Non
si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze
Horkheimer-Adorno,
Dialettica
dell'illuminismo
Rivisitazioni,
traduzioni, manipolazioni
Redazione
Sergio Audano,
Gianni Caccia,
Maria Grazia Caenaro
Claudio Cazzola,
Lorenzo Fort, Letizia Lanza
Claudio
Angelini
Scheda
biobibliografica
|
Simile
agli
dei (Saffo, fr. 31 V.)
Mi pare simile agli
dei quell’uomo
che ti
è
d’accanto, e
ascolta il dolce suono
della tua
voce, quando
parli
e ridi
graziosa e
amante.
A me, nel petto ecco
che il cuore
s’agita
turbato, e
appena ch’io
ti veda
un solo
istante, la
voce mi
s’interrompe
come impedita,
ma la lingua si
spezza, e un improvviso
brivido
ardente va sotto
la pelle,
gli occhi non
vedono
più
nulla, e un rombo
corre le
orecchie,
grondo sudore, sono
tutta un tremito
e
impallidisco, verde
più
dell’erba,
mi sembra
d’essere vicina
a morte,
fuori di me.
Ma tutto è
sopportabile,
perché …
Aurea
medietas
(Orazio, Odi II, 10)
Vivrai meglio,
Licinio, sia evitando
l’alto mare,
sia se non
resti
a lungo
sulla costa
malfida,
spaventato
dalla
burrasca.
Chi ama l’aurea via di
mezzo schiva,
tranquillo, o
un tetto
sordido
e malfermo
o, modesto,
una reggia
sontuosa
che desti
invidia.
Più spesso i
venti scuotono
il gran pino
e con fragore
più
tremendo
cadono
le eccelse
torri, e i
fulmini
s’abbattono
sugli alti
monti.
L’animo preparato,
nell’avversa
sorte spera,
nella
propizia teme
che tutto
cambi. Giove
aduna
informi
nubi nel cielo
e le disperde. Se ora
hai male,
meglio
starai
domani; Apollo con
la
cetra
desta la Musa
tacita,
né
sempre
tende il suo
arco.
Mostrati forte quando
t’è
contraria
la fortuna, e dà
esempio
di saggezza
tirando giù le
vele quando
troppo
prospero è il
vento.
2. Gerusalemme
Gerusalemme,
con le
tue mura
di
pietre grigie
coperte
di muschio,
circondate
dal
deserto,
arido e
brullo
come
l’animo
dell’uomo
in cui
ancora non
sia entrata
la
parola di Dio,
Gerusalemme,
eretta
dalla
forza del
pianto,
con le
tue porte
massicce,
le tue
aurate
moschee, le tue croci,
circondata
dal
deserto
che si
fa luogo
dell’anima,
assetata
di
silenzio, voce
di Dio,
che
parla nel
fruscio del vento
quando
scava la
sabbia dalla roccia,
nel
bisbiglio del
granulo, e del seme,
nello
strisciare
del serpente,
Gerusalemme,
dove
il rintocco
bronzeo
nell’ore
crepuscolari
s’alterna
alla
nenia del muezzin
come
lamento di
secoli…
Gerusalemme,
cui
sovrastano le
tombe
della
valle di
Giosafat
in cui i
morti
risorgeranno,
su cui
pende in
dolce declivio
l’ulivo
del
Getsemani
ove un
tuo Figlio
in solitudine
sudò
sangue, e
ridiede alle creature
la
Grazia, e lo
spirito eterno,
Gerusalemme
del
fecondo pianto…
Da te
salgono le
grida,
le
speranze e le
angosce,
il
tormento dei
miseri e i reietti,
dai tuoi
vicoli bui,
dagli angiporti
dove la
storia è
scritta
in
lunghe righe di
sangue,
dalle
botteghe, i
tuguri, in cui scorre
una
folla diversa,
brulicante,
di
fratelli, tutti
fratelli, che anche
nella
ferocia della
belva
agognano
alla vita,
come
diritto di chi
nasce…
Ma come
l’acqua che
permea
la terra
e ogni sua
lordura
e ne
trae gli
alimenti più vivi
divenendo
sorgente
ricca e pura,
così
sensi e
passioni innerveranno
l’eterea
barriera
levata
su te,
città del
dolore,
divenendo
lassù
nuova struttura,
torre,
bastione,
terrazza, vetrata,
e
moltitudini in
festa d’amore…
L’Uomo
per cui
nessun dolore è vano
ha
rinnovato ormai
tutte le cose,
ecco che
sorgono
per lui le mura
della
novella
Gerusalemme,
in cui
tutto è
incorrotto, e sempre dura.
