimo
delle cave tue vene – e poi cadesti.
Rifatto ordine, tu solo giacevi
incapace d’alzarti: un torvo sgherro
afferrò la tua carne per le piaghe
e brutalmente ti rimise in piedi.
* Cfr. G. Antognazza - A. Rudi,
Via Crucis, Presentazione di Don B. Legramandi, Locate Varesino (CO) 2001.
11. Questioni divine *
La passione di Cristo
Necessaria? Se sì,
perché nell’andamento
mostruoso che sappiamo?
Se no, perché fu imposta?
Domande che poniamo
senza avere risposta.
(Quella che danno: amore,
appare insufficiente
a spiegarne l’orrore).
Congettura
Volendo concentrare in un pensiero
quanto avviene di male sul pianeta,
e ragionando con criteri umani,
sembra di dover dire – e senza dubbio
non lontano dal vero, anzi certissimo –
che Satana sa molto bene come
dare filo da torcere a Colui
che lo ha catapultato nell’abisso.
S’un muro di Mauthausen
Dicono che s’un muro di Mauthausen
fu trovata la scritta “Se Dio esiste
deve una spiegazione”.
L’ignoto autore di tanto pensiero
ha potuto vergare quella scritta
perché dimenticatosi che Dio
non è tenuto a dare spiegazioni.
Se lo fosse, difatti,
non sarebbe più Dio.
* Cfr. A. Rudi, Integrazioni, Mozzate (CO) 2015.
12. Amarastro *
L’immensa millenaria sofferenza
presente sulla faccia della Terra,
anche a volerle dare un contenuto
di orientamento verso perfezione,
come dicono i saggi della Storia
e i sapienti, a partire dai più antichi,
Budda, Confucio, Epicuro, Zoroastro,
lascia in bocca un sapore d’amarastro.
*Cfr. A. Rudi, Integrazioni, Mozzate (CO) 2015.
13. Dolce-amaro *
Allusività erotica
Solo starti vicino è una delizia:
la femminilità che tu promani
solleva a leggerezza inesprimibile.
Se poi aggiungi sguardi languorosi
e parole che invitano a conoscerti
nel modo che – allusivo – intende il Libro,
allora il paradiso apre la porta
che venne chiusa da spada di fuoco
ad una spada fulgida di gaudio.
Sul dorso una croce
Pone il destino sul dorso una croce
ad ognuno che nasce.
Ma poi alcuni riescono a disfarsene
ed accollarla ad altri.
Resta comunque amplissima la schiera
di chi la sua trascina
per l’esistenza intera.
*Cfr. A. Rudi, Integrazioni, Mozzate (CO) 2015.
14. Riflessione sulla foglia del fico *
Se il primo peccato fu venereo,
come taluni credono,
è blasfemo pensare
che quando vollero coprirsi, Adamo
ed Eva, le pudenda, i gioielli
di carne da cui tanto di dolcezza
carnale avevano stillato, scelsero,
fra numerose differenti foglie
che il giardino terrestre loro offriva,
quella del fico, l’albero il cui frutto
aveva maggiormente soddisfatto
il loro gusto, il loro palato?
Se così è stato, vollero
forse dire: copriamo una dolcezza
che ci fa arrossire,
ma per non smemorarcene
la nascondiamo con foglie dell’albero
che dà il frutto più dolce?
*Cfr. A. Rudi, Integrazioni, Mozzate (CO) 2015.
15. Via Crucis - Stazione 4-6
La Madre
La vedesti, tua madre, presso un arco
strettissimo, dove, come a un’ansa
di fiume la corrente si fa tenue,
la turba diradata non urgeva.
In quell’ultimo istante solitario
del tuo corso mortale lei vedesti
che nel primo t’accolse, già presaga
del suo tragico epilogo.
Nel volto immacolato e nel celeste
manto che l’avvolgeva essa ti parve
spirito del tuo spirito – e tu a lei,
nel volto e nella tunica scarlatti,
sangue del suo sangue – che pativa.
E a rendervi più saldi nel dolore
la spada dei medesimi pensieri
vi trafiggeva. Finch’ella ebbe forza
di staccarsi da te, e silenziosa
seguirti nel tumulto che ingrossava.
Il Cireneo
Col proposito di prendere un uomo,
il primo che venisse tra le mani,
e caricarlo del peso della trave,
si scagliarono i militi imprecando
verso la folla. Al fiuto del pericolo
tutti si ritirarono tranne uno:
Simone di Cirene, agricoltore,
alto e squadrato, giusto l’uomo adatto.
Costui si era trovato nel subbuglio
di ritorno dai campi: mero caso?
Ebbe così la folla rifluendo
uno in più da deridere: uno tardo
a fuggire dai guai: Cristo soltanto
sapeva che quell’uomo si era esposto
per un inizio di compatimento
del suo misero stato. E come premio,
dopo averlo congiunto al suo dolore,
lieve gli rese e alieno il vilipendio.
La Veronica
Al tuo sangue purissimo di Dio,
come il nostro poteva, reo, congiungersi?
Sfiorando la Veronica amorevole
con un candido lino la tua fronte,
si punse alla corona delle spine.
Fu così che una goccia del suo sangue
si disciolse nel tuo, si confuse
nell’immagine del santo sudario.
Quella goccia era nostra, sangue nostro
di peccatori aggiunto al tuo prezioso.
16. Via Crucis - Stazione 7-8
Seconda caduta
Come in bilico a un orlo di voragine,
in un’inerzia che ad alcuno – esperto
d’agonie di condannati – pare estrema,
si ferma il redentore. Un’onda greve
di vertigine al cranio gli si affolta,
lo sguardo gli si offusca, le tempie
gli battono furiose,
e nel perdere i sensi e nel cadere
la febbre allucinante gli fa credere
di scendere in un buio senza fine.
Nulla potendo gli angeli che un tempo,
vincitore, lo avevano servito,
tocca a uomini, ora, diabolici
dalla polvere vinto sollevarlo;
non senza ira, spinte, contumelie,
offese che gli rendono più amaro
il suo triste riaversi.
Le donne
Quello che poi avvenne fu incredibile:
la vittima sommersa d’abominio,
orrendamente in volto sfigurata,
ridotta a ombra quasi, ebbe forza
d’imporsi a grida ostili e profetare.
Donne che a lui devote s’attristavano
seguendone il martirio, ne sentirono
lo sguardo acuto coglierle,
e fioca ma pur lucida la voce
leggere nel futuro eventi inquieti:
“Non piangete su me, su voi piangete,
figlie d’Jerusalem,
perché, se tanto soffre il legno verde,
che ne sarà del secco?”
Così diceva, ed esse fra le mani,
tornando a singhiozzare, si nascosero.
Parve un secolo il tempo che immobile
– a tanto ardire – e nel timore incredulo
il popolo rimase: occorse un urlo,
un comando gridato come belva,
perché si riscuotesse – e sul cordoglio
riprese sopravvento la ferocia.