In principio
C’era
un tempo in cui
gli
uomini amavano chi raccontava loro
storie e leggende di vita e di morte, della bellezza e dell’amore. Li
chiamavano cantori o cantastorie, li ascoltavano con attenzione e viva
partecipazione, a volte nella piazza, a volte sotto un grande faggio
sapiente,
una quercia possente o una palma aperta a stella. Era il tempo in cui
gli
uomini si parlavano guardandosi intensamente negli occhi perché
negli occhi
vedevano l’anima e comprendevano la natura dell’uomo. Era il tempo
dell’ascolto
e poi col tempo, a poco a poco la parola si inorgoglì, assunse
toni “alti”,
astratti, concettuali, costruì cattedrali del sapere e
alfabetiche Babeli. Gli
uomini non si guardavano più intensamente negli occhi, non si
ascoltavano più
perché diffidavano l’uno dell’altro. La parola divenne
strumento, per lo più di
quotidiano raggiro, di dominio o fascinazione, divenne statua, a poco a
poco
divenne corpo vuoto. Smarrì il suono dell’antico amore che la
generava e col
suono smarrì il dono. La poesia non fu più quel giardino
luminoso e quel dio
semplice che l’animava, né fu più possibile vedere
l’anima perché divennero
ciechi gli occhi degli uomini come cieche divennero le loro parole. La
luce
cadde a poco a poco e fu buio,
buio assoluto.
Cfr. F. Ghenzovich, Il cielo aperto del corpo. Risvolti di
C. De Luca, Edizioni Kolibris, Bologna 2011.
La prima pelle
Tana era a falde la roccia
punte d’ossa e muscoli in tensione
nel balzo in avanti nel tempo
della pietra nel sangue
d’ istinto un lupo per esempio
ecco quel che abbiamo perso:
la prima vera pelle la sola che ci salva.