3. Orfeo
(e Don Giovanni) all’Inferno
Don
Giovanni agli Inferi(Baudelaire)
Allorché
Don Giovanni scese all’onda d’abisso,
dato a Caronte l’obolo,
un mendicante
scuro
che aveva, come
Antistene, lo
sguardo fiero e fisso,
prese i remi con braccio
vendicativo
e duro.
Mostrando i seni penduli,
e con
le vesti aperte
sotto la volta buia,
donne si
contorcevano,
e come un vasto branco di
vittime
lì offerte,
dietro di lui lunghissimi
ululati
emettevano.
Sganarello ridendo gli
chiedeva
la paga,
don Luigi, col dito
tremolante
ed ossuto,
mostrava a tutti i morti,
turba
labile e vaga,
l’empio figlio,
oltraggioso del
suo capo canuto.
La casta Elvira, in
lutto, tremante
e smunta in viso,
presso il suo sposo
perfido,
il suo amante violento,
sembrava lo implorasse
d’un estremo
sorriso
che avesse la dolcezza
del primo
giuramento.
Un grande uomo di pietra,
chiuso
nell’armi, stava
immobile al timone,
fendendo
il nero flutto,
ma, curvo sulla spada,
calmo,
l’eroe guardava
il solco della barca,
disdegnoso
di tutto
Sonetto
a Orfeon°
3 (Rilke)
Un
dio lo può. Ma potrà mai adeguarsi
su snella
lira un uomo,
dì,
al suo esempio?
L’uomo
è discorde.
Apollo
non ha un tempio
dove in cuore
due vie
vanno a
incrociarsi.
Non è
brama, quel
canto
che tu insegni,
non cosa
ambita e
finalmente
presa.
Canto
è esistenza.
Al
dio facile impresa.
Ma quando
siamo, noi? Nei
suoi
disegni
quando egli
terra e
stelle a
noi prepara?
Non quando
ardi d’amore,
o giovinetto,
pur se t’urge
la voce in
bocca.
Impara,
scorda
ciò che
cantasti.
Fu un momento.
Il canto vero
è un
altro,
soffio schietto,
che va in
nulla. Soffio
divino.
Vento.
4. Luci
ed ombre
La
fronda di mirto (Archiloco, frr. 30, 31 W.)
Aveva
in mano una fronda di mirto
e un bel
fiore di rosa, e
ci
giocava …
e la sua
chioma le faceva
ombra
sugli omeri e
le spalle.
Solitudine
(Saffo, fr. 168B V.)
La
luna è tramontata, con le Pleiadi,
la notte
è al
mezzo, il
tempo passa, ed io
sono sola nel
letto …
Beviamo!
(Alceo, fr. 346 V.)
Beviamo,
perché aspettare le lampade? Breve è il tempo.
Caro
fanciullo, prendi le
tazze
grandi, dipinte
di vari
colori,
ché il
figlio di Giove e Semele donò,
per
confortarli dei mali,
agli
uomini il vino. Due parti
d’acqua, ed
una di vino
tu mesci,
che su, fino all’orlo
trabocchi il
calice, e
l’uno
insegua subito l’altro.
Le
stelle (Ibico, fr. 314 P.)
… Ardente, come per la
lunga notte
fulgidissime stelle.
5. Dal
Libro delle immagini di R.M. Rilke
Annunciazione
Tu non sei più
vicina a
Dio di noi,
tutti siamo
lontani.
Ma tu hai
meravigliose
benedette le
mani.
E non
maturano a nessuna
donna
così
lucenti
dall’orlo:
io sono il
giorno, la
rugiada,
tu invece sei
la pianta.
Stanco son ora, lungo
fu il cammino,
scusa, ho
dimenticato
quello che
Lui, nel trono
suo
di sole
tutto d’oro
ingemmato,
a te,
pensierosa,
annunciava
(lo spazio mi
ha
stordito),
vedi, io sono
il
principio,
tu invece sei
la pianta.
Ho disteso nel cielo
le mie ali,
e sono
grande, tanto;
ora trabocca
la tua casa
piccola
del mio
diffuso manto.
Eppure qui tu
sei sola
più
che mai, non
mi vedi
abbastanza,
nel bosco io
sono un
lieve alito,
tu invece sei
la pianta.
Ecco, gli angeli tutti
sbigottiscono
presi dallo
sconcerto:
no, non era
mai stato il
desiderio
così
struggente e
incerto.
Forse presto
accadrà qualcosa
che tu nel
tuo sogno
intendi,
salute a te,
vede il mio
animo
che tu sei
pronta e
attendi.
Tu sei la grande e
alta porta
dischiusa fra
non molto,
tu sei la
più cara
che
porga,
lo so, al
canto mio
ascolto,
la mia parola
s’è
nascosta
in te come
nel bosco.
Così sono
venuto a compiere
in te, la
gioia sognata.
Dio mi
guardò, era
fulgido
…
Tu invece sei
la pianta.
6. Amore
è illusione
(traduzioni
dall’Antologia Palatina)
V, 94
A
Mèlite (Rufino)
O Mèlite, hai
gli occhi
di Era,
le mani d’Atena, le poppe
d’Afrodite, e di Teti le
caviglie.
Chi ti vede è
felice,
e tre volte felice chi ti
ascolta;
è un semidio chi
ti bacia,
un immortale chi ti
avrà
sua sposa.
V, 230
Legato a un
capello
(Paolo Silenziario)
Strappatasi un capello
dalla chioma
dorata, mi legò le
palme
Dòride,
come se fossi un
prigioniero.
E allora
pensai ridendo fosse una
bazzecola
togliersi le catene
dell’amabile
mia Dòride. Ma
invece
non trovai
più la forza
d’infrangerle,
e spossato
mi misi a piangere, come
se in
ceppi
di bronzo fossi stretto.
Ora
tre volte
misero, la mia vita ad un
capello
resta sospesa, e
ohimè,
la mia padrona
mi trascina dovunque ella
desideri.
V, 250
Tutti
bugiardi gli uomini
(Paolo
Silenziario)
Dolce, o amici,
è il sorriso
di Laide,
dolce il pianto che
scende dagli
occhi
suoi commossi. Piangeva
per nulla
ieri a lungo, col capo
piegato
sul mio braccio.
Baciandola,
ancora
si doleva, ed uguale a
una fonte
di rugiada, versava le
lacrime
sulle bocche congiunte.
Le chiesi:
“Perché piangi,
cos’hai?”
Mi rispose:
“Ho paura che possa
lasciarmi:
siete tutti bugiardi, voi
uomini!”
7. Donne
che si credono belle
Troppo
superba
(Sesto Properzio, Elegie III, 24)
Donna,
è illusoria questa gran fiducia
che
hai nella tua bellezza, tu che un tempo
agli
occhi miei troppo superba fosti.
Fu
l’amor mio che sì gran pregi, o Cinzia,
t’attribuì,
per cui famosa adesso
d’essere
grazie ai versi miei t’incresce.
Spesso
ho elogiato in te gli atti, le forme
più
misti e vari, al punto che il mio amore
vedesse
in te quel che non c’era. E spesso
ho
confrontato il tuo colore a quello
roseo
dell’alba, quando il volto candido
facevi
ad arte; così la passione
che
svellermi gli amici a me più cari
non
poterono, né le maghe tessale
lavarmi
via gettando su di me
tutta
l’acqua del mare, io la nutrivo
non
costretto dal ferro né dal fuoco
ma
perché, naufrago nel mare Egeo,
credevo
veri quei tuoi pregi. E preso
nella
caldaia orribile di Venere
ribollivo,
legato con le mani
dietro
la schiena. Adesso finalmente
la
mia nave, adornata di ghirlande,
è
entrata in porto, ed ho buttato l’ancora
dopo
che attraversai le Sirti. Stanco
del
vasto gorgo infine ricomincio
a
veder chiaro, e le ferite aperte
si
vanno risanando. O mente mia,
che
vedi giusto, se divina sei,
mi
consacro al tuo tempio. Le preghiere
che,
tante, a Giove avevo fatto, vane
erano
state. Non vi porse ascolto.
Legato
a un capello
(Paolo Silenziario, Antologia Palatina V, 230)
Strappatasi
un capello dalla chioma
dorata,
mi legò le palme Dòride,
come
se fossi un prigioniero. E allora
pensai
ridendo fosse una bazzecola
togliersi
le catene dell’amabile
mia
Dòride. Ma invece non trovai
più
la forza d’infrangerle, e spossato
mi
misi a piangere, come se in ceppi
di
bronzo fossi stretto. Ora tre volte
misero,
la mia vita ad un capello
resta
sospesa, e ohimé, la mia padrona
mi
trascina dovunque ella desideri.
L’amore
della menzogna (Baudelaire, da I fiori del male, “Quadri parigini”)
Quando ti vedo
incedere, o mia cara indolente,
al canto dei violini
che il soffitto riecheggia,
e sospendere il passo,
con mosse blande e lente,
mentre il tuo sguardo,
intenso e annoiato, passeggia;
quando contemplo, al
fuoco del gas che lo colora,
il bianco viso, sparso
d’incanto delicato,
su cui a sera le
fiaccole accendono un’aurora,
e gli occhi tuoi che
attraggono come un ritratto amato,
mi dico: Quant’è
bella, bizzarramente fresca!
Il ricordo massiccio,
regia torre imponente,
l’incorona, e il suo
cuore, livido come pesca,
come il corpo, è
maturo per l’amore sapiente.
Sei tu frutto
d’autunno dai sapori sovrani?
O forse vaso funebre
che attende tristi umori,
profumo che rapisce
verso lidi lontani,
guanciale carezzevole,
o gran cesto di fiori?
Lo so: ci sono occhi,
malinconici e mesti,
che non celano sensi
preziosi ed ignoti,
begli scrigni
senz’oro, teche senza più resti,
che del Cielo medesimo
son più profondi e vuoti!
Ma non è
sufficiente
che tu sia l’apparenza,
perché io, che
fuggo
il vero, in te trovi ristoro?
Che importa se in te
allignano stoltezza o indifferenza?
Maschera
o fregio, salve! Sei bella, ed io t’adoro.
8. Inquietudini antiche e moderne
ORAZIO (ep. I 11)
Che te n’è parso, Bullazio, di Chio
e di Lesbo famosa, e che di Samo
elegante, o di Sardi, la dimora
di Creso, che di Smirne o Colofone?
Son degne o indegne della loro fama?
Son tutte insieme roba da spregiare
rispetto al Campo Marzio, e al fiume Tevere?
O forse ti vien voglia di qualcuna
delle città di Attalo? O per caso,
disgustato dal mare o dalle strade
terrestri, lodi Lèbedo? Sai bene
cos’è Lèbedo; un borgo desolato
più di Gabi o Fidene. Eppure vivere
io vorrei proprio là, dimenticarmi
dei miei, desideroso ch’essi pure
non mi pensino più, guardare l’onde
lontane, mentre infuriano, da terra.
Ma chi da Capua a Roma se ne va,
sporco di fango e fradicio di pioggia,
non vuole certo il resto dei suoi giorni
passare dentro un’osteria, e nemmeno
chi ha preso tanto freddo fa l’elogio
di bagni e stufe, quasi che bastassero
a farti allegro e fortunato; e se Austro
t’ha sballottato forte in alto mare
non per questo, una volta uscito fuori
dall’Egeo, venderesti la tua nave.
Per chi è in buona salute, Mitilene
la bella, e Rodi hanno lo stesso effetto
d’un mantello al solstizio dell’estate,
o corte brache quando soffia un vento
nevoso, o far d’inverno il bagno in Tevere
o nel mese Sestile stare accanto
al caminetto. Fin quando è possibile
e benigno per noi mantenga il volto
la Fortuna, si lodi da lontano
Chio, Samo e Rodi, rimanendo a Roma.
Tu prendi con riconoscente mano
ogni momento che propizio il dio
t’abbia assegnato, non procrastinare
d’anno in anno le gioie, perché infine
tu possa dire che vivesti lieto
dovunque fu la tua dimora. E dunque
se saggezza e ragione hanno il potere
di placare l’affanno, e non il luogo
che ampio tratto di mare abbia in dominio,
mutano il cielo, e non il loro animo
quelli che corrono al di là del mare.
L’inerzia ci fa essere nervosi;
con navi e carri ci moviamo, in cerca
della felicità. Quello che cerchi
lo trovi qui, lo trovi a Ulubri, basta
che non ti manchi l’equilibrio d’animo.
Moesta et errabunda (Baudelaire, Les fleurs du mal)
Dimmi Agata, talvolta s’alza in volo il tuo cuore
lungi dal nero oceano dell’immonda città,
là, verso un altro oceano cosparso di splendore
blu, chiaro, intenso, uguale alla verginità?
Dimmi Agata, talvolta s’alza in volo il tuo cuore?
Il mare, il vasto mare placa i nostri tormenti!
Qual demone ti diede il rauco canto, o mare,
con cui segui, grande organo, il fremito dei venti,
e quell’arte sublime con cui ci sai cullare?
Il mare, il vasto mare, placa i nostri tormenti!
Portami via, vagone! Rapiscimi, veliero!
Lontano! Qui la melma è impastata di pianto!
Quello che dice il cuore triste d’Agata, è vero?
Via, crimini e dolori, fuggiamo dal rimpianto,
portami via, vagone, rapiscimi, veliero!
Come mi sei lontano, paradiso fragrante!
Sotto il tuo chiaro cielo tutto è delizia e amore,
e tutto ciò che s’ama è degno d’un amante,
mentre di pura gioia si diletta ogni cuore!
Come mi sei lontano, paradiso fragrante!
Ma il verde paradiso dei nostri primi amori,
le corse, le canzoni, i baci ed i mazzetti,
e dai colli i violini vibranti di languori
con, a sera, le brocche di vino nei boschetti,
ma il verde paradiso dei nostri primi amori,
il casto paradiso delle gioie furtive,
è più lontano ormai dell’India e della Cina?
Né un grido né un lamento giova a farlo rivivere?
Non si ridesta al suono d’una voce argentina
Il casto paradiso delle gioie furtive?
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